Nomadismi e altre peregrinazioni di Maria D'Ambrosio | ||
Il nomade dunque, che è pellegrino, esule o esploratore, come lo sono Gesù e Siddartha, Marco Polo e Cristoforo Colombo, incarna i valori della libertà, dell’ozio e dell’eccesso contrapposti a quelli del controllo, dell’ordine e del profitto. Con la modernità si rafforzano le ragioni dell’erranza e del nomadismo: è la contraddizione generata nel corpo sociale stesso che nella deriva positiva, funzionale, razionale, ha operato pure un ritorno al dionisiaco e al nomadico come “antidoti” al potere delle macchine ideologiche prodotte dalla modernità e dalla sua industria. Struttura e sovrastruttura che pure coltivano, come in una riserva, le proprie contro-culture ovvero dei “movimenti” che esprimono la vitalità delle culture stesse e riconsegnano loro la necessità-possibilità di rinnovarsi e trasformarsi. Maffessoli sostiene che “l’erranza, come un filo rosso più o meno visibile, può essere considerata una costante antropologica che ogni volta di nuovo, non smette di tormentare i singoli individui e il corpo sociale nel suo insieme8”. L’essere in cammino viene cantato e pure temuto. Molteplici e contraddittori i sentimenti che esprime o che evoca. Come oggi i gitani, gli zingari, i rom. Sarà per questo che il Canto del pastore errante dell’Asia di Leopardi (1830) è notturno: collocato cioè in quello spazio-tempo che è la notte, contrapposta alla luce del giorno, in cui ci si apre al mistero, all’indefinito e all’infinito. Altro tema ricorrente nello scenario prodotto dal poeta è la steppa che, oltre che ritornare ne Il lupo della steppa di Herman Hesse (1927), è luogo elettivo per collocare storie di spiriti inquieti e selvaggi il cui coraggio e la cui solitudine sono “cifre” esistenziali che ritrovano proprio nell’aridità della steppa, interrotta solo a tratti, così come nella durezza del paesaggio di montagna e nel deserto, il luogo di cui si ha necessità perché possano ritrovare il senso del fare, tutto riposto in un avventuroso andare, e cavalcare e sconfinare, così che quell’andare, al vento, possa, come il vento, scalfire la pietra, darle forma, come dare forma al proprio essere. La produzione narrativa e letteraria di tutti i tempi, che da orale si è fatta scritta, fornisce gli elementi figurativi e narrativi per elevare il cavaliere errante a categoria e a paradigma che fonda e legittima la mobilità e il cambiamento, che sono nella natura delle cose, individuali e sociali. Paradigma che individua nelle montagne, nel deserto e nella steppa appunto lo scenario che meglio rompe con la folla e con l’edificio moderno, urbano e post-industriale. | ||
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