Io sono leggenda da cinquant'anni, ma qualcosa è cambiato di Roberto Paura
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Eppure, cinquantaquattro anni dopo la pubblicazione del romanzo, questo nuovo Io sono leggenda proposto sui grandi schermi mostra che qualcosa è cambiato; e il film è la spia di come sia cambiata la società in questo lungo lasso di tempo e di come sia cambiata la percezione comune della dicotomia scienza/fede. Innanzitutto, la punizione divina: il morbo che spazza via l’umanità e trasforma una piccola minoranza di “sopravvissuti” in mostruosi vampiri è generato dalla follia prometeica dell’umanità che si illude orgogliosamente di aver trovato la cura per il “male finale”, il cancro. L’incipit del film è un’intervista alla dottoressa che ha scoperto il santo graal della medicina moderna modificando geneticamente il virus del morbillo. “Avete trovato la cura contro il cancro?”, chiede in conclusione l’intervistatrice. “Sì, l’abbiamo trovata!”, sentenzia superba la dottoressa. Il risultato che ci viene presentato subito dopo è un mondo distrutto. Quello che avviene quando si scherza col fuoco; questa è l’idea di fondo che traspare. Robert Neville è qui un medico militare, uomo-copertina del Times in quanto principale scienziato impegnato nello studio del contagio. Diversamente dall’omologo romanzesco non è affatto un uomo qualsiasi, un self-made-man che lentamente impara a usare la ragione. È piuttosto un uomo abituato a lavorare con gli strumenti della conoscenza, un esperto del settore. L’inversione di ruoli è evidente: mentre nel romanzo di Matheson Neville passa dall’ignoranza alla conoscenza e dunque dalla barbarie alla riconquistata civiltà, nel film il protagonista non trova alcuna soluzione o soddisfazione dalla pura conoscenza scientifica. È l’incontro con la giovane Anna, pia e devota madre di famiglia, che cambia tutte le carte in gioco. Non è un caso se la donna-vampiro trattata da Neville all’inizio del film con un vaccino che non dà esiti improvvisamente guarisce: Anna sostituisce alla fede nella scienza di Robert Neville la sua cieca fede in Dio, che nel suo discorso delirante a mo’ di Giovanna d’Arco gli è apparso in sogno e le ha detto di cercare la “Terra promessa”, dove sopravvive uno sparuto gruppo di uomini normali, eletti salvati dalla bontà celeste. La scena della guarigione della donna-vampiro appare come quella delle risurrezione di Cristo, dove Robert è un novello San Tommaso che crede solo in ciò che può essere sottoposto a una verifica empirica. Robert muore, sacrifica se stesso perché in qualche modo ha capito che non c’è più spazio per lui nella nuova società che sta nascendo. Quella sarà una società basata sulla fede, un nuovo Eden dove non esisterà più il peccato originale, mondato grazie al sacrificio di tutta l’umanità. Robert rappresenta il vecchio, ciò che è ancora legato al mondo caduto, quello della scienza e della tecnica fini a se stesse: due valori nel romanzo di Matheson, due mali assoluti nel film di Lawrence. In tutti i casi, sia nel romanzo che nel film, Robert Neville diventa una leggenda. Ma se in Matheson egli rappresenta l’ultima scheggia di razionalità ormai scomparsa e la sua mitizzazione simboleggia il fallimento dell’impresa disperata di decostruire la leggenda diventando egli stesso oggetto di superstizione, nel film Neville diventa leggenda in quanto è grazie al suo sacrificio che l’umanità può ricominciare a vivere. La fede diventa realtà, la scienza diviene leggenda. | ||
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