[ conversazioni ]
Giuseppe Genna,un personaggio in cerca di oblio di Adolfo Fattori |
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Gomorra di Roberto Saviano è stato – di fatto – un grosso fenomeno, anche di costume, a vedere i libri che escono sullo stesso argomento, e la richiesta di suoi interventi su riviste e giornali. Al di là della consueta deriva culturale modaiola che certi fenomeni innescano, ci sembra che – pur venendo da due direzioni opposte (uno la narrativa, l’altro la cronaca) – i vostri libri finiscano quasi per incontrarsi, nei loro esiti, a metà strada. Ti ritrovi in questa affinità?
Stimo molto Saviano, ben da prima che ottenesse il meritato e pure
strabiliante successo che ha ottenuto (pubblicai un suo intervento sui Miserabili,
ne ero entusiasta...). Mi sento vicino a lui nella foga della denuncia
e in certo espressionismo utilizzato, che a me ha fruttato critiche da
parte di certi puristi della lingua, che però non avevano
coscienza dei protocolli stilistici impiegati.
Sebbene si interpreti come cronaca ciò che Saviano ha compiuto con Gomorra, vorrei sottolineare che si tratta di pura narrativa, anche se di denuncia e politicamente molto impegnata e, come si è visto per le sorti dell’autore, impegnativa. Non è un reportage, è un romanzo: solo che si è ormai disabituati a misurare la potenza veritativa e di denuncia dell’attualità da parte del romanzo. Il personaggio Saviano in Gomorra è ovunque, sempre nel posto in cui accade qualcosa, ubiquo, vede tutto, sa tutto – è abbastanza esotico che non venga in mente che questo è un primario artificio retorico che ha in Elemire Zola, probabilmente, il suo ascendente più importante, e in Norman Mailer e Gene Wolfe e Hunter Thompson i rappresentanti contemporanei più in vista. Nei tuoi romanzi appare una forte vena autobiografica: sul lato delle emozioni e degli stati d’animo descritti, quanto su quello della descrizione degli ambienti e dei fenomeni sociali – spesso effimeri – che metti in scena. Quanto pesa la tua biografia reale nei tuoi lavori?
Come osservavo sopra, esiste un personaggio “Giuseppe
Genna”, che è emblematico del nucleo su cui mi sforzo di
lavorare, cioè la categoria di “verosimile”.
È ovvio che parti autobiografiche entrino intatte nella scrittura, ma è altrettanto ovvio che altre siano pura invenzione. |
Tutto ciò è finalizzato a un’opera di
incontro con il lettore: cerco di incontrarlo precisamente in quella
finzione basale, la madre di tutte le finzioni, che è
l’instabile (e mai abbastanza interrogata nella sua quintessenza)
entità “io”.
È l’ “io” e l’autosservazione che viene sbalzata dall’autobiografia in cui io sono Giuseppe Genna e anche “Giuseppe Genna&”. A questo personaggio, come al protagonista della serie thriller, spero di porre fine – è più complesso attuare questa uccisione, ma credo sia giunto il momento di farlo. La tua descrizione dei tic e dei mood dei rampanti italiani anni Ottanta/Novanta – quelli della “Milano da bere” per intenderci – stimola spontaneamente il paragone con i loro coetanei di oggi, su cui abbiamo cercato di ragionare anche noi, ad esempio in Cronache del tempo veloce. Noi vediamo forti differenze. Tu che ne pensi?
La mia prospettiva, su questo tema, mi rende necessario rompere il
fronte ventennale che viene proposto: ci sono per me gli anni Ottanta e
poi c’è un ventennio, i Novanta fino a oggi, in cui
avverto l’esito di un’omologazione e una crescente
intensificazione dell’alienazione a ogni livello, con risultati
devastanti che concernono il disagio sociale e individuale, anzitutto
psico-somatico-emotivo. Oggi, a mio avviso, il lavoro deve essere
condotto in substrato: vanno colpiti nuclei psichici, in cui sono
compressi e rattrappiti gli universali, che si manifestano in forma di
dolore, di sofferenza legata a ogni azione e all’inazione stessa,
all’impossibilità di azione.
In questo, la letteratura
dispone di una potenza, che è l’incanto, capace di
disidentificare la persona dalla religione dei propri traumi, ben
più che condurla al ragionamento profondo come terapia
all’alienazione, che pressa a ogni ora del giorno,
continuativamente, ossessivamente. Bisogna passare dal templarismo
psichico alla coscienza della coscienza, alla percezione che
coscienzialmente ogni possibile può divenire reale. Oggi o non
esiste tic o esiste solo il tic – questo perché viene
imposto un modello sociale che fa saltare l’empatia, attraverso
cui cresce l’immaginario, sia l’individuale sia il
collettivo. L’unica terapia è la mitopoiesi. Il lavoro di
quella che considero la migliore letteratura contemporanea è la
ricerca e l’incarnazione della mitopoiesi. È un lavoro
difficile: va però eseguito, anche a scapito di se stessi, del
proprio nome, della propria riconoscibilità sociale, che non
contano nulla.
Ultima domanda, al volo: il tuo Hitler, Le benevole di Jonathan Littell: solo curiosa coincidenza la loro pubblicazione così vicina, o è giunto il momento di affrontare, per la nostra epoca, anche quell'orrore, con uno sguardo che non sia quello della Shoah, o quello, a volte troppo pudico, dei moralisti?
Al volo, l’ultima risposta: poiché Hitler l'ho terminato mentre usciva Le benevole,
propendo per la seconda ipotesi che formuli. Il che, dal punto di vista
della sollevazione contro una certa mitizzazione diviene essenziale...
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