Maurice Béjart: pensiero e carne nell‘arte di Linda De Feo
|
||
La beat generation, attraversata da
rimbalzi tattili, sensibilizzata da carezze elettroniche, scossa da
“fremiti fermi”4, ha vissuto la schizofrenia della
doppia informazione non genetica, quella alfabetica, lineare, visiva e
quella proveniente dai media elettrici, simultanea, acustica5, giocando
se stessa sul terreno della rivoluzione personale,
dell’ampliamento dell’area della coscienza,
dell’acuita intensità sensoriale.
Reinterpretando in chiave pacifista Roméo
et Juliette, del 1966, o offrendo una versione ispirata
all’ideologia guevarista dell’Oiseau de feu,
del 1970, i protagonisti béjartiani, rapiti dalle
emozioni, in un gioco di tensioni e sospensioni, costituivano i doppi
danzanti dei rivoluzionari sessantottini e riflettevano il desiderio di
libertà di corpi che, ricondotti al centro della propria
esperienza, non tolleravano più gli irrigidimenti provocati
dalle consuetudini convenzionali. I ballerini si allontanavano
dall’apollinea classicità per spingersi sul
terreno dell’estasi dionisiaca, mentre abbandonavano gli
spazi teatrali e trovavano collocazione nelle piazze, nei tendoni da
circo, negli stadi, riconoscendo il territorio su cui esercitare la
propria fascinazione e trasformando fenomeni artistici aristocratici in
coinvolgenti spettacoli di massa6.
La titanica aspirazione all’immortalità,
la bruciante ansia esistenzialistica, la violenta ripercussione del
nulla, il dilaniante dissidio con le paure ancestrali,
l’orgiastica furia della passione hanno animato un
immaginario scatenato dall’esplosione della vita, ma anche
dall’evocazione della morte, dalla rivendicazione della
sessualità, ma anche dall’angoscia della malattia,
come è avvenuto, nel 1997, ne Le
Presbytère n'a rien perdu de son charme, ni le jardin de son
éclat, su musica di Mozart e
dei Queen, il grande successo pop dedicato alle vittime
dell’efferatezza dell’AIDS, “metafora
epocale”7 materializzata nella quotidianità, che ha
trascinato l’uomo nel vortice catastrofico di desideri che
l’hanno ucciso.
Nell’evocativo montaggio del finale del film di
Claude Lelouch Les uns et les autres, del 1981, si
incastona perfettamente la mitica immagine ambivalente di Jorge Donn,
che, palpitante e seminudo, balla l’incalzante ritmo
dell’ardente e sanguigno Bolero di
Maurice Ravel, stagliandosi su una luccicante Parigi dominata dalla
Tour Eiffel, simbolo dell’effimero che diventa permanente,
dell’arte che si trasforma in merce e della vita che si fa
spettacolo.
Indotti a riflettere sul senso dell’opera di
Béjart, nel suo praticare la danza come rigore ascetico e
come travolgente istintualità, nel suo nutrire le opere di esperienza vissuta che continua a vivere, nel suo
mescolare sublimata trivialità e iperrealistica
fisicità, ascoltiamo il racconto di un corpo non antagonista
dell’anima, percepiamo l’espressività
primitiva e al contempo mediata dall’astrazione della tecnica
e cogliamo l’impetuoso, implacabile credo in qualche dio che
deve essersi servito proprio di lui per vedersi danzare. |
||
[1] [2] (3) |
|
||||||
4.
Gabriele Frasca, La scimmia di Dio,
Costa & Nolan, Genova, p. 161. I corpi degli spettatori
televisivi emulano azioni, interpretano gesti, posture, movimenti colti
sullo schermo, mediante una forma di mimica sensomotoria, una sorta di
risposta espressa dalla tensione dei muscoli, un “effetto di
submuscolarizzazione”. Derrick de Kerckhove, The
Skin of Culture, 1995, trad. it. di Maria Teresa Carbone, La
pelle della cultura, Costa & Nolan, Genova, 1996, p.
23.
|
5.
Cfr. Marshall McLuhan, Understanding Media,
1964, trad. it. di Ettore Capriolo, Gli strumenti del
comunicare, Garzanti, Milano, 1986, pp. 101, 103,
105.
|
6.
Se è vero che l’autore,
elaboratore di dati messi socialmente in memoria,
retroagisce a un background antropologico-culturale, e alle strutture
categoriali che regolano la coscienza collettiva, è vero
anche che sul potere di un testo, nel momento in cui la fruizione ne
accende e ne moltiplica i significati, manifesti o latenti, sembrano
convergere tutte le teorie sul concetto di finish
che il consumatore assegna alla merce, nel quale è dato
rinvenire una forza costitutiva dell’intero ciclo produttivo.
Cfr. Alberto Abruzzese, Verso una sociologia del lavoro
intellettuale, Liguori, Napoli, 1979, pp. 184-185; Materiali
di sociologia della letteratura, E. DI. SU., Napoli, 1992, p.
7.
|
7.
Alberto Abruzzese, Metafore della
pubblicità, Costa & Nolan, Genova, 1988,
p. 73.
|
|||
|