L’insostenibile trasparenza dell’anima di Adolfo Fattori



Ed ha ragione il sociologo napoletano quando, riflettendo sugli approdi della post televisione, unifica fiction e reality show – che ha molto “… poco a che vedere con la metafisica del reale: esso costituisce piuttosto uno spostamento di grado nella scrittura della fiction, includendo nella cornice televisiva modelli di pensiero e di comportamento delle nuove soggettività sociali.” (pag. 7, corsivo nostro)

La sfera della realtà e quella dell’immaginario finiscono per compenetrarsi, e il bisogno di consumo dell’intimità – propria, altrui, dov’è la differenza, grazie ai meccanismi di identificazione? – esplode tramite il voyeurismo e l’esibizionismo cui rispondono i talk show in cui il pubblico si sfoga, coppie litigano, amanti si riappacificano, adolescenti denudano la propria anima – spesso anche quelli  frutto di sapienti sceneggiature.

Che sia la mia, o l’altrui vita, il rischio è che i modelli diffusi dai media – e anche dai “nuovi media” – diventino i parametri di organizzazione della propria vita: il must è la coppia calciatore/velina, il soggetto da calendario, la sfinge televisiva che raggiunge il successo riempiendo col nulla gli spazi degli studi televisivi (Genna, Monina, 2005).

La dimostrazione di questa potenza ordinatrice e cogente che promana dalla Tv e dal suo indotto (i portali web, i blog) è ben esemplificata da un episodio specifico: la performance autopromozionale delle cuginette della vittima di un feroce omicidio – il “delitto dell’estate” 2007, l’omicidio di Garlasco – con tanto di fotomontaggio grossolano, e la successiva comparsa sulla scena del fotografo dei gossip appena uscito di galera per una storia di sesso e droga.

Ne parlano in TV, ne parlano i quotidiani. È materia di conversazione, è un evento neutralizzato, mescolato a tanti eventi mediatici dello stesso o di altro tipo: i flirt dei calciatori con le veline, gli scandali finanziari, le polemiche politiche, i vari grandi fratelli. Sul suo potenziale mediatico non possono esserci dubbi, per la quantità di rimandi che ha avuto con l’immaginario collettivo, sia quello della fiction (si pensi a CSI[3]), sia quello della cronaca (un esempio su tutti: Cogne[4]).

Ma alla dimensione scontata di questa sua “qualità” – se così si può dire – si è sovrapposto un doppio “valore aggiunto”, quello legato al cosiddetto mondo dello spettacolo e alla sua popolazione di professionisti e aspiranti guitti, nani e ballerine, presentatori e giornalisti televisivi: dalle malaccorte “gemelline K” al fotografo ricattatore.
Delle due si scopre che avevano già affrontato un provino presso la più grande emittente privata d’Italia per fare le veline. Del secondo si comunica che è arrivato in pompa magna nel paesetto lombardo per “scritturare” appunto le due ragazze. Senza senso della misura, senza senso dell’opportunità.

Perché se lo standard attuale della volontà di sapere è l’esplorazione dell’intimità altrui, allora non ci sono più distanze fra l’interno e l’esterno, fra l’io e gli altri. Fra ciò che è proiettato e trasmesso, e ciò che io stesso posso proiettare e trasmettere – trasformandomi in un “post prosumer”, utente della post televisione – in modo che mentre mi adeguo ai modelli che promanano dagli schermi, riproduco anche il meccanismo della produzione: filmando col mio videofonino o con la mia videocamera l’intimità mia e altrui, e diffondendola attraverso YouTube. Tornano in mente altre parole di Jean Baudrillard, scritte sempre negli anni Settanta del secolo scorso: “Nessuno può farci niente contro questa circolarità delle masse e dell’informazione… Oggi il sapere sull’evento non è che la forma degradata di quello stesso evento” (Baudrillard, 1984, pag. 80).
Oggi, dopo circa trent’anni, potremmo ribaltare la formula, e sostenere a ragione che Oggi, l’evento non è che la versione degradata dell’informazione sull’evento stesso.

E allora qui dobbiamo riprendere alcune questioni più generali, che riguardano i processi di socializzazione, in particolare nell’era dei media, e lo stesso statuto di verità delle informazioni e della comunicazione al tempo del virtuale – e dei videofonini.
La socializzazione, intesa come gestione dell’ingresso delle persone in una certa formazione sociale, è prima di tutto il processo attraverso il quale si negozia e si concorda il sistema di significati  che si assegnano alle cose, ai costumi, alle norme.

Sappiamo bene come questo processo – l’educazione – si basi prima di tutto sulla dimensione affettiva della relazione; del rapporto e della comunicazione con i propri genitori, per cui il bambino impara prima di tutto che, per esempio “… io per mangiare uso il cucchiaio sennò mamma si dispiace.” In seguito imparerò che c’è un sistema di norme che prescrive di usarlo in certi contesti. E così via…

In pratica, la socializzazione  funziona sulla base del rispecchiamento con gli adulti importanti per me.

Le cose in parte si modificano quando strumenti di socializzazione potenti come media basati sugli schermi cominciano a coprire quote sempre più ampie di socializzazione. A quel punto diventano almeno concorrenti alla pari con le agenzie educative tradizionali, come la famiglia e la scuola.
E, come nella socializzazione tradizionale, dopo aver ascoltato a sufficienza imparo anche a parlare, così, dopo aver visto abbastanza, imparo a riprendere-proiettare-trasmettere gli eventi che mi sembrano importanti.
Ci sono esempi, luminosi o meno, drammatici o farseschi, come riferimenti: in fondo, se non fosse stato per qualche videoamatore casuale, non avremmo visto le Twin Towers crollare, i poliziotti del LAPD pestare Rodney King, gli alberghi di Sharm el Sheik esplodere.

E come questi eventi hanno segnato la storia collettiva, così gli eventi registrati con i videofonini segnano la noiosa vita quotidiana dei loro autori, gli permettono di esprimersi direttamente in tutto il mondo, gli regalano (almeno nelle loro aspettative) il famoso “quarto d’ora di celebrità” di cui parlava Andy Warhol.
 


[3] Cfr. M. D’Ambrosio, CSI, dove l’occhio freddo scende, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 4,  http://quadernisf.altervista.org/numero4/crimine1.htm

[4] Cfr. M. Santoro, Il caso Cogne, o la mostra delle atrocità, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 4,  http://quadernisf.altervista.org/numero4/cogne1.htm
 

     [1] [2] (3) [4]