Mr. Vonnegut, un compagno di
strada |
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di Carmine Treanni |
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“Anni fa
ho lavorato per la General Electric a Schenectady e, accerchiato com’ero da
macchine e da idee per macchine, non ho potuto far altro che scrivere un
romanzo che parlasse di persone e di macchine, e in cui spesso le macchine
avevano la meglio sulle persone, come del resto capita nel mondo reale. (Si
intitola Piano Meccanico ed è stato
ripubblicato sia in hard cover che in edizione tascabile). È stato allora che i
critici letterari mi hanno informato del fatto che ero uno scrittore di
fantascienza. Non lo sapevo mica. Pensavo di aver scritto un romanzo sulla
vita, sulle cose che mi toccava vedere e ascoltare a Schenectady, una città più
che reale, un’inquietante presenza nel nostro quotidiano già tanto spaventoso.
Da allora mi hanno fatto entrare a forza in un cassetto etichettato «fantascienza»,
e adesso vorrei tanto uscirne, soprattutto perché molti dei critici più
rispettabili scambiano spesso questo cassetto per un orinale”[1]. Così scrisse Kurt Vonnegut Jr., a proposito della reazione
dei critici al suo primo romanzo Player Piano (1952), pubblicato in Italia sia con il titolo Distruggete le macchine sia con quello
di Piano meccanico. Al di là della sua appartenenza o meno alla fantascienza e
delle sue personali considerazioni sul genere, Vonnegut è senza dubbio uno dei
più grandi cantori del nostro secolo, ma non c’è dubbio che l’apporto che ha
dato al genere è da considerarsi notevole e originale. Sono tre, in particolare i romanzi che vengono considerati
fantascientifici: Piano meccanico, per
l’appunto, Ghiaccio Nove e Le Sirene di Titano.
Le note biografiche di Vonnegut Jr. ci dicono che è nato a Indianapolis, l’11 novembre del 1922, da Kurt Vonnegut
ed Edith Lieber. Terzogenito di una famiglia di origini tedesche (il nonno emigrò
negli USA nel 1848), che perse quasi tutto il patrimonio nella Grande
Depressione del 1929, a
21 anni, nel 1943, lo scrittore si arruola nell’esercito americano e nel 1944,
dopo che sua madre muore suicida, viene catturato in Germania, dove nel 1945
sopravvive al bombardamento di Dresda. Rilasciato dai russi che hanno occupato
la città tedesca, ritorna negli Stati Uniti, dove riceve una medaglia per le
ferite subite in guerra. Questi pochi dati biografici sono il motivo essenziale di un
certo pessimismo di fondo di cui è pervasa la sua narrativa, filtrata però attraverso
la lente della satira. Un pessimismo che nasce dalla consapevolezza che il
sistema dei poteri forti non può che essere combattuto in prima istanza da chi
quel sistema ha contribuito a costruirlo e a renderlo un’efficiente macchina da
guerra, come capita al protagonista di Piano
meccanico, il suo romanzo d’esordio. Scritto nel 1952 all’età di 30 anni, Player Piano è
ambientato in un futuro non troppo lontano, dove l’America, dopo una guerra,
vive nel benessere grazie all’impiego su vasta scala della meccanizzazione. Le
macchine hanno sostituito l’uomo in ogni lavoro manuale. La società è divisa in
due. Da un lato un pugno di tecnici e manager, che proprio durante l’ultima
guerra hanno imparato a produrre senza le maestranze richiamate sotto le armi.
Dall’altro tutti coloro che il basso quoziente d’intelligenza condanna a un
lavoro manuale che oggi non esiste più. Paul Proteus è il tecnocrate più
giovane e promettente, colui che è destinato a diventare leader dei manager in
questa società che ha nelle macchine il proprio fulcro. Proteus, spalleggiato da un’ambiziosa moglie, più si
avvicina al ruolo a cui è stato destinato più i dubbi su ciò che l’America è
oggi si insinuano nella sua mente. Infiltrato dai suoi capi in una bislacca
setta rivoluzionaria, Proteus sfugge al loro controllo e diventa rapidamente il
capo dei congiurati. I cittadini si sollevano e si gettano su quello che credono
il loro nemico: la civiltà delle macchine. Ben presto, tuttavia, si
accorgeranno che l’obiettivo era sbagliato. La civiltà ha bisogno delle macchine e i ribelli, incapaci di cavarsela senza
il loro aiuto, si vedranno costretti a ricostruirle. Quella di Vonnegut non è solo una denuncia contro la
società tecnologica, di cui l’America era ed è la principale artefice, ma anche
contro una certa massificazione della vita che annienta l’individualità
dell’uomo. Paul Proteus, il protagonista del romanzo, matura a poco a poco la
consapevolezza che l’affidare alle macchine il lavoro che per secoli l’uomo ha
compiuto con le proprie mani e il proprio intelletto è una strada sbagliata. Ma
non solo. Quella che si è realizzata, nel nome della liberazione dell’uomo dalle
fatiche inflitte dal lavoro e dagli affanni della vita, è una vera e propria
dittatura. Non sono quindi le macchine, il bersaglio da colpire, ma quei
burocrati-tecnocrati che di esse si sono servite per dominare gli altri uomini.
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