Il giudizio dei
mostri. Il fantastico italiano |
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di Vittorio Frigerio |
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Basta entrare in qualsiasi libreria,
percorrere gli scaffali della prima biblioteca incontrata, o anche ormai
solamente accendere lo schermo del computer (come hanno fatto coloro che
leggono ora queste parole), per rendersi conto che il campo dello studio della
letteratura non è decisamente più quello che era solo pochi anni or sono, e che
è anzi cambiato in modo tale da risultare in effetti irriconoscibile rispetto a
ciò che praticavano le generazioni precedenti; o anche solamente quelli tra noi
che si ricordano ancora quali fossero le regole in vigore nelle scuole e negli
atenei due o tre decenni or sono. La reiterazione inarrestabile e immutabile
degli stessi schemi, delle stesse gerarchie di valori, degli stessi nomi,
mummificati dalle antologie e imbalsamati dai discorsi rituali di una critica
che identificava il vero con
l’assorbimento rituale di
giudizi reputati eterni,
lascia sempre di più spazio a tentativi di costruire un’altra storia
letteraria. La luce dei riflettori si sposta sulle vaste zone d’ombra che erano
dapprima state neglette per lo più per principio, considerate com’erano indegne
dell’attenzione delle vestali del tempio della qualità. Ci è voluto molto tempo
perché i risultati dello sviluppo tecnico che ha permesso il fiorire della
cultura di massa – e l’alfabetizzazione generalizzata delle classi più povere,
e la scuola dell’obbligo, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti – portassero
a conseguenze visibili, e non più facilmente trascurabili, non solo nella
produzione letteraria, ma anche nella riflessione critica. Ci si è resi conto,
infine, come afferma Peter Swirski, che una critica che esclude, senza neppure
degnarsi di prenderne conoscenza, il novantacinque per cento di quanto si
pubblica nel campo letterario, si dimostra incapace di offrire giudizi validi e
ponderati, e si allontana dunque sempre più da quanto una critica autentica è
supposta potere e dover fare[1].
Questo movimento ha progredito in
modi diversi e a velocità variabili a seconda dei paesi e delle culture. La
cultura anglosassone, dove la letteratura di massa ha conosciuto i suoi esordi,
dispone già di una tradizione consolidata di ricerca su fenomeni che altrove
ancora si tacciano erroneamente di “marginali”, e ha fatto posto fin nelle
università più rinomate a corsi di studio su svariati aspetti delle letterature
“di genere” e delle culture mediatiche. I cultural
studies, per quanto talvolta discutibili, hanno saputo investire
trasversalmente i campi di studio tradizionali e mostrare le vaste possibilità
presenti in un approccio diverso, multilaterale, del letterario. In campo
francese, dove da quasi duecento anni si assiste allo sviluppo di una cultura
“popolare” rigogliosa e largamente diffusa, i lavori critici, pur non essendo
ancora riusciti ad imporsi in misura simile a quella delle nazioni
anglosassoni, occupano uno spazio pur sempre notevole e che va gradatamente
crescendo. L’Italia, in questo settore come in altri, pare invece ancora
largamente prigioniera di un suo provincialismo profondamente radicato, che la
porta a seguire le direzioni tracciate da altri solo quando è ovvio che ciò non
presenta più alcun rischio. In un tale ambiente culturale si deve salutare con
tanto più piacere e soddisfazione un lavoro come quello recentemente pubblicato
da Fabrizio Foni per i tipi dell’editore Tunué: Alla fiera dei mostri.
Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932;
volume idealmente incorniciato da una Prefazione di Luca Crovi (autore tra
l’altro del bello studio Tutti i colori del giallo, dedicato al
poliziesco italiano), e una Postfazione di Claudio Gallo, il conoscitore più
noto di Emilio Salgari. Lo studio di Foni merita d’essere
diffuso e apprezzato per tutta una serie di ragioni. Per la serietà
dell’impresa, frutto di lungo ed accurato lavoro di ricerca. Per la sua
originalità indubbia, visto che per quanto ne sappiamo finora nessuno si era
neppur sognato di andare a frugare nelle pagine ingiallite delle vecchie
riviste che dominavano il panorama giornalistico dell’inizio del Novecento, per
esaminare quale fosse l’idea di letteratura che esse propagavano. E infine in
quanto rappresenta, in Italia, uno dei primi veri tentativi sistematici di
allargare lo studio della letteratura a zone fino ad adesso considerate terre
brulle, infide, panorami desertici dove non vi può essere per definizione nulla
da scoprire. Ci si può augurare, come stima Claudio Gallo, che l’apparire di
questo lavoro sia il sintomo di un sovvertimento naturale e inevitabile, in
quanto l’autore “fa parte di una nuova generazione di ricercatori, che
ambiscono a rinnovare la storia editoriale, la storia del giornalismo e,
soprattutto, la storia letteraria italiana. [...] Per una ragione semplice ed
evidente: quelli che pochi decenni fa leggevano romanzi d’avventure o di
fantascienza, che ascoltavano la nuova e dirompente musica rock,
frequentavano le sale cinematografiche in cui erano proiettati i film western
della migliore stagione hollywoodiana, si trovano ora a poter decidere” (pagg. 308-9).
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