The Others: inganni d’altri tempi nella poetica di Alejandro Amenábar  di Linda De Feo


La tensione narrativa mai tradita si nutre di progressivi disvelamenti, diretti verso lo spiazzante rovesciamento delle aspettative, il ribaltamento tramico del geniale colpo di scena conclusivo, che non prevede sintesi salvifica, in cui gli opposti, pur cessando di confliggere, non contemplano alcuna forma di superamento, di Aufhebung e non trovano alcuna consolante pacificazione sul terreno di battaglia di un’esistenza “che vive del negare e del consumare se stessa”[4]. Il graduale ingresso della luminosità si rivela determinante per comprendere il finale sovvertimento di prospettiva, che, con unheimliche[5] potenza drammatica, investe il disorientato spettatore, inducendolo a rielaborare i propri schemi percettivi, a riorganizzare le sollecitazioni provenienti da un mondo che si mostra sempre più mendace e che sconvolge criteri e parametri di un ordine sensoriale inaffidabile e fallace.

Lo smarrito pietrificarsi di Grace di fronte alla propria immagine riflessa dallo specchio conservato in soffitta prelude al definitivo palesamento di una condizione, che, dopo l’incrociarsi di più mondi, facendo riguadagnare una linearità al percorso degli eventi, ricuce tragicamente lo sfrangiato tessuto dell’esperienza. Alla scoperta si giunge non attraverso la validità di una logica opera di deduzione, bensì grazie alla sconcertante metamorfosi di colei che da protagonista della rivelazione diventa strumento di essa, smarrendo il senso del proprio ruolo, per reperire drammaticamente la propria originaria identità, per ricordare miseramente i propri terribili misfatti, sciogliendo così l’inganno dell’assoluta e dogmatica possibilità di conoscenza e di perfezione da parte dell’essere umano.

L’atterrito sbigottimento della madre-padrona, che scopre morti se stessa, i figli e la servitù, richiama l’inconsolabile disperazione di tutti gli esseri costretti ad affrontare senza difese i propri ospiti ostili, la propria diversità, a riconoscersi irrimediabilmente come altro da sé, riecheggiando l’urlo di sofferenza dei personaggi di certa letteratura fantascientifica, spesso anime smarrite nelle successioni senza soluzione di deliri allucinatori o androidi troppo empatici investiti dall’improvvisa falsificazione delle loro apparentemente umane esistenze[6]. Si coglie il rimando angosciante a Cole, piccolo protagonista de Il sesto senso di M. Night Shyamalan (ovvero Manoj Nelliyattu Shyamalan),  terrorizzato dalla visione dei morti, e al suo mondo bugiardo, a sua volta ineludibile rinvio al dickiano universo entropico descritto in Ubik, che imprigiona un gruppo di sopravvissuti a un’esplosione, i quali finiranno per scoprire di esser morti, senza nemmeno la certezza di un approdo a un’ultima verità[7].

Ipotetiche realtà e nevrotiche amnesie si stringono in un nodo indissolubile di paura e morte, intrappolando in devastanti ossessioni figure strappate al flusso del tempo, icone del dolore, che sembrano aleggiare tra frammenti di immagini e residui di pensiero. Nel dibattersi delle forme vitali, prima catturate e poi liberate dalla materia e dall’energia, l’evento ultimo, che trascende tutti i processi, vanificandone gli sviluppi, presenta i contorni sfuggenti dell’indefinito, i tratti sbiaditi di un’illusoria esistenza, sospesa tra il suo inizio e il suo termine, che trascina miseramente brandelli di coscienza destinati a estinguersi, metafore di ciò che disperatamente resiste alla sua stessa fine.

Il corso della destinazione non può essere invertito e con l’efferata trasformazione del rimando di vita nel suo ineludibile contrario si ribadisce il valore di quello che epistemologicamente e ontologicamente si svela come l’unico istante di possibile verità.

Nel gioco di dissolvenze, in cui all’illusione si sostituisce la realtà, all’innocenza il peccato e alla vita la morte, di fronte all’apparizione dell’indomabile declino del tempo, sarà l’anamnesi, l’annullamento della dimenticanza attraverso il recupero di reminiscenze sepolte, il feroce ricordo del duplice figlicidio a condannare per sempre l’umanità derelitta che popola pervicacemente la solitudine della suggestiva dimora, narrandone le sventure, acclarandone i segreti e facendone affiorare, nel rifulgere della luce, l’insopprimibile angoscia all’esplosivo contatto con la soglia fluttuante del confine.
 

 

[4] Friedrich Nietzsche,  Unzeitgemässe Betrachtungen, Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1873-76, trad. it. di Sossio Giametta, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973,  p. 7.

[5] Il termine unheimlich indica “il contrario di un aggettivo, e di un avverbio, derivanti da Heim, casa, dimora, focolare, ‘paese’, dunque il termine indica l’opposto della condizione in cui ci si sente ‘tranquilli’, ‘a casa’: spiacevole, sospetto, spaventoso, tremendo, terrifico”. Giuseppe Di Costanzo, La paura del Signore è il principio della sapienza, in Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2003.

[6] Per citare alcuni esempi emblematici basti ricordare le seguenti opere: Ph. K. Dick, Martian Time-Slip, 1964, trad. it. di Carlo Pagetti, Noi Marziani, Roma, Fanucci, 1998; Id., Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968, trad. it. di Riccardo Duranti, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Roma, Fanucci, 2000; Id., The Electric Ant, “The Magazine of Fantasy & Science Fiction”, October 1969, trad. it di Angelo Campana, Le formiche elettriche, in Id., Le presenze invisibili, Vol. IV, Milano, Mondadori, 1994 e Id., A Scanner Darkly, 1977, trad. it. di Gabriele Frasca, Un oscuro scrutare, Fanucci, Roma, 1998.

[7] Ubik, 1969, trad. it. di Gianni Montanari, Ubik, Fanucci, Roma, 1999.

 

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