La costruzione cinematografica della realtà (seconda parte) di Luca Bifulco


E, se tra l’Otto e il Novecento l’Io sembra un’entità ormai senza speranza,[4] l’immaginario postmoderno ha di sicuro fatto sua questa rappresentazione spesso dolorosa. Attualmente, l’identità è raffigurata con forza come soggetta a continue metamorfosi. Il suo aspetto è sovente dipinto come multiforme. La sua continua adattabilità ha lo scopo di fronteggiare, in parte elaborare e metabolizzare, i continui stimoli che un’esistenza sempre più frenetica e ricca di bombardamenti sensoriali, informativi, esperienziali induce. Abbondano così definizioni come “Sé saturo”, “Sé proteiforme”, oltre che elaborazioni dell’identità come una serie di Io molteplici, sovrapposti, duttili e compresenti.[5] La nozione di carattere, inteso come insieme degli aspetti duraturi della personalità, può sembrare definitivamente oltrepassata, e c’è chi ne associa la crisi soprattutto alla cruda flessibilità che si impone oggi nel mondo lavorativo.[6]

È parere ormai egemone che l’interiorità dell’individuo non sia più un costrutto compatto, durevole e rassicurante. La concezione di un soggetto autonomo del pensiero e dell’azione si decentra, si disperde, in particolar misura, nel flusso estatico di dati, di comunicazioni, di esperienze che forgiano la rappresentazione di un uomo in balia dei sistemi e delle reti informative di cui entra a far parte, incapace di far radicare l’immenso e sfuggente quantitativo di input, dunque incapace di elaborare risposte indipendenti ed effettivamente razionali. Nemmeno il corpo rappresenta più un vero e proprio confine dell’individuo, di cui si avverte lo smarrimento nelle reti di messaggi costanti ed invasivi, nelle continue seduzioni che lo colpiscono.[7]

D’altronde, l’uomo contemporaneo è sovente concepito come un ricercatore instancabile che non vuole privarsi, a priori, di tutte le possibilità che gli si aprono innanzi. C’è chi, come Bauman, lo definisce un uomo modulare,[8] ovvero un individuo che in ogni occasione si munisce di una forma diversa, che cambia senza sosta, che assume una pluralità di maschere, ruoli, stili temporanei, magari anche in esplicita contraddizione tra loro. Secondo una simile impostazione, l’identità vivrebbe una condizione di costante precarietà, mentre ogni ipotesi di stabilità duratura risulterebbe decisamente vana. Bauman disserta così di personalità corte, effimere, che si elaborano grazie all’apporto di oggetti usa e getta, segnati da un’obsolescenza rapidissima. Questi infoltiscono, però, una serie di kit simbolici caduchi e provvisori con cui ogni individuo presume di poter alimentare la propria identità, all’insegna del più puro spirito edonistico. Allora, egli non appare più un approvvigionatore di beni durevoli atti a plasmare una personalità solida e costante nel tempo, ma un collezionista di piaceri, o, meglio, un cercatore di sensazioni.[9] Nei modelli del consumo effimero egli pensa, in sostanza, di trovare riferimenti nutrienti per la propria identità. Tutto però può rivelarsi illusorio, perché, nell’alternanza frenetica di consumi differenti, è difficile che l’appagamento sia effettivamente durevole.

La condizione postmoderna pare dunque concentrarsi prioritariamente nella dimensione del presente, che assume una connotazione dispotica. Si tratta, d’altronde, di una sensazione che in parte sembra riecheggiare quell’immaginario molto diffuso nell’epoca da noi presa in esame precedentemente. L’immagine della liquidità, con cui Bauman interpreta la contemporaneità all’insegna della transitorietà di mode, rapporti lavorativi, legami affettivi, conoscenze, ideologie, procedure tecniche, ecc.,[10] non sembra poi tanto lontana – almeno nel suo aspetto simbolico – dall’idea di cambiamento vorticoso e privo di direzione che pervade le teorie di tanti intellettuali nel periodo tra l’Otto ed il Novecento. Perfino l’illustrazione – cara a Marx ed Engels – di un’epoca in cui tutto quanto è stabile e solido tende a dissolversi sotto l’azione dirompente dello stesso impeto borghese, sembra anticipare di più di un secolo – o quanto meno fornirne un implicito spunto simbolico – la celebre nozione della modernità liquida, con cui Bauman raffigura l’era postmoderna dove ogni istituto cambia continuamente forma.

L’arsenale di rappresentazioni con cui la postmodernità è descritta come pervasa da una cultura o addirittura da una tirannia del presente, dove in pratica si considera l’hic et nunc il riferimento costante di ogni forma d’azione e di interpretazione dell’esistenza, sembra dunque avere radici ben sedimentate nel pensiero. Anche la raffigurazione che ritrae l’individuo postmoderno come una sorta di nomade che vaga senza sosta e senza meta, che si ammanta di identità momentanee, privo di progettualità, vivendo semplici episodi slegati ed a se stanti,[11] appare una versione allarmistica di un immaginario, forse un po’ più speranzoso in una certa sua ottica libertaria, molto diffuso tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo.

Insomma, l’immagine del mutamento fine a se stesso, il privilegio accordato alle brevi durate, la mancanza di convincenti sguardi prospettici in grado di rendere florida la memoria e pianificare con decisione l’avvenire, l’istantaneità pervasiva degli scambi, sembrano attestare in maniera decisiva, nella postmodernità, la radicalizzazione di quelle difficoltà della nozione lineare del tempo già riscontrate. Oggi è davvero epidemica, specie nella comunità intellettuale, la sensazione che lo sguardo privilegiato verso un futuro da costruire, insieme alle categorie della continuità storica e del progresso, facciano parte di una visione del mondo forse troppo vaga e difficilmente attendibile. C’è, infatti, gran parte del pensiero contemporaneo che considera, spesso con timore, il tempo come fermatosi in un presente esteso ed improduttivo. Secondo molti l’attimo si è forse fermato, nel senso, però, che ogni istante non pare prender parte ad alcun percorso, ma sembra bloccarsi in uno status intransitivo. In questa architettura simbolica rimbombano allora i fragori del pensiero della crisi, si riaffacciano immagini di discontinuità che reclamano, ancora una volta, sforzi innovativi per poter dire sì alla vita.
 


[4] Cfr. John W. Burrow (2000), La crisi della ragione. Il pensiero europeo 1848-1914, cit., p. 257.

[5] Cfr. Robert Jay Lifton (1993), The Protean Self. Human resilience in an age of fragmentation, Basic Books, New York; Kennet J. Gergen (1991), The saturated self. Dilemmas of identity in contemporary life, Basic Books, New York. Per uno studio accurato sulle riflessioni in merito all’identità, cfr. Gianfranco Pecchinenda (1999), Dell’Identità, Ipermedium libri, Napoli.

[6] Cfr. Richard Sennett (1998) L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2003.

[7] A titolo meramente esemplificativo, in merito all’idea di un uomo smarrito nei complessi di informazione, cfr. Paul Virilio (1984), Lo spazio critico, Edizioni Dedalo, Bari 1998; Id. (1998), La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000. Un po’ tutta la bibliografia del filosofo transalpino è, in verità, attinente. Per un resoconto approfondito del suo pensiero, cfr. Luca Bifulco, Guido Vitiello (2004), (a cura di), Sociologi della comunicazione. Un’antologia di studi sui media, Ipermedium libri, Napoli.

[8] Cfr. Zygmunt Bauman (1999), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 159-163.

[9] Cfr. Zygmunt Bauman (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 111.

[10] Cfr. Zygmunt Bauman (2000), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.

[11] Cfr. Zygmunt Bauman (1992), Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità ed altre strategie di vita, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 220-225.
 

     [1] (2)