La costruzione cinematografica
della realtà (seconda parte) |
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E, se tra l’Otto e il Novecento l’Io sembra un’entità
ormai senza speranza,[4]
l’immaginario postmoderno ha di sicuro fatto sua questa rappresentazione spesso
dolorosa. Attualmente, l’identità è raffigurata con forza come soggetta a
continue metamorfosi. Il suo aspetto è sovente dipinto come multiforme. La sua
continua adattabilità ha lo scopo di fronteggiare, in parte elaborare e
metabolizzare, i continui stimoli che un’esistenza sempre più frenetica e ricca
di bombardamenti sensoriali, informativi, esperienziali induce. Abbondano così
definizioni come “Sé saturo”, “Sé proteiforme”, oltre che elaborazioni
dell’identità come una serie di Io molteplici, sovrapposti, duttili e
compresenti.[5] La
nozione di carattere, inteso come
insieme degli aspetti duraturi della personalità, può sembrare definitivamente
oltrepassata, e c’è chi ne associa la crisi soprattutto alla cruda flessibilità
che si impone oggi nel mondo lavorativo.[6] È parere ormai egemone che l’interiorità dell’individuo
non sia più un costrutto compatto, durevole e rassicurante. La concezione di un
soggetto autonomo del pensiero e dell’azione si decentra, si disperde, in
particolar misura, nel flusso estatico di dati, di comunicazioni, di esperienze
che forgiano la rappresentazione di un uomo in balia dei sistemi e delle reti
informative di cui entra a far parte, incapace di far radicare l’immenso e
sfuggente quantitativo di input, dunque incapace di elaborare risposte
indipendenti ed effettivamente razionali. Nemmeno il corpo rappresenta più un
vero e proprio confine dell’individuo, di cui si avverte lo smarrimento nelle
reti di messaggi costanti ed invasivi, nelle continue seduzioni che lo
colpiscono.[7] D’altronde, l’uomo contemporaneo è sovente concepito come
un ricercatore instancabile che non vuole privarsi, a priori, di tutte le
possibilità che gli si aprono innanzi. C’è chi, come Bauman, lo definisce un uomo modulare,[8]
ovvero un individuo che in ogni occasione si munisce di una forma diversa, che
cambia senza sosta, che assume una pluralità di maschere, ruoli, stili
temporanei, magari anche in esplicita contraddizione tra loro. Secondo una
simile impostazione, l’identità vivrebbe una condizione di costante precarietà,
mentre ogni ipotesi di stabilità duratura risulterebbe decisamente vana. Bauman
disserta così di personalità corte, effimere, che si elaborano grazie all’apporto
di oggetti usa e getta, segnati da un’obsolescenza rapidissima. Questi
infoltiscono, però, una serie di kit simbolici caduchi e provvisori con cui
ogni individuo presume di poter alimentare la propria identità, all’insegna del
più puro spirito edonistico. Allora, egli non appare più un approvvigionatore di beni durevoli atti
a plasmare una personalità solida e costante nel tempo, ma un collezionista di piaceri, o, meglio, un cercatore di sensazioni.[9]
Nei modelli del consumo effimero egli pensa, in sostanza, di trovare
riferimenti nutrienti per la propria identità. Tutto però può rivelarsi
illusorio, perché, nell’alternanza frenetica di consumi differenti, è difficile
che l’appagamento sia effettivamente durevole. La condizione postmoderna pare dunque concentrarsi
prioritariamente nella dimensione del presente, che assume una connotazione
dispotica. Si tratta, d’altronde, di una sensazione che in parte sembra
riecheggiare quell’immaginario molto diffuso nell’epoca da noi presa in esame
precedentemente. L’immagine della liquidità,
con cui Bauman interpreta la contemporaneità all’insegna della transitorietà di
mode, rapporti lavorativi, legami affettivi, conoscenze, ideologie, procedure
tecniche, ecc.,[10] non
sembra poi tanto lontana – almeno nel suo aspetto simbolico – dall’idea di
cambiamento vorticoso e privo di direzione che pervade le teorie di tanti
intellettuali nel periodo tra l’Otto ed il Novecento. Perfino l’illustrazione –
cara a Marx ed Engels – di un’epoca in cui tutto quanto è stabile e solido
tende a dissolversi sotto l’azione dirompente dello stesso impeto borghese,
sembra anticipare di più di un secolo – o quanto meno fornirne un implicito
spunto simbolico – la celebre nozione della modernità liquida, con cui Bauman
raffigura l’era postmoderna dove ogni istituto cambia continuamente forma. L’arsenale di rappresentazioni con cui la postmodernità è
descritta come pervasa da una cultura o addirittura da una tirannia del
presente, dove in pratica si considera l’hic
et nunc il riferimento costante di ogni forma d’azione e di
interpretazione dell’esistenza, sembra dunque avere radici ben sedimentate nel
pensiero. Anche la raffigurazione che ritrae l’individuo postmoderno come una
sorta di nomade che vaga senza sosta
e senza meta, che si ammanta di identità momentanee, privo di progettualità,
vivendo semplici episodi slegati ed a se stanti,[11]
appare una versione allarmistica di un immaginario, forse un po’ più speranzoso
in una certa sua ottica libertaria, molto diffuso tra il diciannovesimo ed il
ventesimo secolo. Insomma, l’immagine del mutamento fine a se stesso, il
privilegio accordato alle brevi durate, la mancanza di convincenti sguardi
prospettici in grado di rendere florida la memoria e pianificare con decisione
l’avvenire, l’istantaneità pervasiva degli scambi, sembrano attestare in
maniera decisiva, nella postmodernità, la radicalizzazione di quelle difficoltà
della nozione lineare del tempo già riscontrate. Oggi è davvero epidemica,
specie nella comunità intellettuale, la sensazione che lo sguardo privilegiato
verso un futuro da costruire, insieme alle categorie della continuità storica e
del progresso, facciano parte di una visione del mondo forse troppo vaga e
difficilmente attendibile. C’è, infatti, gran parte del pensiero contemporaneo
che considera, spesso con timore, il tempo come fermatosi in un presente esteso
ed improduttivo. Secondo molti l’attimo si è forse fermato, nel senso, però,
che ogni istante non pare prender parte ad alcun percorso, ma sembra bloccarsi
in uno status intransitivo. In questa architettura simbolica rimbombano allora
i fragori del pensiero della crisi, si riaffacciano immagini di discontinuità
che reclamano, ancora una volta, sforzi innovativi per poter dire sì alla vita.
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