La costruzione
cinematografica
della realtà |
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di Luca Bifulco |
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L'idea di tempo della modernità,
insomma, cresce in parallelo attraverso l’approfondimento di alcune tematiche
che emergono dalla cinematografia classica e il lavoro di ricerca di
molteplici intellettuali la cui analisi si sviluppa lungo tutto il periodo di
transito dal XIX al XX secolo. Buona parte del pensiero
tardomoderno sembra pescare in un repertorio di immagini, di
figure, di apparati simbolici che prende forza proprio tra l'Otto ed il
Novecento (che è poi il periodo storico che vive maggiormente la prepotenza
di un cambiamento energico). L’immaginario elaborato tra la fine dell’Ottocento e la
prima metà del Novecento che si oppone a numerose categorie precipue del pensiero
moderno – a volte, in modo quasi paradossale, semplicemente estremizzandone gli
aspetti dinamici fino alla massima convulsione – finisce per costituire un
repertorio simbolico particolarmente florido. I fondamenti di simili
rappresentazioni, centrate sull’idea della discontinuità, se vogliamo del
frammento, dell’effimero, della velocità senza meta, dell’irriducibile
pluralità di esperienze e stimoli, costituiranno un punto di riferimento
figurativo di notevole influenza.
Addirittura, anche il pensiero cosiddetto postmoderno – o
tardomoderno – sembra pescare molto spesso in quell’inventario simbolico nei
cui confronti esibisce, quanto meno, marcate analogie. Ciò se proprio non si
vuole parlare di implicite forme di ispirazione. È vero che ci riferiamo a due
momenti diversi della storia occidentale. L’epoca a noi contemporaneità è piena
di aspetti decisamente peculiari, che radicalizzano, nel bene o nel male, quel
senso di provvisorietà, frammentarietà e veloce avvicendamento di conoscenze,
esperienze, relazioni. Si pensi al flusso enorme di dati che affollano le reti
telematiche e i nuovi mezzi di comunicazione in genere, susseguendosi
rapidissimamente ed indicando la preponderanza della simultaneità, del real time nell’esistenza in una società
fondata sull’informazione – sebbene tutto questo sia stato in qualche modo
anticipato dalle primigenie forme di comunicazione a distanza come il telegrafo
e il telefono. Inoltre, oggi si vive anche un’epoca in cui tutti i legami, da
quelli amorosi fino a quelli lavorativi, sembrano godere di una vigorosa
instabilità dall’intensità inimmaginabile. A lei si deve quella forte e spesso
inquietante sensazione, di sicuro non completamente ingannevole, di
predominanza dei brevi intervalli temporali. Ma, nell’interpretazione delle condizioni contemporanee,
in quella costruzione intersoggettiva dei significati – siano essi molto
attendibili o potenzialmente artificiosi e poco convincenti – con cui si è
cercato di dare senso alla nostra epoca, il pensiero ha potuto confrontarsi con
un insieme molto fertile di figure, rappresentazioni, definizioni elaborato tra
il diciannovesimo ed il ventesimo secolo. Una collezione intensa, sofisticata,
ingegnosa di elaborazioni simboliche che ha di certo fornito validi ausili per
la strutturazione delle modalità condivise di percezione e penetrazione della
contemporaneità. Se la realtà è una costruzione sociale, la realtà postmoderna
è stata elaborata anche grazie ai mattoni del pensiero otto e novecentesco. Si pensi all’idea, generalmente accettata, della
postmodernità come di una pluralità di dimensioni e sfere autonome,
frammentate, che caratterizzano sia l’esistenza individuale che gli istituti
collettivi, come quelli relativi all’ambito politico, economico, ecc.[1]
In una simile società, stracarica di informazioni simultanee, ogni uomo è
raffigurato spesso come preda di molteplici stimoli conoscitivi, mentre molti
lamentano la perdita dell’abitudine ad elaborare teorie razionali, a ragionare
secondo sequenze precise di causa ed effetto. Un po’ come la sensazione, da noi
analizzata nei paragrafi precedenti, che molti intellettuali moderni hanno
sperimentato di fronte allo spaesamento dell’esperienza metropolitana. Ed oggi sono in tanti che presumono di offrire
dimostrazioni, spesso ricche di toni sofferti, in merito alla dissoluzione
definitiva di ogni linea guida nell’agire. Così, si parla, ad esempio, della
crisi delle istituzioni moderne come lo Stato nazionale. Oppure si dichiara la
fine delle grandi narrazioni, intesa come lo sbocco estremo di un processo che
ha portato allo smacco definitivo delle ideologie e delle interpretazioni
solide del mondo, ma anche al declino dell’idea che sia possibile fornire
spiegazioni scientifiche, oggettive della realtà.[2]
Infatti, oggi la verità di ogni argomentazione appare sempre discutibile,
mentre il sapere si sfaccetta in molteplici schegge isolate e sfilacciate. Ogni
tradizione, ogni conoscenza, ogni idea, ogni teoria, ogni ragionamento, anche
quello più incoerente, pare reclamare la propria attendibilità. Si crea un
agglomerato, anche contraddittorio, di riflessioni, concezioni, saperi
eterogenei, spesso passeggeri, che sembrano alimentare quel forte senso di
frammentazione, di dispersione, di propagazione e circolazione veloce,
incontrollabile di segni ed idee di breve durata, capaci di scalzarsi
vicendevolmente di continuo. Una rappresentazione della pluralità indissolubile
del reale che, per quanto esplicitata in forme peculiari, non pare
completamente innovativa se pensiamo alle molteplici formulazioni omologhe del
recente passato o a chi, da Nietzsche a Ortega y Gasset, ha affermato, in
contrasto al razionalismo classico, che esiste un tipo di realtà per ogni punto
di vista.[3]
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(1) [2] |