Le meditazioni meridiane di Albert Camus di Angela Durini


La figura di Ulisse contiene, invece, un moto doppio, andare e tornare, terra e mare: in lui l’equilibrio. E nel “doppio”, nell’ambivalenza, risiede la tragicità della condizione umana, come tragicamente artistica è la declinazione del sé attraverso un doppio immaginario, fonte di salvezza, perché noi siamo ciò che raccontiamo, l’identità è narrazione. Di qui il Sé artistico[6], frutto di un artificio, finzionale, Sé tragico, tragicamente umano, troppo umano, per dirla con Nietzsche.

E leggendo lo Zibaldone di Leopardi, si scopre immediatamente una forte affinità, seppure sottilissima, con Camus. Ebbene, nello Zibaldone Leopardi scrive dell’eminenza meridionale, cogliendo il rapporto tra ragione e immaginazione. Il popolo meridionale, come gli antichi, ha la sua caratteristica peculiare nel primato dell’immaginazione, mentre l’attivismo e il primato della ragione identificano l’identità settentrionale-moderna. Per intenderci, la nostra civiltà è diventata ormai “settentrionale”, fondata sull’attivismo e sulla produttività. E di qui l’attualità di Leopardi: solo l’immaginazione meridionale può riconciliare l’uomo alla natura, proponendo un’ultrafilosofia che salvi dalla strage delle illusioni che la modernità, quella inaugurata da René Descartes, ha compiuto. Ed ancora solo l’immaginazione può superare il cinico individualismo dei tempi moderni, consentendo all’uomo di trascendere i piccoli tempi e i piccoli spazi del presente, l’hic et nunc. E si disvela la dimensione salvifica dell’immaginazione leopardiana in quel balcone davanti al mondo de La Maison devant le monde di Camus: è lì la duplice dinamica del pensiero di Leopardi cristallizzata così bene da Francesco De Sanctis in queste parole: “odia la vita e te la fa amare, dice che l’amore e virtù sono illusioni, e te ne accende nell’anima un desiderio vivissimo”. Anche Nietzsche, seguendo Leopardi, dirà che le illusioni dell’arte sono la condizione unica ed essenziale della sopravvivenza, verso un approccio artistico alla vita, infinito e poetico amore per la vita.

 

  

E in Camus Sisifo diventa, dunque, l’emblema dell’uomo riconciliatosi con se stesso, perché, anche se l’esistenza è assurda, va sostenuta a testa alta. Noi siamo gettati nel mondo, per dirla con Martin Heidegger, ma siamo anche dei combattenti. E da una mera comprensione ontica del mondo come mero dato, dall’oblio dell’essere, alla celebrazione del mondo della vita, verso un’esistenza autentica. Ne La ginestra di Leopardi tutto il suo pessimismo agon-istico: e nell’agòn, duro combattimento che ciascuno di noi ingaggia con la vita, risiede il valore dei nostri quotidiani slanci eroici.

Camus, diviso tra due mondi, da una parte la Francia, dall’altra l’Algeria, avverte, paradossalmente, la presenza nell’assenza, un immenso oblio: al nord i cimiteri conservavano i nomi delle vittime di guerra, al contrario, in Algeria il vento e la sabbia cancellavano i nomi dei morti. Da una parte l’oblio, dall’altra il ricordo: nell’assenza c’è il senso della sua esistenza.

Camus, poeta dell’esistenza, del mare e del suo annegato, come Ulisse compie il moto doppio di chi va e poi torna, lambendo la terra, percorrendo mari, il Mare, obbedendo all’imperativo del ritorno, contro l’amnesia la sua rivolta, e l’anamnesi, il radicamento, imprescindibile, perché solo così l’uomo può abitare la Terra: e dal Mare alla Terra, dalla dimenticanza al ricordo. L’individuo può, dunque, compiere il suo slancio eroico-erotico, contro quella forza superiore e impersonale che è il destino, a cui, secondo Aaron Y. Gourevitch, l’uomo non sarebbe in grado di opporsi.

Camus è perciò tracotante: la sua hybris è atto immaginifico, irrazionale, erotico.

Camus non uccide, non dimentica, compie lo slancio, la sua rivolta, e scrive, oltre la dimenticanza, oltre la morte.

Questa la sua variazione sul tema della morte[7]: la ripresentificazione del passato-assenza nella presenza-presente della scrittura prospetta una nuova spazializzazione[8] temporale in cui, come nelle società arcaiche, passato, presente e futuro si intersecano e il presente non ha esistenza autonoma, bensì, simultaneamente al passato e futuro, dipana favolosamente i suoi rami sulla natura eterna delle cose, della Natura, del Mare, della Terra. Di qui la perdita di certezza del tempo, non  più concetto assoluto, e il nostro senso di dilatazione temporale cristallizzato così bene in quegli orologi deformati de La persistenza della memoria di Salvador Dalì.

Il mythos, la coscienza mitica, dunque, gli unici strumenti di cui l’uomo può avvalersi per contrastare il tempo e l’angoscia della finitudine, perchè nella ciclicità non vi è fine, né morte. E il rito della scrittura cristallizza, parafrasando Platone, l’immagine mobile della immobile eternità. L’eterocronia del passato mitico, oltre qualsivoglia presentismo, sconfigge la paura della morte. Ebbene, il pensiero meridiano di Camus vince il pensiero della mezzanotte dello storicismo tedesco, quello dell’eterocronia del futuro: prevale, così, la modernità dell’arte, dell’immaginazione e della saggia incertezza, vale a dire quella di Miguel de Cervantes.

E Il tempo, di nuovo, immobile: e l’onda de la Mer viene, e bagna la sabbia, la impregna della sua presenza, e timidamente ritorna, mai stanca, e perciò femmina, al Mare, all’Eterno.
 


[6]Gianfranco Pecchinenda, Dell’identità, Ipermedium libri, Napoli 1999, pag. 164.

[7] Antonio Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli 2007.

[8] Aaron Y. Gourevitch, Le temps comme problème d’histoire culturelle, in Paul Ricoeur et al., Les cultures et le temps, Payot, Paris, 1975.

 

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