A quanti gradi brucia la speranza? Fahrenheit 451

 

di Daniela Fabro

 

Quando si afferma che la letteratura fantascientifica non è letteratura di genere, s’intende un approccio sociologico e psicologico alla stessa. Che ci fa riflettere su temi quali il potere sulle masse, le ipocrisie del sistema, l’identità, l’individualismo, la libertà. Perché è a questo che pensavano scrittori come Philip K. Dick e Ray Bradbury, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento.

Così alcune opere moderne sono diventate dei classici, come Fahrenheit 451,[1] capolavoro di Ray Bradbury scritto nel 1951, tradotto in Italia nel 1953, uscito per gli Oscar Mondatori nel 1966, e ristampato più volte (l’ultima nel 2007). Romanzo da cui è stato tratto anche l’omonimo film del regista francese Francois Truffaut (1932–1984).

Specchio fedele dei tormenti dell’anima alla ricerca di sé nella desolazione del mondo tecnologico esteriore privo di autentica comunicazione, il romanzo incarna incubi e inquietudini della post modernità.

Il processo di ricerca su come cambia l’uomo, quando, in relazione ad un ambiente ostile, si sente privato della libertà ma anche cancellato nella sua identità, è inscritto in un universo di alienazione cui fa da contrappunto la desertificazione dei non luoghi in cui si svolge la vicenda.

Caratterizzati, come ha scritto il sociologo Marc Augé,[2] il primo a definirli, da assenza di scambi sociali, sono il terreno in cui si svolge questa fantascienza, che fa scomparire il centro cittadino dotato di storia, di senso e di dialogo tra i suoi abitanti, e isola socialmente i soggetti nella solitudine delle loro case tecnologiche.

Così gli unici rapporti si instaurano tra le mura domestiche e il potere mediatico, che si pone in collegamento diretto con gli individui attraverso la tv interattiva. L’anonimato e la solitudine producono malattia, nello specifico quella mentale della moglie del protagonista, costretta a riempirsi di sedativi per dormire, e sottraggono significato anche alle relazioni familiari.

In questo quadro sconfortante s’innesta un’intuizione tanto brillante quanto funesta, in uno scenario dipinto a tinte fosche: la struttura di questa società futura è retta e difesa da “pompieri” incendiari che danno fuoco ai libri, perché fuorilegge, alle case che li contengono e talvolta anche alle persone che vi abitano.

A questo corpo appartiene Montag, il protagonista, sicuro, in un primo tempo, della necessità e della validità della sua impresa.

Fahrenheit 451 sono i gradi ai quali brucia la carta, e l’atto di accusa dello scrittore contro la pervasività dei media e il potere della tecnologia sulle nostre vite, si basa appunto sull’invenzione – ma è poi proprio un’invenzione? – di una classe politica che mantiene il controllo sociale sulle masse attraverso i programmi televisivi, dopo aver incendiato tutti i libri della terra e chiuso le facoltà universitarie umanistiche.

Anche qui un uomo, impotente di fronte alla routine quotidiana, capisce, attraverso piccoli e grandi segnali – il vasetto di barbiturici scoperto sotto il letto di sua moglie, l’incontro con una giovane ma saggia fanciulla, la morte assieme ai suoi libri di un’anziana sovversiva che li nascondeva nella  casa incendiata – che la sua esistenza è priva di significato.

Da lì in poi inizia il processo di autocoscienza del protagonista che sfocerà in una ribellione contro il buio del potere della società tecnologica imperante, per approdare a un nuovo universo di consapevolezza interiore.

Centrale, in questo processo di autoanalisi, è, come spesso accade, una donna. L’incontro che cambia la vita del passivo pompiere incendiario avviene mentre Montag cammina verso casa in un paesaggio desolato, abbandonato, deprimente, privo della presenza di altri esseri umani. Una sorta di coprifuoco che oggi noi sperimentiamo appunto nei non luoghi, questi crocevia di impoverimento identitario, e che doveva essere ben presente nella mente dell’autore come eco dei racconti delle vicende belliche. E che riflette l’isolamento, lo spaesamento e le paure dell’uomo moderno di fronte all’ignoto.

L’unica persona che sembra non spaventarsi e non avere fretta di rientrare è una ragazza appartenente a una famiglia di sovversivi che, per opporsi alle regole arbitrarie dell’autorità imperante, nascondono libri in casa e sono addirittura dei pericolosi intellettuali.
 


[1] Ray Bradbury, Fahrenheit 451, Oscar Mondadori, Milano, 2007.

[2] Marc Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
 

     (1) [2]