Cadaveri squisiti e delizie della conoscenza
carnale: CSI e Grande Fratello

 

di Maria D'Ambrosio



“L’audiovisivo è un prodotto significante, finalizzato a scambi comunicativi,

che è normalmente definito dai sensi dell’uomo implicati direttamente nella sua fruizione”

(Gianfranco Bettetini, 1996, L’audiovisivo,

Milano, Bompiani, p. 7)

L’appartamento dei protagonisti del Grande Fratello, fattorie, isole e altri reality, oppure le molteplici scene del crimine a Los Angeles, a Miami, a New York. L’occhio-telecamera impietoso affonda come un bisturi, sezionando gesti di corpi animati e di anime morte, oppure vite rianimate a partire dalle ultime gesta di corpi inanimati.

Seguendo la medesima logica seriale, assecondando identiche modalità di fruizione. Uno screzio volgare tra protagonisti di un reality, o un violento alterco per amore o interesse in un episodio di CSI, poco cambia. La logica del voyer e del detective coincidono.

A questo movimento democratico dall’alto verso il basso corrisponde un moto uguale e contrario: la modalità della pornografia si eleva da individuale e miserabile a collettiva e familiare.

Il frutto di questo accoppiamento è una forma estrema di possesso dove il conoscere si incorpora nel vedere. Rivolgere l’attenzione a un certo linguaggio televisivo e ai prodotti che ne sono il portato, sembra utile per operare una ricognizione sulle pratiche estetiche, oltre che narrative in senso stretto, che connotano il modo d’oggi di esperire la realtà.

Una realtà che, nell’esser messa tra virgolette o tra parentesi, dichiara o porta impressa la propria finzionalità, come a ricordare che è tutta opera di qualcuno. Di qualcuno, che dopo aver imparato a leggere e scrivere, a descrivere il mondo per mezzo della parola, ha poi scoperto di poter dominare lo stesso mondo con strumenti più sofisticati che avevano a che fare con il vedere e con le sue enormi potenzialità di dominio e di controllo. A distanza. Telescopio, macchina fotografica, e poi cinema, televisione, lasciano spazio a una volontà di afferrare ciò che sembra destinato al solo passaggio, distante o comunque estraneo all’umano esperire quotidiano. La produzione di fiction, verbale e poi visiva e audiovisiva, segna come un continuo avvicinamento dell’estraneo o del diverso, del distante, dentro la sfera quotidiana della gente comune. Ma il balzo e la specificità cui sembra di assistere o di partecipare oggi è da situare in un’altra direzione che pure appartiene alla produzione finzionale: la volontà di penetrare ciò che è già vicino, la necessità di alterare le dimensioni naturali e quindi la possibilità di estraniare il già noto per ridargli senso, fornirgli un senso nuovo che è il mezzo stesso di cui ci si serve per coglierlo e per mostrarlo. Dunque zoom, microscopi e altre diavolerie sono le armi al servizio di questa volontà-necessità che spinge in profondità.

Restando nell’esempio di format televisivi come CSI e Il Grande Fratello, il vedere subisce un vero e proprio ribaltamento procurato da un certo effetto di estraniamento che la telecamera produce, dicendo di una operazione sul reale di cui è, così, più esplicita la relazione o la contaminazione con tutto quanto è fantasy. Sebbene attinente alla investigazione scientifica l’uno e al reality l’altro.

Quando il fantasy contamina l’uso del linguaggio audiovisivo, rompe il patto che da sempre sembra aver legato la verità, con la sua descrivibilità e leggibilità. La dimensione epistemica del vedere si sottrae al suo stesso episteme e ne instaura uno differente così da mutare la stessa identità della scienza: questa, in quanto discorso, svela o scopre la sua parentela con la fantasia. La fantascienza è proprio la traduzione volgare, comune, di questa affiliazione. E la tecnologia è al servizio di tale connubio. Un connubio che segue una strategia: quella che Manlio Sgalambro[1] collocherebbe tra le “strategie della invenzione”, a segnare una storia delle idee e quindi una storia dei modi di queste di prender forma e di dar forma al reale per convenire sulla sua evidenza. Evidenza si, ma anche desideri e paure. Insieme, nelle continue celebrazioni della società dello spettacolo addomesticato.

L’esperienza del vedere non lascia spazio alle distanze: chiede di aprire alla dimensione tattile e allo spettacolo del profondo e dell’interiore (come, d’altronde, già legittimato da alcuni saperi e discipline: la psicologia freudiana e postfreudiana, le neuroscienze, …). Aprire o chiudere gli occhi, estroflessione o introflessione, è, perciò, inteso comunque come gesto visionario, eccessivo, che rompe il limite e supera le distanze consentite perché l’estraneità del mondo nel quale ciascuno è gettato o da cui emerge diventi realtà in cui sentirsi implicati o di cui essere consapevoli. Aprire e chiudere e gli occhi rispetto allo schermo della TV diviene un esercizio per mettere alla prova la capacità di toccare la parte più nascosta del reale, anche ciò che sfugge allo sguardo più attento. E i prodotti seriali ben si prestano a questo rinnovato esercizio estetico ed epistemico. La TV partecipa di un processo più generale di rottura con le regole imperanti nella società dello spettacolo (pur avendo contribuito essa stessa a instaurare tale modello).


[1] Manlio Sgalambro, 2006, Nietzsche. Frammenti di una biografia per versi e voce, Milano, Bompiani.

    (1) [2]