Nel capolavoro di Peter Weir, The Truman Show (1997), il piccolo Truman, alla domanda della maestra su “che cosa vorrebbe fare da grande” risponde: “Vorrei fare l’esploratore, come il grande Magellano”, per sentirsi subito rispondere che non è possibile. “È troppo tardi, non c’è più niente da esplorare!”. Nulla di più falso, a cominciare dal fatto che – anche nel mondo di quel film – la stessa Seahaven è un mondo da scoprire: è un non-luogo, una città inventata che si aggiunge, dal momento in cui parte la prima puntata del reality di cui è protagonista l’inconsapevole Truman, alle terre conosciute fino ad allora – permettendo, per inciso, agli spettatori del reality, dentro lo schermo, di provare a esplorare quella terra incognita che è l’interiorità di Truman, la sua identità.
Il piccolo Truman cita Ferdinando Magellano, il navigatore portoghese che nel 1519 intraprese un viaggio per mare che aveva come obiettivo di circumnavigare la Terra, e che lui non poté concludere perché fu ucciso due anni dopo, senza riuscire a vedere la fine del suo viaggio.
Ma Magellano non fu certo il primo a partire per un viaggio di questo tipo. Prima di lui ci fu Cristoforo Colombo, naturalmente. Ma ancora prima, colui che ha veramente inaugurato in Occidente le esplorazioni via terra della Terra fu, senza dubbio, il veneziano Marco Polo, che raggiunse per via di terra il Catai (la Cina) e ne trasse un resoconto, il Milione, una sorta di baedecker ante litteram, che ancora oggi consultiamo nell’edizione italiana detta “dell’ottimo”, tradotta dall’originale già nel Trecento.
Il libro fu dettato da Polo in carcere a Genova a un certo Rustichello da Pisa, che lo trascrisse in francese, la lingua allora usata per opere di questo tipo, e che conclude così il suo Prologo:
“… e questo fu negli anni milleduecento novantacinque. Or v’ho contato il prolago del libro di messer Marco Polo, che comincia qui a divisare delle provincie e paesi ov’egli fu”
(Polo, 2005).
Polo comincia i brevi capitoli
del Milione spesso scrivendo: “Quando
l’uomo si parte da…”, (irriconoscibile
spesso, a una prima lettura, ai nostri occhi e alle nostre orecchie),
per spiegare prima la strada che conduce da una città a
un’altra, e poi raccontarne le curiosità, le
abitudini, le qualità, le ricchezze. E quindi leggiamo i
nomi di Samarca (deduciamo Samarcanda), Iar, Mabar, Caciafu, Cormosa;
dell’Ermenia (l’Armenia), della Turcomania, del
reame di Taianfu… Leggiamo di oro e di
“ariento” (l’argento) , di
“roccia negra” (il carbon fossile) e di canfora e
perle; di lioncorni e leonfanti, di girfalchi e lupi
cervieri… e di molte altre meraviglie, alcune delle quali
rimangono tali anche per noi, umani disinvolti del terzo millennio.
Marco Polo, inconsapevolmente, aggiorna un genere narrativo, quello
della fiaba, disincagliandolo dalle sue origini rituali, e riscrive i
miti delle terræ incognitæ
dell’antichità estraendole dal contesto spesso
venato di soprannaturale in cui dimoravano, per collocarle in una
dimensione di diario, di cronaca, che però non riesce a
eliminarne la dimensione favolistica e meravigliosa.
Siamo nel regime del favoloso, del magico, del meraviglioso, in cui le terre sconosciute, incognite, venivano popolate di quel poco che era filtrato nel Medioevo dalle mitologie precedenti, prima di tutto da quella greca. Ma ricordiamo che anche le regioni abitate dagli umani medioevali – ricche di foreste inestricabili, di monti e vallate disabitate – si popolavano di mostri, fantasime, esseri magici, generalmente maligni e spaventosi.
Circa sette secoli dopo, nel 1972, un altro italiano, grande narratore e raffinato mitopoieta, Italo Calvino, riscrive Il Milione intitolandolo Le città invisibili (1996), ribaltando il discorso e immaginando che il suo Marco Polo racconti al Gran Khan Kublai, lo “Gran Cane” di Marco Polo, dei suoi viaggi e delle città che ha visitato. E così il suo Marco Polo narra al suo Kublai di Diomira, Zora, Zaira, città della memoria fra le altre; di Dorotea e Anastasia, città del desiderio come altre, delle città dei segni come Zirma e Tamara, e di ognuna ne descrive le caratteristiche uniche, inimitabili… Eufemia è la città degli scambi commerciali, nella seducente Cloe la lussuria vibra dovunque, perché è questa la città degli scambi amorosi sognati, indotti, ma mai soddisfatti… Melania e Adelma sono città dei morti: nell’una vivi e morti si scambiano e si sostituiscono fra loro, dando vita sempre alle stesse conversazioni, ogni volta, ciclicamente, con interpreti diversi; nell’altra, quando ci si sbarca, si è destinati ad incontrare i propri morti, che interpretano i ruoli dei suoi abitanti: il pescatore, l’erbivendola… O città come Trude, dove possono cambiare gli abitanti, ma le cose sono sempre uguali, e vivono della continuità delle loro destinazioni: case, alberghi, negozi; o come Leonia, che continua a produrre oggetti che – pur eterni nella loro durata – vengono ogni giorno sostituiti e scaricati all’esterno, a produrre immense, crescenti discariche. Ecco, il mondo descritto dal “Milione” di Calvino, è altrettanto fantastico ai nostri occhi di quanto doveva essere meraviglioso quello di Polo agli occhi dei suoi contemporanei – e ne conserva i tratti di spaesamento e inquietudine.
Tutti e due, però, anche se per ragioni diverse, nate in mondi differenti, ci narrano di un mondo che esiste solo nei nostri sogni, nella nostra immaginazione. Il secondo, perché fuori della portata fisica dei suoi lettori, il primo perché frutto di un immaginario di una Terra che si conosce come completamente esplorata, mappata, trascritta, cartografata, fotografata, filmata. Oltre la soglia delle grandi esplorazioni dei mercanti, degli scienziati, degli avventurieri romantici: Ormai è troppo tardi, non c’è più niente da esplorare.
E trasferisce l’intera narrazione nel nuovo ambiente umano per eccellenza, la città, la metropoli. Solo che ne viviseziona e separa le funzioni, gli scopi, gli accidenti, gli elementi della vita vissuta quotidianamente, sia quella sociale, sia quella interiore.
Calvino insomma salta a pié pari diversi secoli di esplorazioni e viaggi, quelli degli avventurieri, dei mercanti, dei pirati e corsari dell’Occidente mercantile e capitalistico, delle esplorazioni oceaniche e della scoperta e conquista dei “nuovi” continenti: Africa, America, Oceania, Antartide, e della scoperta di nuove rotte commerciali, militari, scientifiche. Quelle che nei fatti hanno contribuito a creare il mondo in cui viviamo. Quello che ha distrutto completamente l’idea di una realtà immersa nel mondo del sacro, dove i confini geografici potevano essere inesauribilmente mutevoli, vaghi, cangianti, per consegnarlo al mondo della secolarizzazione e della razionalità del calcolo e del valore di scambio.
Ma, se gli scopi degli esploratori occidentali erano in gran parte strumentali, è anche vero che esprimevano pure spirito di avventura, curiosità per l’ignoto, desiderio di conoscenza. E aggiornavano continuamente le cartografie del mondo conosciuto, alterandolo, modificandolo, riscrivendolo. O almeno così ci è stato trasmesso dalla narrativa e dai resoconti dei viaggi e delle vite. “Doctor Livingstone, I suppose”, insomma. O, come scriveva Bruce Chatwin nel suo Le vie dei canti:
“… e zia Ruth mi stringeva fra le braccia, come per impedirmi di seguire le orme degli altri. Eppure, dal modo in cui indugiava su parole come «Xanadu» o «Samarcanda» o «mare color del vino», credo che anche lei sentisse nell’anima l’inquietudine del vagabondo”
(Chatwin, 1995).
Ma ormai che non c’è più nulla da esplorare (ma l’eccezione c’è: l’Antartide), dopo che anche la science fiction ha esplorato l’intero universo – anzi tutti gli universi possibili, tanto da dover tornare sulla Terra, e attualizzare la fantascienza “d’invasione” (cfr. Hic sunt alieni su questo numero, ndr), per rilanciare l’esplorazione dell’infinito (cfr. Ancore/Letture in questo numero, ndr) – dobbiamo rivolgerci definitivamente all’immaginario delle città. Non più i luoghi di favola e d’incanto come quelli scelti da Italo Calvino, ma luoghi oscuri, inquietanti, mutevoli, a marcare una frattura definitiva nell’immaginazione del viaggio: dal progressismo romantico e dal favolismo esotico del trionfo del Moderno al disincanto rassegnato e consapevole del fatto che sono le nostre stesse città, ormai, ad essere luoghi sconosciuti, malsani, minacciosi, come la Dark City (2002) del film di Alex Proyas del 1998, una sorta di Gotham City di risulta, una sua copia degradata. Ecco, la città mutante di Proyas (e qui è parte della bellezza rétro del film) è l’esempio di come negli anni Trenta, ancora in pieno Modernismo, si potevano immaginare le città del futuro, quelle di fumetti come Flash Gordon (2013), tutte sviluppate in altezza e ispirate allo stile streamline, che ritroviamo citato nei veicoli di Minority Report (2006), ad esempio.
Invece, la postmodernità ha visto soluzioni molto diverse: il modello trionfante è Los Angeles, città distribuita nello spazio piano, metropoli lineare e centrifuga, tendenzialmente infinita, che continua a fagocitare, a omologare sobborghi, dintorni, cittadine satelliti, mentre la destinazione d’uso e la composizione sociale di interi quartieri, rioni, periferie cambiano continuamente, man mano che la città si espande e muta (cfr. Davis, 1998).
Unica concessione all’immaginazione degli urbanisti degli anni Trenta, il Westin Bonaventure Hotel, nella Downtown Los Angeles, complesso edilizio che svetta verticalmente sovrastando gli edifici circostanti, secondo Fredric Jameson, per la sua struttura interna, organizzata in maniera tale da offrire al visitatore una prospettiva diversa – e sempre parziale – man mano che ci si sposta al suo interno, un modello di architettura postmoderna – il futuro anteriore del Modernismo (cfr. Jameson, 2007). Un trionfo di spaesamento e disorientamento, di moltiplicazione della propria relazione con lo spazio – e con il tempo, alla fin fine.
La “città degli angeli” si conferma come il terreno più fertile del Novecento – e di questo scorcio di Duemila – per alimentare e placare il desiderio e la paura connessi all’esistenza di terre e luoghi sconosciuti – luoghi “oscuri”, proiezioni della nostra interiorità, spesso, che però si materializzano nelle pellicole e sulle pagine dei romanzi modificando, reinventando, reinterpretando le topografie dei luoghi reali – città del crimine, della corruzione, del delitto, della crescita violenta e incontrollata, governata da cricche di malaffare e di illegalità, come scriveva sempre l’urbanista Mike Davis in Città di quarzo (1999).
I “luoghi oscuri” di James Ellroy (2000), quelli di una Los Angeles notturna, degradata, feroce, sporca, in cui il lerciume dei prati incolti, degli spazi abbandonati fra un rione e un altro, dei vicoli luridi fra gli isolati, delle tane di barboni e pervertiti ricavati nei boschetti di città nascondono (conservano?) cadaveri, detriti, rifiuti, biancheria sporca – souvenir di chissà quali traffici – a contrappuntare macabri segreti, vergognosi ricordi. Ma anche quella di Mulholland Drive di David Lynch, arteria collinare quasi a cavallo di due universi, il mondo dei sogni (e degli incubi) e quello della quotidianità losangelena di tante belle ragazze che sognano di entrare nel mondo del cinema – e che invece di ritrovarsi dentro un sogno possono finire invece in un incubo, come Elisabeth Short, la “Dalia nera”, l’attricetta di Hyde Park nel Massachussets il cui feroce omicidio erose un altro pezzo dell’innocenza della “città degli angeli”, trovando l’immortalità non per i film che (non) riuscì a fare, ma perché nel gennaio del 1947 si ritrovò tagliata in due in un terreno non edificato in un quartiere meridionale di Los Angeles, diventando la protagonista silenziosa di La dalia nera, il primo romanzo di James Ellroy (2004) e del film (2007) che ne trasse Brian De Palma nel 2006, la sua musa, per certi versi, una specie di alter ego della madre dello scrittore, anche lei assassinata da ignoti, su cui Ellroy tornerà con I miei luoghi oscuri (2000), raccontandoci di sé e della sua Los Angeles degradata e segreta.
Ecco, l’area delle terræ ancora incognitae è questa: quella dei terreni incolti, privi di destinazione dove avvengono i delitti; dei luoghi semi-nascosti e dei palazzi abbandonati in attesa di demolizione dove abbandonare i cadaveri e i rifiuti, e dove la legge e la stampa non si trovano mai a guardare, se non dopo il passaggio del macabro, del morboso, del maligno. È solo allora che questi non-luoghi acquistano anche una loro dimensione visiva. Come in Lapd ’53 (2015), la raccolta di foto d’archivio del Dipartimento di polizia di Los Angeles pubblicata da Ellroy e Glynn Martin e commentata dal primo: corridoi d’albergo, scarpate piene di detriti, camere in subaffitto, spiazzi antistanti stazioni di servizio, interni di automobili. Dettagli di spazio, ritragliati in fotografie sovraesposte, che cambiano forma e natura a ogni cambio di inquadratura e punto di vista.
I luoghi dove il Male si è manifestato – che sembrano quasi fare da ispirazione, decenni dopo, a David Lynch, o a Thomas Ligotti, e agli autori di più di una serie tv, da C.S.I. Scena del crimine fino alla seconda stagione di True Detective (2015) il cui autore, Nic Pizzolatto, sente la necessità di inventare addirittura un nuovo sobborgo satellite di Los Angeles, Vinci, centrale di affari sporchi, traffici sotterranei, e naturalmente omicidi e violenze. Cittadina più che plausibile, nel cangiante panorama losangeleno, come sono incerti, ubiqui, metamorfici i “luoghi oscuri” della L.A. di Ellroy, e di Raymond Chandler, Dashiell Hammett e Erle Stanley Gardner prima di lui: una Los Angeles che, virtualmente, si spinge fino al Messico, highway dopo highway, sobborgo dopo sobborgo. A partire da Hollywood, la città del cinema.
Hollywood. La sua sola presenza ha funzionato da soglia del multiverso della modernità che muore dando vita al suo futuro, la post-modernità, perché non solo ha reso visibile “la materia dei sogni”, ma ha sin dalla sua nascita funzionato da moltiplicatore di universi possibili, uno per ogni location scelta, per ogni film girato.
Come Mulholland Drive, la strada collinare da cui si vede per decine di chilometri intorno, set prediletto dei registi noir e location onirica dell’omonimo film di David Lynch, vicenda fra veglia e sogno della ennesima bella ragazza che vuole entrare nella magia del cinema…
Nel 1986 (forse influenzato dalla visione di Blade Runner (2008), uscito nelle sale quattro anni prima?) Jean Baudrillard scrive, nel suo diario americano, America:
“Niente eguaglia il sorvolare Los Angeles di notte. Una sorta di immensità luminosa, geometrica, incandescente, a perdita d’occhio, che spunta fra gli interstizi delle nuvole. Solo l’inferno di Hieronymus Bosch dà la stessa impressione di braciere (…) Mulholland Drive, di notte, è il punto di vista di un extraterrestre sul pianeta Terra, o all’inverso è la visione di un terrestre sulla metropoli galattica”
(Baudrillard, 2009).
Ecco, questa specularità possibile, fra la visione di un alieno sulla terra o viceversa di un terrestre su un qualche pianeta extrasolare, ci dà la cifra della natura polimorfa e fluida di Los Angeles. Anzi, a immaginare questi tre luoghi – Westin Bonaventure Hotel, Hollywood, Mulholland Drive – come i vertici di un triangolo, vediamo configurarsi una sorta di “triangolo delle Bermude” dell’immaginario, un campo di forza dove i mondi nascono, collidono, si fondono, mutano. Un crogiuolo dell’immaginazione delle città possibili, meta-megalopoli post-moderna per eccellenza, un “tesseract”, come quello di un famoso racconto di Robert Heinlein, La casa nuova, che ha colonizzato e trasformato l’intero pianeta (cfr. Heinlein 2006). Che ci fa essere ovunque e in nessun luogo, in questo tempo e in qualsiasi altro, sostituendo il senso del meraviglioso dei primi viaggiatori con un senso assoluto di disorientamento, di galleggiamento in un non-spazio dalle infinite dimensioni.
L’attitudine dell’uomo occidentale, che ha colonizzato il pianeta – le terre e le anime – implode su se stessa, nel multiverso dell’immaginario, per ri-tornare alla propria origine, la sua stessa interiorità, ridando forse finalmene senso pieno al monito che Sir William James Sr., uno dei fondatori della psicologia contemporanea, rivolgeva in una lettera ai suoi figli, riferendosi alla nostra vita psichica: “L’eredità naturale di chiunque sia capace di una vita spirituale è una foresta inestricabile, dove il lupo ulula, e stride l’osceno uccello della notte”. Ultima terra incognita, ancora ampiamente inesplorata, il nostro inconscio, un abisso profondo, spaventoso, vertiginoso, sconosciuto. E pericoloso.
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