L’immaginario è pieno di capolavori inesistenti, favolosi, leggendari. Sinfonie perdute, dipinti scomparsi, sculture, statuette…
Forse il più famoso è il “falcone maltese”, la mitica statuetta di cui va a caccia da anni un gruppo di avventurieri nel film Il mistero del falco di John Huston. Fatto “della materia di cui son fatti i sogni”, come dice il private eye creato da Dashiell Hammett, Sam Spade (Humphrey Bogart) a un poliziotto, citando William Shakespeare e svelando la natura profonda dell’immaginazione.
Così, di libri che non esistono, ma sono nominati in altri libri la letteratura ne è piena. Come degli autori degli stessi. Forse gli esempi più recenti, dopo le invenzioni di Jorge Luis Borges, Howard P. Lovecraft, Philip K. Dick e tanti altri sono le opere di Benno von Arcimboldi di cui scrive Roberto Bolaño in 2666, scrittore dato ancora per vivente nel romanzo, di cui va a caccia, perennemente frustrato, un gruppo di studiosi ossessionati dalla sua figura (cfr. Bolaño, 2009).
Anche di libri scritti da autori che non esistono con quel nome, ma che si sono inventati una identità ad hoc. Basta pensare a Fernando Pessoa, per fare un esempio (www.quadernidaltritempi.eu/numero42).
Ma di libri inesistenti, con i loro autori altrettanto immaginari, che però esistono perché sono stati scritti da qualcuno, e quindi possiamo leggere, ce ne sono decisamente di meno.
Un gioco difficile, acrobatico, sul filo di un rasoio. Perché se scrivi un libro “inventato”, allora devi inventarti non solo un autore, ma magari un traduttore, dei glossatori, dei critici…
Nessuno scrittore aveva spinto finora la sua immaginazione – e la ricerca della complicità dei lettori – così lontano. Forse solo il filosofo e scrittore svizzero Peter Bieri (ma con lo pesudonimo di Pascal Mercier) vi si era avvicinato col suo Treno di notte per Lisbona (Mercier, 2013) in cui si narra di un insegnante di lingue classiche di un liceo di Berna, Raimund Gregorius, che scopre in una libreria della sua città un volumetto, scritto da un medico di Lisbona, di cui nel corso della narrazione vengono riportati ampi brani. Inutile aggiungere che né il romanzo, né l’autore sono esistiti davvero – almeno nel mondo in cui possiamo leggere il romanzo di Mercier/Bieri – che fra l’altro ha voluto inventarsi un pseudonimo, per pubblicarlo…
L’operazione di cui parliamo, invece, un vero e proprio salto mortale möebiusiano nell’immaginario, è riuscito a J. J. Abrams (il creatore con Damon Lindelof e Jeffrey Lieber della tv-series Lost) in collaborazione con lo scrittore Doug Dorst con S. La nave di Teseo, pubblicato in italiano in una sontuosa edizione dalla Rizzoli Lizard.
L’«autore» del romanzo cui è intitolato il volume sarebbe un certo V. M. Straka, praghese, di cui non si sa nulla, praticamente, se non che, sicuramente, si tratta di qualcuno che ha scritto sotto pseudonimo.
Ma il suo romanzo è lì, ad attestarne l’esistenza – del romanziere, e di se stesso.
Possiamo leggerlo noi, come possono leggerlo coloro che – nel mondo in cui Straka è esistito, esiste, con questo nome o un altro – si interrogano su di lui e sulla sua opera, sui suoi glossatori, sul traduttore e curatore del libro…
Perché l’oggetto che abbiamo davanti, che possiamo leggere, è finemente, sistematicamente commentato da due persone, due lettori, un uomo e una donna, che a margine del testo stampato hanno aggiunto le loro annotazioni, scritte con pennarelli dalla punta fine, a volte colorati, lui in stampatello, lei in corsivo, in modo tale che noi, lettori di questo universo, possiamo distinguere i due interlocutori.
Si tratta sicuramente di due intellettuali, lui, Eric, un po’ più adulto, lei, Jennifer, più giovane, lui ricercatore, lei studentessa e bibliotecaria, che si scambiano – che si sono scambiati, prima che capitasse nelle nostre mani – il volume che abbiamo davanti, usando come casella postale una biblioteca universitaria, lo scaffale dove il libro riposa fra una consultazione e l’altra. I due non si conoscono fisicamente, ma solo attraverso gli appunti sul volume, che rapidamente trasbordano dal tema della loro conversazione a distanza – Straka, il romanzo, i suoi commentatori e critici, il curatore – per allargarsi a un dialogo più personale, biografico, che riguarda le loro vite, e la curiosità reciproca che nasce per l’uno nei confronti dell’altro. Viene in mente il classico del 1940 della commedia romantica hollywoodiana Scrivimi fermo posta di Ernst Lubitsch (www.quadernidaltritempi.eu/numero37), in cui i due protagonisti, Alfred (James Stewart) e Klara (Margaret Sullavan), commessi di un negozio e cordialmente antipatici l’uno all’altro, scoprono alla fine di essere “amici di penna” tramite una casella postale, e di essersi innamorati l’uno dell’altro a distanza senza conoscere le proprie vere identità, complici le lettere che si scambiano, avviandosi così verso il logico lieto fine holliwoodiano, l’esplorazione dei misteri dell’amore – cosa, che naturalmente, succederà anche ai due esploratori-bibliofili dei misteri di Straka e della Nave di Teseo, come intuiamo dalle ultime pagine del volume che abbiamo fra le mani. Le nostre mani collettive, naturalmente, perché tutti leggiamo – virtualmente – la stessa copia del romanzo di Abrams e Dorst, quella annotata dai due giovani, e passata già per le mani e gli occhi di coloro che hanno preso in prestito e restituito alla biblioteca il volume, come documentato dai timbri che riempiono l’interno della copertina posteriore. E qui ci rendiamo conto meglio del gioco messo in piedi da (qui torniamo al nostro universo) J. J. Abrams e Doug Dorst nei confronti dei lettori – elevare a potenza le storie attraverso una sola narrazione, chiusa in un solo libro – un po’ come Abrams aveva già fatto con Lost, moltiplicando i livelli e i punti di vista spazio-temporali nel continuum immaginario in cui aveva ambientato la serie, e scatenando a tal punto la passione dei fans da innescare prima e alimentare e incoraggiare poi il loro desiderio di partecipare alla serie stimolandone la creatività grazie alla potenza comunicativa della Rete, giocando sugli elementi di ambiguità disseminati nel racconto, vagamente esoterici, fatali, inquietanti (www.quadernidaltritempi.eu/numero4; www.quadernidaltritempi.eu/numero28).
Quattro (anzi cinque) storie, quattro/cinque vite, l’una dentro l’altra, che emanano dall’oggetto-libro che abbiamo davanti agli occhi, fra le mani.
Perché c’è la storia narrata dallo scrittore: “Straka” nel romanzo, che sa di avventura, di mari del Sud, di mistero, di segreti: viene in mente una frase di Bruce Chatwin: “Gli uomini della famiglia di mio padre erano o cittadini benestanti e sedentari […] o vagabondi innamorati dell’orizzonte, che avevano sparso le loro ossa in ogni angolo del globo […] Talvolta mi capitava di sentire le zie parlare di questi destini sciagurati; e zia Ruth mi stringeva fra le braccia, come per impedirmi di seguire le orme degli altri. Eppure, dal modo in cui indugiava su parole come «Xanadu» o «Samarcanda» o «mare color del vino», credo che anche lei sentisse nell’anima l’inquietudine del vagabondo” (Chatwin, 1995).
Ancora, c’è la storia, che occhieggia dalle note a piè di pagina e dai commenti dei due corrispondenti, delle ricerche svolte sull’autore e sul libro, dei suoi misteri, vicoli ciechi, entusiasmi, degli stessi dubbi dei due lettori sull’identità e sulla reale esistenza degli studiosi che F. X. Caldeira, fantomatico traduttore e curatore del romanzo, cita in nota – a parte Ernest Hemingway, di cui cita un’intervista, la cui esistenza comunque Eric e Jennifer mettono in dubbio.
Quindi c’è la storia del volume che abbiamo fra le mani, documentata dai timbri, e da tutti i ricordi, i gadget, i documenti che lo riempiono fisicamente: cartoline, fotocopie di articoli di giornale, di testi dattiloscritti, a dimostrarne l’autenticità – unica e comune per ognuno di noi, e per ognuno dei quali possiamo chiederci chi li abbia lasciati lì, a mo’ di segnalibro, di sottolineatura, di conferma, e dimenticati lì, o regalati al successivo lettore…
Poi c’è quella cui partecipiamo, quasi in diretta (chi siamo noi? Lettori che a loro volta hanno preso in prestito il libro dalla stessa biblioteca in cui è conservato?) di Jennifer e Eric, che mentre ragionano sul romanzo ragionano di se stessi.
E quindi, dentro questa, quelle già trascorse di questi due lettori “privilegiati”, che mentre parlano del libro raccontano di sé, all’altro ed a noi, intrecciando un dialogo che risponde allo stallo in cui si trova l’alter ego di Victor Šklovskij – o forse, lui stesso? – in Zoo o lettere non d’amore, in cui un uomo decide di allontanarsi dalla sua amata perché lei gli rimprovera che il loro non è un amore giocoso, e di scriverle, per gioco, di letteratura e non d’amore, decisione votata alla sconfitta, ma continuamente perseguita: “Vedi di che si tratta: contemporaneamente alle lettere a te scrivo un libro. E ciò che è nel libro e ciò che è nella vita si sono del tutto confusi […] L’amore ha i suoi metodi, una sua logica di movimenti, stabilita senza di me e senza di noi. Ho pronunciato la parola dell’amore e ho messo in moto il meccanismo. È cominciato il gioco. Dove è l’amore, dove è il libro, non so più” (Šklovskij, 2002). Parlando di La nave di Teseo, parlano di se stessi, e – inevitabilmente – si innamorano l’uno dell’altro.
Parallela alle loro scorre la vita del volume, documentata dai timbri dei prestiti, dagli appunti dei due giovani, dagli inserti nel libro: ad ogni intervento il volume ne risulta cambiato, trasformato, arricchito – vissuto dai suoi lettori e custodi, acquista una vita propria, fatta di tutte le tracce che le mani che lo hanno aperto, gli occhi che ne hanno letto le righe vi hanno lasciato. Un’altra vittoria di Abrams e Dorst, incorporare il “fruitore nel testo”, come nei racconti fantastici e nel cinema (cfr. Abruzzese, 2007): J. J. Abrams lo aveva fatto, virtualmente, in Lost – ma con gli audiovisivi è più facile – e ci riesce da maestro con un libro.
E alla fine, anche una sesta storia: quella del misterioso, inafferrabile V. M Straka, l’autore, l’entità in cui converge tutto, anche tutti noi, lettori, ascoltatori, spettatori, nel nostro compito di fruitori del testo – e contemporaneamente di costruttori, co-autori di storie, narratori a nostra volta nel riempire le ellissi che i testi ci pongono davanti, destinati a interrogarci sui punti oscuri, sui vuoti che il raccontare ci propone, quasi a dirci “qui tocca a te, cerca nella tua vita, e riempi questo buco, fai entrare anche la tua vita nel romanzo, nel film, nell’arte di narrare”…
Mondi dentro mondi dentro mondi, tutti narrativi, tutti fittizi? Solo in parte: abbiamo il volume fra le mani: almeno di questo, l’esemplare che fisicamente ci appartiene, un giorno potremo raccontare la storia, a partire da quando ne abbiamo sentito parlare, letto una recensione, ordinato, acquistato ancora incellofanato, finalmente estratto dal cellophane e poi dalla sua custodia in cartoncino, e sfogliato, prima di cominciare a leggerlo.
La nostra particolare partecipazione all’universo della transmedialità (cfr. in questo numero), anche se in una versione rielaborata, e solo apparentemente ridotta, impoverita, semmai “economica”: piuttosto che far convergere in un oggetto unico, narrazioni provenienti da varie piattaforme, discorsi, generi, sfere, supporti, rifrangendone poi gli esiti di nuovo all’esterno, nei vari media, e creando legami fra vari apparati produttivi, come in certi crossover fra Tv e cinema (cfr. in questo numero), qui la dimensione transmediale è tutta interna, ne è un’articolazione, forse imprevedibile. Certo, grazie a rimandi a oggetti inesistenti, ma anche attraverso le suggestioni che il testo propone, le evocazioni di racconti e romanzi che appartengono alle aree più diverse che innesca, costringendo il lettore al suo lavoro di autore, invitandolo ad esplorare fino in fondo quel “giardino dei sentieri che si biforcano” che è la letteratura.
LETTURE
VISIONI