VISIONI / WHEN BJÖRK MET ATTENBOROUGH
di Louise Hopper / One Little Indian, 2014
Natura, arte e scienza: di tutto un pop
di Maria D'Ambrosio
Un pretesto per tornare a pensare e a riflettere sulla pop art, arriva dal film-documentario When Björk met Attenborough – uscito in versione originale a maggio di quest’anno in Italia, diretto da Louise Hopper e prodotto da Pulse Films per Channel 4 Television. A partire dalla copertina (dvd e blu-ray), sul fronte leggiamo, a caratteri color ciclamino, arancio e turchese, che si tratta di un documentario andato in onda nel Regno Unito sabato 27 Luglio 2013 e narrato da Tilda Swinton. Sul retro della copertina, poi, c’è una breve presentazione che fornisce tutti i dati per sapere che questo documentario è, sì, come il titolo dichiara, il risultato dell’incontro tra Björk e David Attenborough e della loro comune passione per la Musica e per la Natura, ma è anche un modo per presentare Biophilia: “il progetto di musica d’avanguardia che esplora dove si incontrano natura, musica e tecnologia”, ovvero un progetto artistico molto ambizioso, diretto da Björk e realizzato insieme ad altri artisti, ingegneri, musicisti, e che esplicita in senso crossmediale e interdisciplinare la sua vocazione ‘educativa’ (www.biophiliaeducation.org), sviluppando un programma di attività articolato in workshop, concerti, mostre, fiere, fino alle App per tablet e smartphone.
A prima vista, niente più che un documentario. Ben fatto. Dove Björk, un’icona pop della musica elettronica trans-nazionale, dialoga con sir Attenborough, il più noto dei divulgatori scientifici della televisione britannica. Ma, a osservare meglio, un mix generazionale e culturale, incarnato da due icone pop e operato per parlare a pubblici differenti cui, diffusamente e indistintamente, si intende introdurre il nesso (arte)musica-natura-tecnologia, in una modalità che non si esaurisce nel consumo del prodotto ma che lascia intravedere e presagire obiettivi più ambiziosi e produzioni più durature, focalizzati sulla conoscenza, la divulgazione scientifica e la “appetibilità” (o il “consumo” più consapevole e attivo) dell’arte e della scienza. Visto il profilo dei due protagonisti del documentario e della voce narrante (Tilda Swinton), infatti, si intuisce che il focus individuato ha l’ambizione di coniugare consumo con qualità e quindi di coinvolgere il pubblico in questioni che, a partire dalla Modernità, toccano ancora il rapporto tra creato e creatore, e coinvolgono sempre più chi conosce nel processo di costruzione/conoscenza della realtà. Il pubblico, dunque, inizia ad essere una categoria “critica” con cui Björk e Attenborough vogliono attivare un più aperto dialogo ed estenderlo oltre il piccolo schermo, quasi a intercettare o promuovere quel segmento costituito dai makers e dai loro fabrication lab, per farne il cuore pop del loro progetto situato tra arte, comunicazione e scienza. In questo senso il documentario è segno che una parte del sistema dell’arte e della comunicazione si sia messo in moto come apripista o avanguardia per attivare o accelerare alcuni processi sociali e culturali, focalizzati sulla creazione di nuovo sapere: ovvero su quello che possiamo considerare un “bene di prima necessità” attraverso cui l’uomo esprime la sua capacità di adattabilità all’ambiente. Ecco allora il senso, tutto popolare, che emerge o si rintraccia nel lavoro comune di Björk e Attenbourough e nel racconto audiovisivo del loro incontro: un documentario, e un progetto artistico molto complesso, che fa della Natura la vera grande protagonista di una storia centrata sul concetto di vita e sulla varietà di forme che essa può assumere (e variare, come nella musica). O meglio: un documentario che accompagna e si unisce al progetto artistico Biophilia e ne incorpora lo spirito “pop”, guidando in un primo itinerario, grazie al quale riconoscere la Musica come parte della Natura e la Natura come quel dominio di conoscenza cui tutti appartengono.
Le immagini, le parole, i suoni, la musica, le animazioni digitali, tutto scorre fluido nei 48 minuti di racconto audiovisivo in cui Björk e Attenborough invitano in senso radicalmente pop e post-modern, a farsi produttori, più che consumatori, di sapere e di ricerca scientifica. Avendo attraversato, incorporato e più propriamente superato le questioni del pop e quindi della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte”, Björk e Attenborough riemergono insieme sullo schermo per offrirsi come testimonial da emulare nel lavoro di ricerca, di scoperta, di creazione, per farne una “pratica quotidiana” di cui le tecnologie elettroniche e digitali sono una estensione e il Museo di Storia Naturale di Londra, lo scenario ideale e possibile.
Un racconto pop, fatto per coinvolgere il pubblico, non per intrattenerlo, per invitare in senso conviviale a nutrirsi di Musica, Natura e Tecnologia per coglierli come un tutto e farsene autonomamente artefici. Eppure, il documentario con Attenborough appare subito anche come una “nota” scelta per “agganciare” anche un pubblico adulto, abituato ad essere guidato nell’esplorazione-descrizione di nuovi territori della conoscenza e non ancora pronto a riconoscersi come possibile parte del processo creativo della Scienza. Ma, questo documentario, è anche il modo per Björk di collocarsi – grazie al suo “nocchiero” Attenborough – in uno spazio, quello televisivo, che faccia superare la distinzione tra generi e linguaggi e riesca a situare e rendere oggetto di consumo massmediale la sua forma d’arte: quella particolare poetica in cui coincidono etica ed estetica, attraverso cui riconoscere nello stato vibrante della materia sonora e musicale il principio generativo di ogni cosa e quindi il segreto serbato nella Natura e nella materia vivente. Un segreto che il documentario inizia a disvelare e a rendere accessibile, così da configurarsi come vera e propria “opera pop” per mano di due pop star il cui incontro e il cui dialogo incarna quello tra Arte e Scienza. Un dialogo dunque che celebra i due interlocutori perché si possa, con loro, confonderne i confini disciplinari, i campi di interesse, perché ciascuno possa desiderare di “metter mano alla conoscenza” e cercare gli strumenti – la tecnologia – per rendere tale desiderio possibile e praticabile. Si tratta, dunque, a nostro avviso, di un’opera pop che rende la Scienza, come la Musica, uno spazio la cui geometria e architettura complessa può essere esplorata e ricostruita per mano di chiunque sia dotato di biophilia: di quel sentire che è pienamente “ecologico” e che si riconosce nel Bios, nella vita di ogni essere vivente.
Un’opera pop dunque da collocare in un Nuovo Umanesimo Tecnologico, ovvero un’opera, e un più complesso progetto cui essa afferisce, che funge da “manifesto” per un Nuovo Umanesimo Tecnologico, necessario a che un certo futuro prenda vita e, come la vita, sia “emergenza” di un mutare continuo, di quel processo di trasformazione che unisce il concetto di evoluzione con quello di creazione. È l’evoluzione creatrice di Henri Bergson (1907) a risuonare, insieme alle note e ai suoni di Björk, così estranei alla parola (al senso compiuto) e invece così prossimi alla sonorità della materia e alla sua dimensione biologica, mutevole, vibratile. Sonorità che danno corpo a una certa idea di spazio, materia, forma, perché si realizzano ed esistono solo grazie al tempo, alla durata, alla ricombinazione continua delle singole parti che le compongono. Un’opera che si compie solo se ne genera delle altre. Ad libitum. E su piattaforme differenti. Perché anche broadcasting e narrowcasting – e tutte le versioni più attuali del podcasting o della fruizione “a catalogo”, on demand e in streaming (Netflix docet) – si sono confuse e unite in un nuovo bricolage di codici che vanno appresi e usati per poter generare mondi e raccontarli.