LETTURE / SECONDO LE MIE FORZE E IL MIO GIUDIZIO
di Chiara Lalli / Il Saggiatore, Milano, 2014 / pp. 222, € 17.00
Verrà la morte e avrà il mio consenso?
di Francesco Galofaro
“Ognuno non può giudicare
che secondo se stesso,”
disse arrossendo.
“La piena libertà ci sarà allora,
quando sarà indifferente
vivere o non vivere.
Ecco lo scopo di tutto.”
Fëdor Dostoevskij (I Demoni)
Il lettore ci scuserà: piuttosto che riassumere, a
rischio di farlo male, le tante argomentazioni ed esempi che
qualificano il volume di Chiara Lalli, preferiamo occuparci della
narrazione costruita dall'autrice, dei protagonisti e degli antagonisti
del discorso bioetico. Questo perché la polemica sulla
bioetica assume l'aspetto di una guerra tra racconti, veri o presunti,
portata avanti sulle colonne dei giornali e dagli schermi televisivi.
Non si sfugge quasi mai ad una morale casuistica, che parte da storie
di grande impatto emotivo, dalle quali si vorrebbe trarre un
insegnamento. Sembra inevitabile concordare con Claudio Magris, uno dei
bersagli polemici dell'autrice, quando descrive i nostri tempi come supermarket
morale. Da un lato, le istituzioni politiche e culturali
tradizionali continuano a proporre un'etica assoluta, in cui il giusto
si salda al vero e alla natura; dall'altro, le tante posizioni laiche,
che denunciano l'arbitrarietà di questa operazione, per
definizione non possono trovare un fondamento
universale.
Il volume ha per protagonista assoluto un Soggetto
che trova la propria realizzazione nell'autodeterminarsi. Occorre
riflettere su cosa significhi “autodeterminazione”,
perché essa non sembra consistere nella realizzazione di una
azione particolare. Mi autodetermino se, malato
cronico condannato ad un'esistenza di tormento, decido di porre fine
alla mia vita, o se al contrario autonomamente scelgo di proseguire. Autos
e nomos: si autodetermina un Soggetto che norma se
stesso. Si tratta, come vedremo, di una struttura narrativa
particolare; per ora diremo che, in questa chiave, la decisione su una
serie di pratiche terapeutiche estreme, volte a conservare la vita
anche laddove non ne sia più garantita la
qualità, come la nutrizione artificiale, la rianimazione,
l'uso di ventilatori per sostituire la respirazione, è
subordinata al raggiungimento dell'autodeterminazione: si tratta solo
di programmi narrativi d'uso, accessori al programma narrativo di base
“autodeterminarsi”.
Quale Soggetto si
autodetermina qui? Questa particolare funzione narrativa si incarna nel
ruolo tematico del paziente, ed in attori individuali
come Eluana Englaro o Piergiorgio Welby. Non si tratta mai di soggetti
collettivi o più astratti, come “lo
Stato”, “la comunità”,
“la famiglia”. Il racconto dell'autrice sceglie
dunque questo peculiare punto di vista, tra gli altri possibili.
Rispetto
al paziente-Soggetto, possiamo identificare altri attori ricorrenti, e
interrogarci sui loro ruoli tematici. Medici, politici,
religiosi rappresentano per lo più altrettanti ostacoli
disseminati lungo il percorso del Soggetto, incarnando il
non-poter-fare del paziente. Non posso scegliere se porre fine alla mia
vita o meno; non posso scegliere di non essere rianimato; non posso
scegliere di non venire sottoposto ad alcuni trattamenti medici.
Dunque, non posso ricongiungermi al valore dell'autodeterminazione.
Nei
confronti del Soggetto-paziente, dunque, gli altri attori si
configurano come opponenti. Non soltanto: essi
impongono i propri valori al Soggetto. Ad esempio,
il medico si fa portavoce di un anti-valore quale il paternalismo, cui
l'autrice dedica pagine molto critiche: egli tende a sostituirsi alle
scelte del paziente nel nome di una ineguale distribuzione del sapere
medico.
La legge invocata dall'autrice sul fine vita serve ad
evitare tutto questo: essa dovrebbe garantire l'autodeterminazione
anche nel caso in cui il paziente non è più in
grado di agire, e trasformare alcuni opponenti in aiutanti.
In questa chiave si può inquadrare anche la figura dell'amministratore
di sostegno, che costituisce l'oggetto di uno dei capitoli
più interessanti e originali del volume rispetto alla media
della letteratura di argomento bioetico.
Come si è
detto, si riscontrano nella polemica bioetica valori e anti-valori. La
“autodeterminazione” si oppone di volta in volta al
“paternalismo”, o alla
“indisponibilità della vita”. In ogni
racconto, tali valori circolano tra i soggetti nel loro universo
semantico immanente. I valori sono già dati: non si creano
né si distruggono. Essi lasciano tuttavia pur sempre
presupporre un universo trascendente, fonte dei valori stessi, dal
quale provengono, ed un Destinante, un
“indirizzatore”, che ponga i due universi in
comunicazione. Nel racconto della Lalli – e qui veniamo alla
peculiare struttura dell'autodeterminazione – il Destinante
coincide essenzialmente con lo stesso paziente: è
il paziente, non il medico, né un Dio e neppure il Caso, a
scegliere cosa ha valore e cosa no entro l'orizzonte della propria
esperienza.
Questa struttura narrativa contraddistingue una
gran parte del discorso bioetico, in particolare di marca liberale: il
paziente è contemporaneamente il Soggetto
dell'azione, tramite la quale si congiunge ad alcuni valori, e il Destinante,
che decide dei valori medesimi. Non mancano i riferimenti a John Stuart
Mill: "Il solo scopo per cui si può legittimamente
esercitare un potere su qualunque membro di una comunità
civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare
danno agli altri". Con ciò – nota a margine
– chi non si attiene alla massima si qualifica
automaticamente come un essere incivile. Anche l'imperativo categorico
kantiano è interpretato, riprendendo Bruce Miller, nel
seguente modo: «se il medico (…) ignora le
specifiche richieste del singolo in nome di un bene più
ampio, finirà con il calpestare l'autonomia»
(p.35).
Nel racconto bioetico l'autodeterminazione si presenta
come una delle possibili soluzioni di un conflitto modale: il "voler
fare" del paziente si scontra con un suo "non poter fare". Si tratta
infatti della volontà di sospendere cure non risolutive nel
quadro del deterioramento della qualità della vita del
paziente, nel caso di Welby; oppure della volontà espressa
in un testamento biologico, quando il paziente non sia più
cosciente. In questo caso una terza persona, il medico, deve
intervenire per conto del paziente stesso in modo che sia rispettata la
sua volontà. Questa è l'accezione
valoriale e modale che il discorso liberale assegna al "bene" del
paziente.
I conflitti nascono nel momento in cui
altre narrazioni attribuiscono un senso diverso al "bene" del paziente,
declinato in senso medico oppure teologico-morale. Il volume prende ad
esempio il discorso del medico paternalista. Dal suo punto di vista il
valore con cui il paziente dovrebbe congiungersi non è
l'autodeterminazione, ma – almeno idealmente – la
salute; per lo meno, dovrebbe rimanere disgiunto dallo stato di morte.
Il medico rivendica allora la superiorità del proprio
"sapere" settoriale rispetto al paziente e il suo ruolo cessa di essere
quello di aiutante/opponente: è egli stesso ad occupare, in
luogo del paziente, la funzione narrativa che abbiamo chiamato Destinante.
Qualcosa di molto simile accade nel momento in cui il discorso
teologico-morale considera la "vita" come il valore con cui il paziente
deve ad ogni costo rimanere congiunto. Il Destinante
sarà allora una struttura complessa di intermediari che si
fanno interpreti della volontà divina. In questa prospettiva
la vita non è in ogni caso nella disponibilità
del paziente, egli non può, a prescindere, giocare sia il
ruolo di Destinante sia quello di Soggetto, e ne
deriva che né il medico né i familiari
né altre figure possono essere "aiutanti" risolvendo il
conflitto modale tra "volere" e "non potere" in favore del primo
termine. Non solo: poiché il valore in gioco è un
altro, poiché si tratta della vita e non
dell'autodeterminazione, in questa struttura narrativa l'unico
"aiutante" possibile è chi fornisce al paziente il sostegno
per rimanere congiunto alla vita: un punto centrale nel discorso
cattolico, quello del sostegno psicologico ed economico alle persone e
alle famiglie che vengono a trovarsi in queste situazioni.
Dovrebbe
ormai essere chiara la differenza tra la prospettiva dell'autrice e
quella che abbiamo scelto nell’occuparcene qui. L'interesse
del libro è dettato dal fatto che esso esprime una delle
articolazioni del senso del morire in età contemporanea; il
suo limite è il costante tentativo di stabilire il reale
senso del morire, per lo meno in una certa prospettiva laica.
L'operazione talvolta riesce: ad esempio, quando si esaminano una serie
di equivoci semantici e di confusioni deliberate rispetto ad
espressioni come "accanimento terapeutico" o "trattamento non medico",
spesso impiegate sofisticamente per negare ciò che
è una garanzia costituzionale, ovvero il diritto a rifiutare
le cure. In altri casi le conclusioni dell'autrice ci paiono
più controverse: ad esempio, quando (capitolo 10) considera
ipocrite le distinzioni tra “causare” e
“non impedire” la morte, su cui si basa una parte
della bioetica sia laica sia cattolica. Da un punto di vista modale
sono possibili quattro articolazioni del “far
morire”:
Come si vede, “far
morire” presuppone il “non impedire la
morte”, non viceversa: una cosa è lasciare che un
gatto mangi un topo, e una cosa diversa è uccidere il topo
con le nostre mani. Questa sfumatura semantica tra intervenire e non
intervenire attivamente è, secondo l'autrice, una mera
questione di ipocrisia. Con questo giudizio il quadrato logico collassa
nella semplice opposizione binaria tra causare e impedire la morte.
Paradossalmente dunque Chiara Lalli si trova d'accordo con quei
cattolici che si dichiarano contrari a ogni forma di non-intervento, in
quanto costituirebbe comunque eutanasia, e per questo invocano leggi
che obblighino i medici ad intervenire sempre e
comunque per “salvare la vita”. Allo stesso tempo,
con questa posizione si chiude ogni spiraglio di dialogo e convergenza
tra cattolici e non cattolici sulle forme del non intervento.
Tuttavia,
nel momento in cui è diversa l'assiologia
di fondo che anima narrazioni cattoliche, mediche, laiche,
può il laico limitarsi a ribadire il proprio Credo?
Eppure, giustamente l'autrice dichiara di voler evitare la sterile
contrapposizione ideologica tra credenti e non credenti: solo la tenuta
di una argomentazione dovrebbe contare nella discussione. Nonostante
questo, quando si arriva ai valori profondi, sembra che nel dibattito
bioetico a ciascuna parte non resti che ribadire i propri. E a dire il
vero l'autrice porta ottime argomentazioni al principio di
autodeterminazione sul piano formale: se la legge permettere una scelta
all'individuo, tutela sia chi opta per A sia chi si decide per non A, e
permette a tutti gli individui di rispettare i propri valori.
Purtroppo, questa regola generale non si dimostra sempre valida: non
è permesso prescriversi da soli farmaci o esami
specialistici nel nome dell'autodeterminazione.
Il punto non
è tanto la logica formale, quanto
quella narrativa che anima ciascuna argomentazione; differenti sono le
ideologie di fondo filosofico-liberale, medico-scientifica,
teologico-morale. La domanda è: sono incompatibili? Una
legge sul fine vita che tuteli l'individuo deve necessariamente entrare
in conflitto con l'etica professionale del medico o con la pietas
collettiva? Dobbiamo rinunciare al confronto e rivolgerci
solo a chi è già convinto delle nostre tesi?
Tra
i tanti casi il volume analizza quello di un testimone di
Geova in fin di vita, cui viene praticata una trasfusione nonostante
portasse un cartellino in cui esprimeva, a dire il vero piuttosto
sinteticamente, il suo rifiuto. In seguito denuncia il medico, ma
infine non gli viene riconosciuto un danno morale, in quanto il
cartellino era insufficiente a costituire un caso di consenso
informato. Tanti sono i dubbi possibili, quando il medico si trova di
fronte un caso del genere: il paziente potrebbe aver deciso in base a
convinzioni ideologiche, le quali possono sempre venir meno in presenza
di un pericolo di vita. Il consenso informato presuppone ovviamente una
decisione posteriore all'acquisizione di
informazioni. L'autrice non concorda tuttavia con la decisione del
tribunale, in quanto in caso di incoscienza è impossibile
esprimere il consenso, e il giudizio del tribunale renderebbe
impossibile qualunque espressione anticipata delle proprie
volontà.
In qualche modo, questa sembra una
conclusione affrettata. Qui
entra in gioco la modalità del sapere,
che come abbiamo detto caratterizza il discorso medico in opposizione a
quello liberale, focalizzato sul potere. A nostro
parere, un tratto tipico dell'approccio liberale all'etica è
in effetti proprio questo: il suo punto di partenza è un
individuo ideale, dotato di una perfetta
razionalità ed in possesso di perfette informazioni. La
realtà è ben diversa, al punto che c'è
da chiedersi quanto sia corretto adottare questi presupposti
sull'essere umano.
Basta uscire anche di poco da una cornice
filosofica liberale
per trovare altri punti di vista possibili sul problema. Ad esempio, le
convinzioni del testimone di Geova, al pari di quelle di qualsiasi
altro essere umano, non maturano in perfetta solitudine, vagliata ogni
possibilità, nel chiuso di una biblioteca universale dopo
vent'anni di studio. Egli è parte di una cultura
più ampia, e di un gruppo sociale determinato e animato da
idee particolari, coi quali mantiene sempre un legame. Egli vive
gettato nel mondo, e le sue convinzioni possono sempre mutare a seconda
delle proprie esperienze. Il paziente non si trova mai in uno stato di
splendida autonomia: le sue convinzioni sono comunque un prodotto delle
strutture sociali, culturali, linguistiche in cui si trova
già da sempre gettato. Tali strutture lo assoggettano, per
usare il gioco di parole di Michel Foucault. Il racconto di Chiara
Lalli è sempre in qualche modo animato da attori individuali
e umani – medici, giudici, familiari … Quel che
tuttavia accade è purtroppo l'assoggettamento del paziente a
procedure standard, diremmo meccaniche, nel momento in cui la sua vita
è affidata alla scienza medica dal pronto soccorso all'hospice.
Di questo si lamentano a più riprese Beppino Englaro e
Piergiorgio Welby, e del senso di espropriazione che ne deriva.
Macchina senza guida e senz'anima, la procedura è in qualche
modo figlia di esigenze scientifiche e legali, a tutela del paziente e
del medico. Essa è tuttavia disumana nella propria stupida
inesorabilità: è ancora una volta una struttura
che determina le relazioni e le interazioni degli attori in gioco.
In
molti sensi, nessuno di noi è davvero un
"individuo". I processi di individuazione non sono mai del tutto
conclusi, non portano mai ad uno stato di stabilità assoluta
che dopo la morte. Un legame tra individuale e collettivo è
sempre mantenuto. Tutto questo possiamo affermare, ad esempio con
Gilbert Simondon o con Gilles Deleuze. Nemmeno la perfetta
informazione, il perfetto sapere, è cosa che si dia in
qualche occasione. Ogni legge sul consenso informato espresso tramite
direttive anticipate deve tenere dunque conto di questo: non basta
scrivere una frase su un tovagliolo per esprimere un consenso
informato, occorre che chi si esprime disponga, nel momento in cui si
appresta a compilare la richiesta, di tutte le informazioni mediche
più aggiornate e sia cosciente di tutte le conseguenze del
suo gesto in termini legali. Non vedremmo inoltre nulla di male se
periodicamente egli dovesse rinnovare tale consenso: in fondo si fa
anche con la carta di identità. Occorre tener conto del
fatto che si può cambiare idea: se a vent'anni mi pronuncio
contro la donazione dei miei organi, a quaranta posso decidere in
favore. Nel caso non vi siano queste condizioni, non ci pare giusto
incolpare quel medico che porti fino in fondo il proprio dovere
deontologico e professionale, poiché dal suo punto di vista,
come si è detto, il valore in gioco è la
sopravvivenza materiale del corpo: non quella spirituale dell'anima, e
neppure il rispetto di una visione totalizzante della
libertà individuale.