VISIONI / AI CONFINI DELLA REALTÀ. PRIMA SERIE, 1959/1963


di Rod Serling / Rai3, 2014


 

Cinque passi nell'Unheimlich

di Adolfo Fattori

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Esattamente a mezzo secolo dalla conclusione della quinta stagione della prima serie di Ai confini della realtà (nell’originale americano The Twilight Zone: “la zona del crepuscolo”), Rai3, rendendo felici i primi seguaci della serie (ormai almeno sessantenni), e quei giovani che ne hanno sempre sentito parlare in termini mitici, ma che forse non sono mai riusciti a conoscerla, ne ha avviato la replica – una delle rarissime sui canali “in chiaro” – con l’inizio della programmazione estiva, dal lunedì al venerdì, a cavallo dell’ora di cena, riproponendo il dono epifanico che la Rai dal suo unico canale dell’epoca fece ai primi telespettatori della storia italiana, invitandoli, con Rod Serling, il creatore della serie, ad entrare nella “quinta dimensione, quella dell’immaginazione”.

Collocata storicamente come produzione fra Rin Tin Tin (1954/1959) e Avventure in elicottero (1957/1960), a qualche anno da un’altra serie cult come Mission: Impossible (1966/1973), ad un primo sguardo la serie non ha perso nulla della sua capacità evocativa e straniante – evocativa di mondi altri, beffardi e fatali, straniante nelle caratteristiche della fotografia, del montaggio, dell’evolversi della narrazione, già ben prima che un maestro del perturbante fantascientifico come Richard Matheson (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 44) cominciasse a firmarne alcune sceneggiature.

Possiamo ipotizzare che l’effetto di straniamento che oggi proviamo nel rivedere gli episodi della serie sia legato per noi anche alla qualità delle immagini, all’uso della cinepresa, della pellicola analogica, ad un “effetto cinema” cui la tv e l’evoluzione dei mezzi di ripresa e riproduzione magnetici e poi digitali ci hanno ormai disabituati: la storia della televisione è storia – anche, se non prima di tutto – di evoluzione delle tecnologie di registrazione e riproduzione audiovisiva. Ma c’è di più: c’è prima di tutto l’uso degli studios di Los Angeles per le riprese in interno, con la magia della fotografia e della luce dei grandi film hollywoodiani, e poi la leggera sovraesposizione delle riprese in esterno, cercata o meno, legata alle location: i dintorni alieni e arroventati della Death Valley, quella di tanti film – e di tanti fumetti – western. Anzi, almeno per noi italiani, le geografie desertiche, allucinate, di alcuni episodi si completavano e si confermavano reciprocamente con gli scenari delle avventure di Tex Willer (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 28), di Capitan Miki

In secondo luogo, possiamo sostenere che la godibilità di questi telefilm dipenda solo da queste caratteristiche? O, ragionando al ribasso, dalla nostalgia di noi anziani appassionati, e per i più giovani dell’alone mitico che circonda la serie?

Non è possibile piuttosto che – passando dal piano della forma a quello dei contenuti, pur ammettendo che questa distinzione è brutale e superficiale – la forza attrattiva che la “Zona del crepuscolo”, individuata ed esplorata da Serling con i suoi compagni di viaggi immaginari più di cinquanta anni fa, sia ancora densa di sorprese e di allusioni per noi abitanti a vario titolo del terzo millennio perché coglie dei punti che sono ancora sensibili? Dei luoghi di crisi che riguardano anche questi anni?

Ancora, le analisi classiche sul seguito di pubblico – inizialmente pigro, poi sempre più convinto – che ebbe Ai confini della realtà rimandano al clima di generale inquietudine e paura di quegli anni, segnati dal ricordo ancora recente della Seconda guerra mondiale e dal clima opprimente della “guerra fredda” e della paura di una prossima catastrofe nucleare. Sono gli anni della Guerra di Corea, poi della “crisi dei missili” di Cuba – e degli avvistamenti di Ufo un po’ in giro negli Stati Uniti e non solo (cfr. Pincio, 2006).

Ma ormai possiamo pensare che queste considerazioni siano troppo semplicistiche, superficiali, non vedano il quadro completo delle cose. Perché sennò oggi il senso di perturbante che ci coglie ancora (ri)guardando in Tv i telefilm della serie sarebbe almeno diluito, se non disinnescato, sterilizzato. C’è dell’altro, di più profondo, di più sottile e ineffabile, che fa di The Twilight Zone quasi un anticipo, una promessa di quella dimensione post-seriale della fiction televisiva in cui siamo immersi oggi (Brancato, 2011), dimensione che ben riflette i quadri delle insicurezze e dei disagi che la società tardomoderna nutre nei confronti di una realtà in trasformazione frenetica nei suoi modi e imprevedibile nei suoi esiti.

Tanto che, seppure da sempre rubricata come di science fiction, la serie sembra più appartenere ai domini del fantastico, classico genere narrativo della crisi, mimetico ai punti di frattura che hanno segnato la storia sociale – e quindi la storia dell’immaginario (cfr. Todorov, 2000): “Niente è come sembra – o perlomeno, è bene avere dei dubbi sulla reale struttura della realtà…”, questa è la cifra profonda dei telefilm della serie. Una condizione della percezione delle cose che si ripresenta periodicamente nella storia delle società moderne, e una beffarda sintesi allarmata ed escatologica dei principi della fenomenologia. Qualunque sia il genere narrativo scelto volta per volta come contenitore dagli sceneggiatori degli episodi della serie, da quelli più rigorosamente fantascientifici, a quelli esplicitamente fantastici, a quelli western, ad esempio, con qualche incursione nella vecchia Europa delle foreste mitteleuropee, quelle del diavolo e degli esorcisti, per intenderci (Ululati nella notte, 2x5, 04/11/1960, sceneggiatura di Charles Beaumont, regia di Douglas Heyes, The Howling Man)…

La serie esordisce con una storia, almeno nella sua “confezione”, esplicitamente fantascientifica, La barriera della solitudine (1x1, 02/10/1959, Where Is Everybody?, 01/04/1962, sceneggiatura di Serling, regia di Robert Stevens): un aviatore – almeno così pare dalla divisa che indossa – che sa solo di chiamarsi Mike Ferris, si risveglia, senza ricordare come e perché ci è arrivato, in una cittadina tipicamente americana, incomprensibilmente disabitata, vuota. Tutto è lindo e pulito, chiaro, di una luminosità quasi abbagliante, ma silenzioso, muto. Un villaggio di un futuro in cui l’umanità è scomparsa? Una ghost town congelata in un attimo perenne? Una replica extraterrestre o fuori del tempo di una qualsiasi cittadina umana?

Ferris sente di essere osservato, e comincia ad esplorare la cittadina per trovare qualche traccia di vita, mentre la sua paranoia nel sentirsi spiato e contemporaneamente evitato aumenta sempre più, alimentata dall’assenza di rumori e di movimenti, tranne quelli prodotti da casuali colpi di vento. Fin quando, travolto dall’angoscia, preme disperato l'interruttore per pedoni di un semaforo mentre urla le sue richieste di aiuto…

A questo punto – solo a questo punto della storia – la scena muta: siamo in un hangar, con un pezzo grosso dell’aeronautica militare e qualche tecnico, o scienziato. Davanti a loro, una cassa chiusa. La cassa viene aperta: dentro vi è Ferris. Quello cui abbiamo assistito è un esperimento – militare – di deprivazione sensoriale, in cui Mike si è offerto volontario. La sua è stata tutta un’allucinazione, un incubo indotto dalla sua condizione, e il pulsante del semaforo era la proiezione nel suo inconscio del segnale che Ferris avrebbe inconsapevolmente inviato nel momento in cui la sua condizione fosse diventata troppo rischiosa, ai confini con la follia…

Già in questo esordio troviamo alcuni dei cardini della “poetica” della serie: l’arrivo in un luogo riconoscibile ma dissonante, familiare ma estraneo, Unheimlich, insomma; il punto di vista dello spettatore, che coincide con quello del protagonista grazie alla macchina da presa costantemente concentrata su di lui, proiettandolo in una condizione di completa soggezione al flusso degli eventi e di impossibilità di avere uno sguardo “esterno” alla situazione (come accadrà alcuni decenni dopo a Truman Burbank in The Truman Show); l’impressione che ci sia qualche forza, qualcosa o qualcuno, che da una sfera esterna ci osservi, ci governi, ci muova, rendendoci ostaggi, cavie o vittime di un esperimento di qualche genere, un “complotto metafisico”, come lo battezzerà Philip K. Dick, o “cosmico”, come sembra temere il “senso comune” orientato dai profeti del neoterico contemporaneo (Camorrino, in pubblicazione); per implicazione, l’idea che ogni cosa stia per qualcos’altro, e che noi siamo in balìa di un’allucinazione sistematica, programmata, perfida: il pulsante del semaforo non è il progenitore dei telefoni di Matrix (2013), uscito nelle sale nel 1999, allo scadere del secondo millennio? Non è lecito riconoscervi il seme da cui germoglierà l’immaginario della simulazione e del virtuale, fino al cyberpunk? In ogni caso, La barriera della solitudine crea un filone, che potremmo definire del “luogo familiare ma sbagliato”: qui è proprio il luogo fisico ad essere “perturbante”, come nelle riflessioni di Sigmund Freud (1991), come – con varie declinazioni – in Ore perdute (The After Hours, sceneggiatura Rod Serling, regia Richard Hayes), in cui una ragazza è ai Grandi Magazzini per comprare un regalo alla madre, ma prendendo l’ascensore si ritrova ad un piano in cui dallo sfavillante e colorato scenario degli espositori e delle merci si passa ad un luogo fatiscente e polveroso, e scopre che la realtà è ben diversa da quella dei piani inferiori…

O in Elegy (1x20, 19/02/1960, Tre uomini nello spazio, 07/10/1962, ancora con la coppia Beaumont-Heyes), in cui tre astronauti sbarcano su un pianeta identico alla Terra, ma popolato solo da persone completamente immobili, tranne una: dove sono capitati? Anche qui, come in La barriera della solitudine, un tempo che si è bloccato in un attimo infinito, eterno, un tempo fermo che sembra quello odierno, in cui l’esempio del passato non funziona più, e le promesse del futuro non hanno più presa.

O ancora, in Gli invasori (2x15, 27/01/1961, di Matheson e Heyes, The Invaders), parabola moebiusiana su macrocosmi e microcosmi maxi e mini/umani. Un altro motivo ricorrente è quello della posizione dell’individuo nei rapporti con la costruzione della realtà: se in L’avventura di Arthur Curtis (1x23, 11/03/1960, World of Difference, 12/04/1964, Matheson e Ted Post) ci godiamo una rielaborazione straniante (!) di Helzapoppin’ (Potter, 1941), in Un mondo su misura (1x36, A World of His Own, Matheson, Ralph Nelson) avviene il contrario: laddove Arthur Curtis scopriva di essere il personaggio di un film, qui il protagonista – uno scrittore di romanzi – è il creatore della realtà, o almeno di una delle realtà possibili. A dire il vero, le realtà possibili sono infinite – almeno nell’immaginazione, nella percezione – dei personaggi incontrati dagli esploratori dei loro confini, e incrociano spazio e tempo fra loro, secondo tutte le figure escheriane teorizzate dalla topologia delle geometrie non euclidee.

Così in La giostra (1x5, 12/06/1962, Walking Distance, 30/10/1959, Serling e Stevens), un uomo si ritrova con l’auto in panne nei dintorni di un paesino che scopre essere quello della sua infanzia, luogo della memoria e della nostalgia, fino a incontrare se stesso bambino e i suoi genitori. Qualcosa di simile succede al protagonista di Una sosta a Willoughby, un pendolare (A Stop to Willoughby, 1x30, 06/05/1960, di Serling e Robert Parrish), solo che la cittadina di Willoughby dove finalmente un giorno il nostro decide di scendere dal treno per una sosta fuori programma è a quanto è dato di capire frutto solo del suo desiderio e della sua fantasia…

E ci fermiamo qui, nel citare dall’oceano di storie che Rod Serling ci ha regalato.

Nostalgia per mondi perduti o mai conosciuti, o semplicemente inesistenti; dubbi sulla struttura del reale; interrogativi sul nostro statuto di umani; e si potrebbe continuare. Praticamente, tutti i temi su cui l’immaginario moderno – e poi quello postmoderno – si è esercitato, riflettendo ansie, inquietudini, incubi senza risposta dell’individuo moderno, da William Shakespeare in poi. Davvero siamo della “sostanza di cui son fatti i sogni”? E l’intera realtà è il sonno che ci circonda? Tanto che il sogno diventi un incubo senza fine, che assume volta per volta, o anche contemporaneamente, volti e luoghi diversi da abitare? Un riflesso di quel sotterraneo senso di disagio e spaesamento che ha colto periodicamente l’orgoglioso uomo della modernità durante il suo percorso, probabilmente.

E in cui siamo immersi anche oggi, alle soglie di trasformazioni che ancora non riusciamo a circoscrivere e immaginare appieno. Quelle che ci fanno parlare, in mancanza di termini migliori, di postmoderno, postumano (cfr. Brancato, 2014, Gorz, 2003), postorganico (cfr. Macrì, 2006).

Siamo – come era stato al momento dell’esplodere dell’esperienza del romanzo gotico e del racconto fantastico, e di nuovo negli anni di The Twilight Zone – in una fase storica in cui continuamente percepiamo di perdere gli ancoraggi che ci assicurano – e rassicurano – sulla condizione di cui facciamo esperienza quotidiana: sulla nostra identità, sulla solidità della struttura della realtà naturale e sociale di cui facciamo parte. Se i premoderni potevano appellarsi agli dei, al sacro immanente alla natura, noi non abbiamo a chi rivolgerci, se non alla solidità del pensiero razionale. Che però non sempre è sufficiente a placarci, perché è lo strumento che ci ha reso il mondo più chiaro e leggibile, più comodo e rassicurante, ci ha rivelato che la nostra condizione, la condizione umana, è sempre “a rischio”, e non abbiamo incantesimi o rituali o sacrifici a disposizione per blandire o rabbonire eventuali forze metafisiche di qualsiasi tipo che ci governano, semplicemente perché non ci sono: la razionalità della scienza ci ha svelato che la natura è cieca e che gli eventi in cui siamo coinvolti nelle nostre vite per quanto ci riguarda sono frutto di quello che possiamo chiamare solo “Caso”, non essendo capaci, non avendo gli strumenti per ricostruire all’indietro le infinite catene di cause ed effetti che ci hanno portato volta per volta in un certo momento, in un certo luogo, ad un certo evento. Per cui ci sentiamo sempre a rischio di qualcosa che non possiamo prevedere o controllare: “La necessità antropologica di conferire ordine all’esperienza si struttura intorno al concetto di “rischio”: è questo il dispositivo cui la modernità dà forma per gestire (anche psicologicamente) tutti gli eventi anomici capaci, in assenza di una adeguata strategia di controllo, di generare forme di terrore e di angoscia” (Camorrino, cit.). Non abbiamo paracadute, o reti di protezione. Viviamo nel rischio.

Consapevoli – chi più, chi meno – di essere ad un punto di svolta epocale, al momento della “…caduta dell’umano nel mondo”, dopo la sua “nascita e trionfo” (Abruzzese, 2011), rielaboriamo in forma laica categorie come Destino, Fato, Fortuna. Torniamo alle dimensioni dell’irrazionale, ma nelle sue forme più perturbanti, riarticolate secondo i modi della narrativa – scritta e per immagini. E in questo processo torniamo anche alle sue origini, come succede con la riproposizione di Ai confini della realtà, scoprendovi nuovi tesori e nuove qualità, anche, come l’anticipo di cifra post-seriale che connotava la serie, proponendo episodi staccati l’uno dall’altro, con personaggi, attori, situazioni, immaginari diversi rimescolati e riscritti al servizio del medium tardo-novecentesco per eccellenza, la televisione. Un seme destinato a generare ibridi e meticci rigogliosi e affascinanti: a partire dal 1990 Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost per la Abc (2011), poi, dal 1994 X-Files di Chris Carter per la Fox (2006), e più di recente, fra il 2004 e il 2010, la lunga saga di Lost, creata da J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber (2006; cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 28), per finire (2009-2010) con FlashForward di Brannon Braga e David S. Goyer per la Abc (2010) e l’ancora on air The Leftovers di Damon Lindelof e Tom Perrotta per la Hbo, tutti a rielaborare il senso dell’ignoto e dell’indecifrabile che irrompe nella vita quotidiana distruggendo certezze, abitudini, credenze.

Ma, soprattutto, a performare il senso di impotenza e di solitudine dei protagonisti che si scoprono improvvisamente risucchiati – o catapultati, o abitanti – di luoghi che si mostrano inquietanti e di situazioni che appaiono indecifrabili, individui abbandonati a se stessi, in balìa di forze inconoscibili, stati d’animo che rimandano – oggi, ed è questo che rende ancora o di nuovo attuale la serie – a due delle cifre della condizione umana contemporanea: la percezione degli individui di una propria singolarità unica ed irripetibile, che da motivo di orgoglio diventa fonte di angoscia e anomia; la sensazione di essere oggetto di un “complotto cosmico” irriducibile, da cui né la potenza della scienza contemporanea – di cui è meglio diffidare – né la forza di una qualche entità sacra – svanita da tempo oltre gli orizzonti umani – né i rigurgiti di irrazionale travestiti da narrazioni disciplinari ecologico/salutistiche – ci possono difendere, o men che mai salvare.

 


 

LETTURE

Alberto Abruzzese, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.
Sergio Brancato, Post-serialità, Liguori, Napoli, 2011.
Sergio Brancato, Fantasmi della modernità, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
Antonio Camorrino, La natura è inattuale, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, in pubblicazione.
Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 1991, Bollati Boringhieri, Torino.
André Gorz, L’immateriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Teresa Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Genova, 2006.
Tommaso Pincio, Gli alieni, Fazi, Milano, 2006.
Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 2000.

 

VISIONI

J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, Lost, Walt Disney Studios Home Entertainment, 2006 (home video).
Brannon Braga, David S. Goyer, FlashForward, Walt Disney Studios Home Entertainment, 2010 (home video).
Chris Carter, X-Files, 20th Century Fox Home Entertainment, 2006 (home video).
Mark Frost, David Lynch, I segreti di Twin Peaks, Universal Pictures, 2011 (home video).
Henry Potter , Hellzapoppin’, Usa, 1941.
Pietro Sartoris, Dario Guzzon, Giovanni Sinchetto, Capitan Miki, Il Sole24ore, Milano, 2013.
Rod Serling, Ai confini della realtà - Stagione 1, Dnc Communications, 2005 (home video).
Lana e Andy Wachowski, Matrix, Usa, Warner Home Video, 2013 (home video).
Peter Weir, The Truman Show, Usa, Universal Pictures, 2011 (home video).