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In Ritorno al futuro, il piccolo capolavoro di science fiction di Robert Zemeckis del 1985, il protagonista, il giovane Marty McFly, sbalzato indietro di trent’anni – quindi nel 1955 – conosce al suo arrivo una comprensibilissima angoscia da straniamento non potendosi spiegare cosa gli è successo. Angoscia che aumenterà quando scoprirà che non solo ha viaggiato a ritroso nel tempo, ma nell’anno in cui è capitato sarà molto difficile procurarsi il carburante necessario a far funzionare la macchina del tempo che lo ha portato fin lì. Alla fine sopperirà con l’energia di un fulmine. Peggio ancora quando, nel sequel ambientato nel Far West ottocentesco, dovrà ricorrere ad un treno – ancora a vapore – per ritornare indietro, nel suo tempo.
Lo sconcerto e il senso perturbante, almeno nel primo caso, viene dalla coesistenza di consueto e imprevisto che coglierebbe – immaginiamo – chi si ritrovasse in una situazione simile, privo improvvisamente degli ancoraggi e delle certezze cui è abituato nel suo “mondo-dato-per-scontato”, per usare le parole di Alfred Schutz.
Uno straniamento del genere può capitare che lo provi l’adulto quando entra in una scuola: la mescolanza di vecchio e nuovo è forte, può diventare inquietante: le scuole somigliano troppo a quelle che erano quando lui le frequentava, ma con qualcosa di dissonante: tecnologie avanzate e vecchie suppellettili, infissi moderni alle finestre e sbarre anti-invasione a chiuderle – e a rafforzarne la somiglianza con le “istituzioni totali”.
Una realtà “altra”, sospesa in uno spazio-tempo scaleno, dislocato, grigiastro, che fa pensare a quei mondi paralleli immaginati dalla narrativa steampunk: carbone e vapore insieme a piccoli accenni di postmodernità…
Ecco, la tecnologia, le energie, le “forniture”, come dicono gli insegnanti di ragioneria: acqua, elettricità, gas, telefono. I telefoni ci sono, e anche internet. L’elettricità pure, per forza. Ma… vi siete mai accorti che nelle scuole manca l’acqua calda? Come peraltro mancano gli specchi nei bagni.
Sarà per risparmiare? Per evitare che il mondo sia invaso dal popolo degli specchi di cui narra Jorge Luis Borges nel Manuale di zoologia fantastica? Per evitare che qualcuno, improvvisamente impazzito (notevole, l’idea di scuola che questo presupporrebbe) si sgozzi con una scheggia di specchio? O anneghi nell’acqua bollente? Crediamo di no. 

Alberto Abruzzese, intervenendo ad un convegno di insegnanti del Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), a Napoli, nel 1995, dimostrava come la nostra scuola fosse ancora basata su un modello ottocentesco, teatrale: gli alunni seduti in platea, l’insegnante sul palcoscenico. Questa dimensione di superficie, residuale, ammuffita, riverbera, o meglio performa l’idea di fondo che doveva occupare le teste dei legislatori e degli educatori di allora: dalla scuola dovevano uscire dei veri uomini, temprati nel sacrificio e nel disagio (di donne ne andavano poche, a scuola), destinati a diventare soldati, cresciuti ad acqua fredda e latrine in cortili gelidi, pronti a farsi macellare e ad ammazzare per qualche discutibile ideale o improbabile divinità.
È ancora, per certi versi, così, dove nel modello di istruzione in uso sono coinvolti anche gli insegnanti, che condividono come ambiente lavorativo quello che per gli alunni è l’ambiente educativo (!) vittime di una condizione – di utenti e lavoratori – umiliante, feudale, da sudditi. Cosa che avviene in ben pochi luoghi di lavoro: essere “servitori dello Stato” non significa essere al servizio della collettività, ma essere trattati come servi della gleba…
La scuola italiana non ha ancora scoperto l’acqua calda, insomma, cosa che invece fecero anni fa i componenti di quel “Gruppo dei novanta saggi” di cui facevano parte intellettuali come Umberto Eco e Rita Levi Montalcini che, nominato e strombazzato dall’allora ministro Berlinguer, decise che i saperi essenziali, strategici, irrinunciabili per i nostri ragazzi erano compresi nel saper “leggere-scrivere-e-far-di-conto”. Riconoscimento di un ritardo cronico nella trasmissione delle conoscenze, o presa d’atto dell’estraneità della scuola ai saperi necessari per vivere nel mondo d’oggi?
Scuola che, al di là delle dichiarazioni di principio che fanno da sempre i nostri governanti, continua indefessamente e orgogliosamente ad ancorarsi al passato. Ed evidentemente le nostre scuole non riescono, come Marty McFly, ad usare l’elettricità per adeguarsi al futuro che è già fra noi. Una speranza del genere avrebbe il valore di quello che scriveva Vladimir Il’ič Lenin: “… Il socialismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”. Non è stato vero in Russia. Come non è vero che l’elettricità abbia portato la contemporaneità nelle scuole. 
E neanche il vapore. Magari l’acqua calda aiuterebbe…