Do Androids Dream of Heretic Lambs? L’ultimo dei replicanti di Adolfo Fattori

 


SCENA 3, esterno notte.

Saragozza, Spagna, 1352 d. C.

Una figura magra, che indossa una cappa nera al di sopra di una tonaca bianca, cammina decisa lungo le mura della città, diretta verso l’ingresso del torrione che ospita il tribunale e le prigioni dell’Inquisizione. È Nicolas Eymerich, l’Inquisitore. Di questo personaggio abbiamo precise e copiose notizie storiche: ne scrive spesso, nella sua opera, Henry Lea.[6]

Ma il cronista più preciso e approfondito sicuramente è Valerio Evangelisti, che dedica all’inquisitore di Aragona diversi volumi, narrandocene le azioni, le avventure, le motivazioni.[7]

Eymerich ha una missione: estirpare l’eresia con ogni mezzo, lecito o anche illecito – almeno rispetto alla morale comune. Un inquisitore risponde solo all’autorità del Papa. Anzi, solo a  quella di Dio, perché in quei tempi anche il Vicario di Cristo non sempre ha piena legittimità agli occhi della gerarchia cristiana. Può usare la tortura, la menzogna, l’inganno, la minaccia (tanto poi può confessarsi e essere assolto).

E Nicolas è maestro di sotterfugi e sofismi, legittimati dal suo coraggio, dalla sua forza, dalla sua intelligenza del mondo di allora.

Ma Eymerich, ai nostri occhi, è un amorale. O meglio, è del tutto privo di pietas. Non conosce emozioni, passioni, sentimenti, se non quelli connessi al successo della sua missione. È spietato.

Ogni tanto, molto raramente, qualche moto dell’animo si agita dentro di lui, per essere subito ricacciato indietro. I sentimenti lo spaventano e lo preoccupano: alla loro fonte, e poi a valle, possono esserci il Maligno, e la debolezza della carne. È evidente in Il castello di Eymerich, dove, di fronte alla totale disponibilità della ebrea Myriam, l’inquisitore si ritrae rabbioso, forse spaventato da una emozione che riconosce come pericolosa – che per noi lettori, potrebbe preludere all’attrazione e, forse, a sentimenti più profondi.

Perché Eymerich non ne può – non ne deve – provare: è un replicante, un terminator.

Eymerich non esita mai: a ordinare la tortura, il rogo, il massacro di silenziosi – e ora lo sappiamo – innocenti agnelli sacrificali. D’altra parte non risparmia né ai suoi eventuali compagni di strada né a se stesso rinunce, sacrifici, disagi per raggiungere i risultati che si propone. A questo punto capiamo anche il perché: è indistruttibile.

E il suo legame con altri tempi e altri luoghi è sistematicamente evocato dal suo biografo attuale, Evangelisti, che intreccia le vicende che lo vedono diretto protagonista con altre, ambientate nel nostro futuro prossimo, nel nostro mondo, apparentemente indipendenti dal periodo storico e dalle vicende in cui è coinvolto, ma in qualche maniera sotterraneamente intrecciate (possiamo immaginare) con le conseguenze del suo “lavoro”: da una futura guerra nei Balcani, alla confusione con le angherie subite in America da Wilhelm Reich, ad altre ancora…

A questo punto sorge per forza di cose una domanda. Se Eymerich è un androide, proviene sicuramente dal futuro, come il Terminator descritto da Cameron, forse è uno dei replicanti sfuggiti alla eliminazione, al “ritiro”, nel gergo pudico dei Blade Runners. E allora, Perché è stato spedito nel passato? Che abbia un compito simile a quello del protagonista dell’Esercito delle 12 scimmie? Cambiare il passato per “salvare” il presente?

In questo caso, per combattere non un virus del corpo, ma un ben più pericoloso virus del pensiero? Il dubbio, la tolleranza, il relativismo?



[6] H. Ch. Lea, Storia dell’Inquisizione Origine e organizzazione, Feltrinelli Bocca, Milano, 1974, cfr., ad es., pagg. 180, 188, 201, 205, 225. Nella trascrizione di Lea è Eymeric, ma si tratta dello stesso personaggio.

 

[7] V. Evangelisti, Nicolas Eymerich, Inquisitore, 1994, Il mistero dell’inquisitore Eymerich, 1996, Il castello di Eymerich, 2001, tutti pubblicati da Mondadori, Milano, giusto per citarne alcuni.


 

 

    [1] (2) [3]