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di Roberto Paura

 

Dall’omicidio di J.F. Kennedy allo sbarco sulla Luna, dagli attentati dell’11 settembre 2001 all’Aids, la società di massa dell’ultimo secolo o giù di lì è percorsa dalla grande paura del complotto mondiale, di poteri forti e occulti che tramano dietro le quinte per il controllo del mondo. Niente di ciò che ci dicono risponde al vero. La realtà che conosciamo è, come nella caverna di Platone, solo un gioco di ombre che riproduce in modo distorto la vera dimensione del reale, a noi preclusa. Un’ossessione contemporanea a cui la fantascienza ha saputo dar voce prima di ogni altro genere letterario, portando alle estreme conseguenze le paure senza nome della sindrome del complotto mondiale. Quasi sessant’anni fa, nel 1955, Frederik Pohl scrisse un racconto che in breve sarebbe divenuto il pilastro fondante di un filone della science-fiction – o, in questo caso più appropriatamente, della speculative fiction – destinato a un grande successo e a un’enorme influenza nell’immaginario di massa. 
Per chi lo legge oggi, Il tunnel sotto il mondo è un racconto ancora capace di provocare angoscia e claustrofobia più di tante storie dell’orrore. Ci provoca orrore tutto ciò che è capace di annientare la nostra umanità – fisicamente o psicologicamente – senza mostrare la minima pietà, come una macchina cieca e indifferente alle sofferenze della sua vittima. È la mancanza di empatia, la brutalità animale a terrorizzarci: per questo i film horror di maggior successo sono quelli in cui il violento carnefice si nasconde dietro una maschera che non lascia trapelare sentimenti di alcun tipo. Il “potere forte” è quindi necessariamente occulto, nascosto anche metaforicamente da una maschera che lo rende invisibile: è quello contro cui Guy Burckhardt, protagonista del racconto, inutilmente lotta. Chi controlla la quieta cittadina in cui vive Burckhardt non è un potere interessato al controllo politico, ma al controllo economico: negli anni in cui la massima ossessione dell’americano medio era la quinta colonna sovietica infiltrata negli States, Pohl immagina invece che il nemico sia una “banale” agenzia pubblicitaria, che usa i cittadini di Tylerton come cavie per sperimentare le più tremende armi della persuasione commerciale. Furgoncini che dai loro megafoni urlano di acquistare frigoriferi Frickle di prima mattina, sentenziando che gli altri frigoriferi li acquistano solo omosessuali e comunisti; tabaccai che regalano marche di sigarette sconosciute per lanciare una nuova linea di prodotti; ossessionanti slogan pubblicitari all’interno degli ascensori. Finito il giorno, Burckhardt va a dormire e la città di Tylerton viene resettata: il giorno dopo, è sempre il 15 giugno, per sempre. Durante la notte, gli analisti di marketing studiano l’effetto delle loro campagne pubblicitarie e aggiustano il tiro per il giorno dopo.
Da questo “mercato prigioniero” – come il titolo di un racconto dello stesso anno scritto da un autore che avrebbe raggiunto il successo proprio cavalcando quelle ossessioni, Philip K. Dick (1955) – non c’è modo di fuggire. Le orribili verità che Burckhardt scopre man mano, come in un gioco di scatole cinesi, lasciano il lettore con un senso sempre più soffocante di impotenza: prima la scoperta che ogni giorno è sempre lo stesso, sempre uguale rispetto agli altri; poi la rivelazione che ciascun essere umano, a Tylerton, non è altro che un robot, i cui circuiti riproducono fedelmente il cervello delle loro copie biologiche; poi lo shock di scoprire che la vera Tylerton in realtà è stata spazzata via da un’immane esplosione che ha ucciso tutti i suoi abitanti, e che le agenzie pubblicitarie l’hanno ricostruita alla bell’e meglio per poterla usare come coltura di laboratorio, dove sperimentare i loro nuovi ritrovati. E, infine, la più terribile delle rivelazioni: Tylerton in realtà è solo un plastico in miniatura costruito sul ripiano di un tavolo e non c’è modo di fuggire, perché il mondo reale enorme e indifferente, lì fuori, è definitivamente irraggiungibile.

 

libro09_pohlScomponendo Il tunnel sotto il mondo nei suoi diversi elementi costituitivi, scopriamo diversi dei topoi impiegati con successo da molta fantascienza successiva. Per esempio, l’idea del loop temporale, che imprigiona il protagonista in un presente ricorsivo, e che Pohl usa come espediente per enfatizzare l’idea di una prigionia non solo spaziale ma, einsteinianamente, anche temporale. Un’idea ripresa da Richard Lupoff (1973) in un racconto molto famoso in America, 12:01 PM, mai pubblicato in Italia, ma che funse da ispirazione a un celebre film entrato nell’immaginario collettivo, Groundhog Day, in Italia Ricomincio da capo, del 1993, in cui il protagonista, interpretato da Bill Murray, scopre di rivivere sempre lo stesso giorno, il tradizionale “giorno della marmotta”. Groundhog Day ebbe il pregio di sdoganare un classico archetipo della fantascienza grazie alla formula ben riconoscibile della commedia americana, ma non mancano anche in quel film momenti di forte tensione, soprattutto quando il protagonista ormai sull’orlo della depressione tenta il suicidio per “rompere” l’incantesimo. Anche in uno dei primissimi racconti di James G. Ballard, Girotondo (2005), pubblicato nel 1956, il loop temporale è declinato in una versione più ironica che drammatica, ma il lettore non può fare a meno di provare lo stesso senso di urgenza del protagonista che, come vuole la tradizione di questo genere di storie, non riesce a trovare nessuno che creda al suo racconto, e cerca disperatamente di trovare un sistema per dimostrare agli altri di star dicendo la verità. Nel caso di Ballard, per esempio, il protagonista telefona a uno studio televisivo e rivela in anteprima la domanda finale del quiz in prima serata che, gli assicurano, è coperta da segreto assoluto; analogamente, Bill Murray in Groundhog Day convince la donna a cui fa la corte di non essere pazzo riuscendo a prevedere tutto quello che avverrà nei successivi istanti.
Ciò che c’è di inquietante in queste storie è l’idea che il tempo – un concetto che nella vita quotidiana diamo per scontato – sia in qualche modo “fuor di sesto”. E Tempo fuor di sesto (2006) è appunto il titolo di un romanzo-cult di Philip K. Dick, del 1959, che riprende il tema-chiave di Il tunnel sotto il mondo immaginando che la vicenda si svolga in una tipica cittadina americana degli anni Cinquanta, ricostruita ad hoc in un mondo in piena guerra atomica alla fine del XX secolo, per garantire all’unico uomo in grado di prevedere la caduta delle bombe dal cielo un locus amoenus dove concentrarsi nel terribile compito che può salvare l’America dalla catastrofe. Ragle Gumm, il protagonista del romanzo di Dick, non è una vittima come il Bruckhardt di Pohl, perché – come scopriremo verso il finale della storia – egli stesso ha chiesto di essere “imprigionato” in questo mondo ovattato della sua infanzia, per poi vedersi azzerata la memoria del vero presente in cui vive. E tuttavia a un certo punto Ragle comincia a intuire la verità: man mano si rende conto che il mondo ruota letteralmente tutto intorno a lui, e che tutti gli abitanti della città sono solo “comparse”, il cui ruolo è quello di dare verosimiglianza alla simulazione e, allo stesso tempo, di controllarlo. 
Non c’è dubbio che la prima ispirazione di Dick sia stata proprio Il tunnel sotto il mondo. Ricostruendo la genesi di questo ossessivo filone della fantascienza, il racconto di Pohl si pone dunque come capostipite. Alla base c’è innanzitutto il solipsismo, l’atavica e assurda domanda che tutti ci poniamo a un certo punto della nostra vita, e cioè se il mondo esterno non sia altro che un’illusione. Del resto, solo la nostra esperienza conta. Ciò che possiamo sperimentare direttamente attraverso i nostri sensi è reale, tutto il resto no: chi ci dice che esista davvero l’Australia o che a Parigi svetti la Torre Eiffel? Finché non ci andiamo, e non vediamo tutto con i nostri occhi, non dovremmo esserne certi. L’estrema conseguenza è allora la convinzione che nulla è reale, che ciò che percepiamo al di fuori di noi è solo il prodotto della nostra mente. Un simile allucinante concetto si ritrova anche nel film The Truman Show, dove in questo caso la cittadina americana appositamente costruita è un set cinematografico, e Truman è il protagonista inconsapevole del più incredibile dei reality show. Il filo conduttore delle tre storie – Il tunnel sotto il mondo, Tempo fuor di sesto e The Truman Show – è la realtà simulata che i protagonisti sperimentano, e che non a caso assume i contorni stereotipati della vita della middle class americana negli anni Cinquanta. Anche se le prime due storie sono effettivamente scritte in quel decennio, mettono in scena sketch preconfezionati sia negli scambi di battute (“Cielo, caro, non vorrai far tardi al lavoro!”, esclama chioccia la moglie di Burckhardt) che nelle ambientazioni: non la grande metropoli, ma la middletown. Sia Pohl che Dick mettono in stato d’accusa le artificiose convenzioni borghesi della loro epoca. Sì, il mondo che raccontano nelle loro storie è finto, ma non lo è forse anche il mondo reale?, sembrano chiedere retoricamente al lettore. The Truman Show porta alle estreme conseguenze questo ragionamento: nonostante il fatto che il film sia degli anni Novanta e si ambienti in un mondo reale anche più avanzato – perlomeno di un decennio – il set in cui Truman si muove è lo stesso di quello de Il tunnel sotto il mondo. Un elemento in comune tra le due storie è proprio la sensazione dei due protagonisti di trovarsi su un set cinematografico. Difatti, Burckhardt scopre nella cantina di casa che la barca che aveva costruito è in realtà appena abbozzata, come se fosse rimasta al grezzo e lui non ci avesse mai messo mano. E questo perché chi ha ricostruito Tylerton non si è occupato dei particolari, che ha lasciato incompiuti. Dietro tante case che si affacciano sulle strade della città non c’è nulla: sono solo quattro pareti di legno messe su in tutta fretta. Così in The Truman Show, dietro gli ascensori di un grosso palazzo in centro non c’è nulla, perché in realtà la gran parte degli edifici che Truman vede ma in cui non entra mai sono solo delle facciate.

 

Di qui a immaginare che non la città, ma il mondo intero sia un’illusione, il passo è breve. E difatti nel 1999 Matrix consegna all’immaginario collettivo la più spaventosa estremizzazione del racconto di Pohl, in cui l’umanità del lontano futuro è stata resa schiava dalle macchine, che hanno fatto degli esseri umani delle semplici “batterie” per tenere attivi i propri circuiti. Il mondo illusorio in cui Thomas Anderson si trova a vivere è una simulazione, e non è un caso se anche qui la simulazione si ambienta nel passato rispetto al piano reale dell’esistenza. In questo caso le macchine hanno pensato di riprodurre il mondo com’era negli anni Novanta del XX secolo, appunto, in una versione anch’essa stereotipata ed essenzialmente “falsa”. Matrix dà voce alle più inquietanti paure dell’uomo contemporaneo: chi ci assicura che il mondo in cui viviamo sia reale e non piuttosto una gigantesca simulazione creata per qualche fine occulto? E se l’intero universo non fosse altro che un programma di un supercomputer? L’idea risale perlomeno a Cartesio, che immaginava un genio maligno che avrebbe dato vita a un universo “falso”, al solo scopo di beffarci e farci credere erroneamente che 2+2 faccia 4. L’avvento dell’informatica ha reso quest’ipotesi non più tanto fantascientifica: se è vero che gli scienziati si avvalgono di sofisticate simulazioni per riprodurre, per esempio, i primi istanti di vita dell’universo, chi ci dice che una civiltà altamente evoluta non sia stata capace di creare un universo con una specie vivente intelligente, l’uomo?
Nick Bostrom (2003), un filosofo di Oxford, tra i principali studiosi della teoria della simulazione, ha dimostrato che universi fittizi sono dopotutto più “a buon mercato” di universi reali, perché è molto più facile riprodurre un universo attraverso i bit che tramite atomi e molecole; di qui, giunge alla conclusione che esistono alte probabilità che il nostro sia uno dei tanti falsi universi creati da computer di civiltà superiori. Fisici eminenti come Sir Martin Rees, John Barrow e Paul Davies hanno dedicato a quest’ipotesi studi approfonditi. Nel suo volume Una fortuna cosmica (2007), Davies affronta anche questo problema, di fatto accettando la probabilità che il nostro sia un universo simulato, ma sostenendo che questa tesi non debba essere accolta dagli scienziati, perché starebbe a significare la fine dell’indagine scientifica. La scienza non può dimostrare che l’universo non sia nato cinque minuti fa e che tutte le prove di un passato lungo 13 miliardi di anni siano state immesse apposta dai suoi programmatori, scrive Davies. Ma noi non possiamo semplicemente farci niente: tanto vale metterci la coscienza in pace e vivere senza porci questo problema.
All’epoca de Il tunnel sotto il mondo l’informatica muoveva i suoi primi, incerti passi, per cui sembrava più verosimile ricostruire una cittadina sul ripiano di un tavolo piuttosto che simularla al computer. All’epoca di Second Life, quest’ultima opzione è di gran lunga più realistica. Ma Pohl aggiunge al suo racconto un altro elemento tratto dall’ossessione della simulazione: l’idea cioè che tutti gli esseri umani e noi stessi altri non saremmo che robot, androidi, replicanti. Un tema ancora una volta ripreso da un cantore delle ossessioni americane, Dick, in tanti racconti e romanzi, e diventato parte del bagaglio comune della nostra cultura con Blade Runner, che nella sua ambigua scena finale getta nello spettatore il dubbio che anche il protagonista Deckard sia in realtà un androide a sua insaputa. Non a caso Dick ricorre spesso a un altro termine per designare gli androidi: simulacri.
Il mondo, l’universo, la realtà come simulacro: Il tunnel sotto il mondo è anticipatore di tutti questi temi e li innesta all’interno dell’ampia cornice della paranoia tutta americana del grande complotto. Complotto sovietico, complotto nazista, complotto della Cia, complotto del Nuovo Ordine Mondiale: Pohl è il primo a immaginare, anticipando tutti, un tipo di complotto diverso. A manovrare il mondo come sinistri burattinai sono in realtà le corporation, che dominano il mercato come feroci dittatori. L’autore aveva trattato già quel tema nel suo romanzo più famoso, I mercanti dello spazio (1981), scritto a quattro mani nel 1953 con Cyril Kornbluth. Mentre l’America dei primi anni Cinquanta era tutta ossessionata dal pericolo rosso e dalla paura dei comunisti, Pohl riuscì a vedere più avanti di tutti e a puntare il dito su una minaccia molto più concreta e vicina di quanto fossero Mosca e il blocco sovietico. La sua critica del capitalismo sembrava eretica in tempi in cui il consumismo era una filosofia di vita, da opporre diametralmente all’economica collettivizzata. Poi, quando il muro di Berlino è caduto, gli americani si sono risvegliati in un mondo che non riconoscevano più, dove d’un tratto non si poteva più credere ai propri governi. Nella nuova America degli X-Files, fatta di uomini in nero e grandi multinazionali potenti quanto i governi di grandi nazioni, Il tunnel sotto il mondo è tornato improvvisamente d’attualità. Oggi le grandi teorie del complotto coinvolgono aziende considerate capaci di diffondere virus per vendere prodotti farmaceutici e gruppi di pressione che uniscono i grandi poteri mondiali – come il gruppo Bilderberg – e che manovrano dietro le quinte. In questo contesto, Il tunnel sotto il mondo è un racconto che, oggi come allora, mette in luce le più oscure e ataviche paure della società di massa contemporanea.

 


 

LETTURE

Ballard James G., Girotondo, in Tutti i racconti 1956-1962, Fanucci, Roma, 2005.

Bostrom Nick, Are You Living in a Computer Simulation?, in Philosophical Quarterly, vol. 53, n. 211, 2003.

Davies Paul, Una fortuna cosmica, Mondadori, Milano, 2007.

Dick Philip K., Mercato prigioniero, 1955, in Asimov Isaac e Greenberg Martin H. (a cura di),
Le grandi storie della fantascienza 1955, Bompiani, Milano, 1999.

Dick Philip K., Tempo fuor di sesto, Fanucci, Roma, 2006.

Lupoff Richard, 12:01 PM, in The Magazine of Fantasy and Science Fiction, dicembre 1973.

Pohl Frederik e Kornbluth Cyril, I mercanti dello spazio, Milano, Mondadori, 1981.

 

VISIONI

Ramis Harold, Ricomincio da capo, Sony Pictures Home Entertainment, 2008.

Scott Ridley, Blade Runner, Warner Home Video, 2007.

Wachowski Andy e Larry, Matrix, Warner Home Video, 2012.

Weir Peter, The Truman Show, Universal Pictures, 2012.

 

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