Dall’omicidio di J.F. Kennedy allo sbarco sulla
Luna, dagli attentati dell’11 settembre 2001
all’Aids, la società di massa
dell’ultimo secolo o giù di lì
è percorsa dalla grande paura del complotto mondiale, di
poteri forti e occulti che tramano dietro le quinte per il controllo
del mondo. Niente di ciò che ci dicono risponde al vero. La
realtà che conosciamo è, come nella caverna di
Platone, solo un gioco di ombre che riproduce in modo distorto la vera
dimensione del reale, a noi preclusa. Un’ossessione
contemporanea a cui la fantascienza ha saputo dar voce prima di ogni
altro genere letterario, portando alle estreme conseguenze le paure
senza nome della sindrome del complotto mondiale. Quasi
sessant’anni fa, nel 1955, Frederik Pohl scrisse un racconto
che in breve sarebbe divenuto il pilastro fondante di un filone della
science-fiction – o, in questo caso più
appropriatamente, della speculative fiction
– destinato a un grande successo e a un’enorme
influenza nell’immaginario di massa.
Per
chi lo legge oggi, Il tunnel sotto il mondo
è un racconto ancora capace di provocare angoscia e
claustrofobia più di tante storie dell’orrore. Ci
provoca orrore tutto ciò che è capace di
annientare la nostra umanità – fisicamente o
psicologicamente – senza mostrare la minima pietà,
come una macchina cieca e indifferente alle sofferenze della sua
vittima. È la mancanza di empatia, la brutalità
animale a terrorizzarci: per questo i film horror di maggior successo
sono quelli in cui il violento carnefice si nasconde dietro una
maschera che non lascia trapelare sentimenti di alcun tipo. Il
“potere forte” è quindi necessariamente
occulto, nascosto anche metaforicamente da una maschera che lo rende
invisibile: è quello contro cui Guy Burckhardt, protagonista
del racconto, inutilmente lotta. Chi controlla la quieta cittadina in
cui vive Burckhardt non è un potere interessato al controllo
politico, ma al controllo economico: negli anni in cui la massima
ossessione dell’americano medio era la quinta colonna
sovietica infiltrata negli States, Pohl immagina invece che il nemico
sia una “banale” agenzia pubblicitaria, che usa i
cittadini di Tylerton come cavie per sperimentare le più
tremende armi della persuasione commerciale. Furgoncini che dai loro
megafoni urlano di acquistare frigoriferi Frickle di prima mattina,
sentenziando che gli altri frigoriferi li acquistano solo omosessuali e
comunisti; tabaccai che regalano marche di sigarette sconosciute per
lanciare una nuova linea di prodotti; ossessionanti slogan pubblicitari
all’interno degli ascensori. Finito il giorno, Burckhardt va
a dormire e la città di Tylerton viene resettata: il giorno
dopo, è sempre il 15 giugno, per sempre. Durante la notte,
gli analisti di marketing studiano l’effetto delle loro
campagne pubblicitarie e aggiustano il tiro per il giorno dopo.
Da
questo “mercato prigioniero” – come il
titolo di un racconto dello stesso anno scritto da un autore che
avrebbe raggiunto il successo proprio cavalcando quelle ossessioni,
Philip K. Dick (1955) – non c’è modo di
fuggire. Le orribili verità che Burckhardt scopre man mano,
come in un gioco di scatole cinesi, lasciano il lettore con un senso
sempre più soffocante di impotenza: prima la scoperta che
ogni giorno è sempre lo stesso, sempre uguale rispetto agli
altri; poi la rivelazione che ciascun essere umano, a Tylerton, non
è altro che un robot, i cui circuiti riproducono fedelmente
il cervello delle loro copie biologiche; poi lo shock di scoprire che
la vera Tylerton in realtà è stata spazzata via
da un’immane esplosione che ha ucciso tutti i suoi abitanti,
e che le agenzie pubblicitarie l’hanno ricostruita alla
bell’e meglio per poterla usare come coltura di laboratorio,
dove sperimentare i loro nuovi ritrovati. E, infine, la più
terribile delle rivelazioni: Tylerton in realtà è
solo un plastico in miniatura costruito sul ripiano di un tavolo e non
c’è modo di fuggire, perché il mondo
reale enorme e indifferente, lì fuori, è
definitivamente irraggiungibile.
Scomponendo Il tunnel sotto il mondo nei
suoi diversi elementi costituitivi, scopriamo diversi dei topoi
impiegati con successo da molta fantascienza successiva. Per esempio,
l’idea del loop temporale, che imprigiona
il protagonista in un presente ricorsivo, e che Pohl usa come
espediente per enfatizzare l’idea di una prigionia non solo
spaziale ma, einsteinianamente, anche temporale. Un’idea
ripresa da Richard Lupoff (1973) in un racconto molto famoso in
America, 12:01 PM, mai pubblicato in Italia, ma che
funse da ispirazione a un celebre film entrato
nell’immaginario collettivo, Groundhog Day,
in Italia Ricomincio da capo, del 1993, in cui il
protagonista, interpretato da Bill Murray, scopre di rivivere sempre lo
stesso giorno, il tradizionale “giorno della
marmotta”. Groundhog Day ebbe il pregio
di sdoganare un classico archetipo della fantascienza grazie alla
formula ben riconoscibile della commedia americana, ma non mancano
anche in quel film momenti di forte tensione, soprattutto quando il
protagonista ormai sull’orlo della depressione tenta il
suicidio per “rompere” l’incantesimo.
Anche in uno dei primissimi racconti di James G. Ballard, Girotondo
(2005), pubblicato nel 1956, il loop temporale è
declinato in una versione più ironica che drammatica, ma il
lettore non può fare a meno di provare lo stesso senso di
urgenza del protagonista che, come vuole la tradizione di questo genere
di storie, non riesce a trovare nessuno che creda al suo racconto, e
cerca disperatamente di trovare un sistema per dimostrare agli altri di
star dicendo la verità. Nel caso di Ballard, per esempio, il
protagonista telefona a uno studio televisivo e rivela in anteprima la
domanda finale del quiz in prima serata che, gli assicurano,
è coperta da segreto assoluto; analogamente, Bill Murray in Groundhog
Day convince la donna a cui fa la corte di non essere pazzo
riuscendo a prevedere tutto quello che avverrà nei
successivi istanti.
Ciò che
c’è di inquietante in queste storie è
l’idea che il tempo – un concetto che nella vita
quotidiana diamo per scontato – sia in qualche modo
“fuor di sesto”. E Tempo fuor di sesto
(2006) è appunto il titolo di un romanzo-cult di Philip K.
Dick, del 1959, che riprende il tema-chiave di Il tunnel
sotto il mondo immaginando che la vicenda si svolga in una
tipica cittadina americana degli anni Cinquanta, ricostruita ad hoc in
un mondo in piena guerra atomica alla fine del XX secolo, per garantire
all’unico uomo in grado di prevedere la caduta delle bombe
dal cielo un locus amoenus dove concentrarsi nel
terribile compito che può salvare l’America dalla
catastrofe. Ragle Gumm, il protagonista del romanzo di Dick, non
è una vittima come il Bruckhardt di Pohl, perché
– come scopriremo verso il finale della storia –
egli stesso ha chiesto di essere “imprigionato” in
questo mondo ovattato della sua infanzia, per poi vedersi azzerata la
memoria del vero presente in cui vive. E tuttavia a un certo punto
Ragle comincia a intuire la verità: man mano si rende conto
che il mondo ruota letteralmente tutto intorno a lui, e che tutti gli
abitanti della città sono solo
“comparse”, il cui ruolo è quello di
dare verosimiglianza alla simulazione e, allo stesso tempo, di
controllarlo.
Non c’è dubbio
che la prima ispirazione di Dick sia stata proprio Il tunnel
sotto il mondo. Ricostruendo la genesi di questo ossessivo
filone della fantascienza, il racconto di Pohl si pone dunque come
capostipite. Alla base c’è innanzitutto il
solipsismo, l’atavica e assurda domanda che tutti ci poniamo
a un certo punto della nostra vita, e cioè se il mondo
esterno non sia altro che un’illusione. Del resto, solo la
nostra esperienza conta. Ciò che possiamo sperimentare
direttamente attraverso i nostri sensi è reale, tutto il
resto no: chi ci dice che esista davvero l’Australia o che a
Parigi svetti la Torre Eiffel? Finché non ci andiamo, e non
vediamo tutto con i nostri occhi, non dovremmo esserne certi.
L’estrema conseguenza è allora la convinzione che
nulla è reale, che ciò che percepiamo al di fuori
di noi è solo il prodotto della nostra mente. Un simile
allucinante concetto si ritrova anche nel film The Truman Show,
dove in questo caso la cittadina americana appositamente costruita
è un set cinematografico, e Truman è il
protagonista inconsapevole del più incredibile dei reality
show. Il filo conduttore delle tre storie – Il
tunnel sotto il mondo, Tempo fuor di sesto
e The Truman Show – è la
realtà simulata che i protagonisti sperimentano, e che non a
caso assume i contorni stereotipati della vita della middle
class americana negli anni Cinquanta. Anche se le prime due
storie sono effettivamente scritte in quel decennio, mettono in scena
sketch preconfezionati sia negli scambi di battute (“Cielo,
caro, non vorrai far tardi al lavoro!”, esclama chioccia la
moglie di Burckhardt) che nelle ambientazioni: non la grande metropoli,
ma la middletown. Sia Pohl che Dick mettono in
stato d’accusa le artificiose convenzioni borghesi della loro
epoca. Sì, il mondo che raccontano nelle loro storie
è finto, ma non lo è forse anche il mondo reale?,
sembrano chiedere retoricamente al lettore. The Truman Show
porta alle estreme conseguenze questo ragionamento: nonostante il fatto
che il film sia degli anni Novanta e si ambienti in un mondo reale
anche più avanzato – perlomeno di un decennio
– il set in cui Truman si muove è lo stesso di
quello de Il tunnel sotto il mondo. Un elemento in
comune tra le due storie è proprio la sensazione dei due
protagonisti di trovarsi su un set cinematografico. Difatti, Burckhardt
scopre nella cantina di casa che la barca che aveva costruito
è in realtà appena abbozzata, come se fosse
rimasta al grezzo e lui non ci avesse mai messo mano. E questo
perché chi ha ricostruito Tylerton non si è
occupato dei particolari, che ha lasciato incompiuti. Dietro tante case
che si affacciano sulle strade della città non
c’è nulla: sono solo quattro pareti di legno messe
su in tutta fretta. Così in The Truman Show,
dietro gli ascensori di un grosso palazzo in centro non
c’è nulla, perché in realtà
la gran parte degli edifici che Truman vede ma in cui non entra mai
sono solo delle facciate.
Di qui a immaginare che non la città, ma il mondo
intero sia un’illusione, il passo è breve. E
difatti nel 1999 Matrix consegna
all’immaginario collettivo la più spaventosa
estremizzazione del racconto di Pohl, in cui
l’umanità del lontano futuro è stata
resa schiava dalle macchine, che hanno fatto degli esseri umani delle
semplici “batterie” per tenere attivi i propri
circuiti. Il mondo illusorio in cui Thomas Anderson si trova a vivere
è una simulazione, e non è un caso se anche qui
la simulazione si ambienta nel passato rispetto al piano reale
dell’esistenza. In questo caso le macchine hanno pensato di
riprodurre il mondo com’era negli anni Novanta del XX secolo,
appunto, in una versione anch’essa stereotipata ed
essenzialmente “falsa”. Matrix
dà voce alle più inquietanti paure
dell’uomo contemporaneo: chi ci assicura che il mondo in cui
viviamo sia reale e non piuttosto una gigantesca simulazione creata per
qualche fine occulto? E se l’intero universo non fosse altro
che un programma di un supercomputer? L’idea risale perlomeno
a Cartesio, che immaginava un genio maligno che avrebbe dato vita a un
universo “falso”, al solo scopo di beffarci e farci
credere erroneamente che 2+2 faccia 4. L’avvento
dell’informatica ha reso quest’ipotesi non
più tanto fantascientifica: se è vero che gli
scienziati si avvalgono di sofisticate simulazioni per riprodurre, per
esempio, i primi istanti di vita dell’universo, chi ci dice
che una civiltà altamente evoluta non sia stata capace di
creare un universo con una specie vivente intelligente, l’uomo?
Nick Bostrom (2003), un filosofo di Oxford, tra i principali
studiosi della teoria della simulazione, ha dimostrato che universi
fittizi sono dopotutto più “a buon
mercato” di universi reali, perché è
molto più facile riprodurre un universo attraverso i bit che
tramite atomi e molecole; di qui, giunge alla conclusione che esistono
alte probabilità che il nostro sia uno dei tanti falsi
universi creati da computer di civiltà superiori. Fisici
eminenti come Sir Martin Rees, John Barrow e Paul Davies hanno dedicato
a quest’ipotesi studi approfonditi. Nel suo volume Una
fortuna cosmica (2007), Davies affronta anche questo
problema, di fatto accettando la probabilità che il nostro
sia un universo simulato, ma sostenendo che questa tesi non debba
essere accolta dagli scienziati, perché starebbe a
significare la fine dell’indagine scientifica. La scienza non
può dimostrare che l’universo non sia nato cinque
minuti fa e che tutte le prove di un passato lungo 13 miliardi di anni
siano state immesse apposta dai suoi programmatori, scrive Davies. Ma
noi non possiamo semplicemente farci niente: tanto vale metterci la
coscienza in pace e vivere senza porci questo problema.
All’epoca
de Il tunnel sotto il mondo l’informatica
muoveva i suoi primi, incerti passi, per cui sembrava più
verosimile ricostruire una cittadina sul ripiano di un tavolo piuttosto
che simularla al computer. All’epoca di Second Life,
quest’ultima opzione è di gran lunga
più realistica. Ma Pohl aggiunge al suo racconto un altro
elemento tratto dall’ossessione della simulazione:
l’idea cioè che tutti gli esseri umani e noi
stessi altri non saremmo che robot, androidi, replicanti. Un tema
ancora una volta ripreso da un cantore delle ossessioni americane,
Dick, in tanti racconti e romanzi, e diventato parte del bagaglio
comune della nostra cultura con Blade Runner, che
nella sua ambigua scena finale getta nello spettatore il dubbio che
anche il protagonista Deckard sia in realtà un androide a
sua insaputa. Non a caso Dick ricorre spesso a un altro termine per
designare gli androidi: simulacri.
Il mondo,
l’universo, la realtà come simulacro: Il
tunnel sotto il mondo è anticipatore di tutti
questi temi e li innesta all’interno dell’ampia
cornice della paranoia tutta americana del grande complotto. Complotto
sovietico, complotto nazista, complotto della Cia, complotto del Nuovo
Ordine Mondiale: Pohl è il primo a immaginare, anticipando
tutti, un tipo di complotto diverso. A manovrare il mondo come sinistri
burattinai sono in realtà le corporation, che dominano il
mercato come feroci dittatori. L’autore aveva trattato
già quel tema nel suo romanzo più famoso, I
mercanti dello spazio (1981), scritto a quattro mani nel 1953
con Cyril Kornbluth. Mentre l’America dei primi anni
Cinquanta era tutta ossessionata dal pericolo rosso e dalla paura dei
comunisti, Pohl riuscì a vedere più avanti di
tutti e a puntare il dito su una minaccia molto più concreta
e vicina di quanto fossero Mosca e il blocco sovietico. La sua critica
del capitalismo sembrava eretica in tempi in cui il consumismo era una
filosofia di vita, da opporre diametralmente all’economica
collettivizzata. Poi, quando il muro di Berlino è caduto,
gli americani si sono risvegliati in un mondo che non riconoscevano
più, dove d’un tratto non si poteva più
credere ai propri governi. Nella nuova America degli X-Files,
fatta di uomini in nero e grandi multinazionali potenti quanto i
governi di grandi nazioni, Il tunnel sotto il mondo
è tornato improvvisamente d’attualità.
Oggi le grandi teorie del complotto coinvolgono aziende considerate
capaci di diffondere virus per vendere prodotti farmaceutici e gruppi
di pressione che uniscono i grandi poteri mondiali – come il
gruppo Bilderberg – e che manovrano dietro le quinte. In
questo contesto, Il tunnel sotto il mondo
è un racconto che, oggi come allora, mette in luce le
più oscure e ataviche paure della società di
massa contemporanea.
LETTURE
— Ballard James G., Girotondo, in Tutti i racconti 1956-1962, Fanucci, Roma, 2005.
— Bostrom Nick, Are You Living in a Computer Simulation?, in Philosophical Quarterly, vol. 53, n. 211, 2003.
— Davies Paul, Una fortuna cosmica, Mondadori, Milano, 2007.
— Dick Philip K., Mercato prigioniero, 1955,
in Asimov Isaac e Greenberg Martin H. (a cura di),
Le grandi
storie della fantascienza 1955, Bompiani,
Milano, 1999.
— Dick Philip K., Tempo fuor di sesto, Fanucci, Roma, 2006.
— Lupoff Richard, 12:01 PM, in The Magazine of Fantasy and Science Fiction, dicembre 1973.
— Pohl Frederik e Kornbluth Cyril, I mercanti dello spazio, Milano, Mondadori, 1981.
VISIONI
— Ramis Harold, Ricomincio da capo, Sony Pictures Home Entertainment, 2008.
— Scott Ridley, Blade Runner, Warner Home Video, 2007.
— Wachowski Andy e Larry, Matrix, Warner Home Video, 2012.
— Weir Peter, The Truman Show, Universal Pictures, 2012.