titolo_orientamenti02_q37 di Adolfo Fattori

 

In Gran Bretagna è nato un sito web che permette alle coppie che si sono separate senza riuscire a “chiarirsi” (per imbarazzo, paura, caso) di “chiudere i conti”, scrivendosi per via digitale tutti i motivi dei propri rancori. 
L’uso della posta (di carta o virtuale) è antico, ma siamo abituati a associarlo alla situazione opposta, “galeotta”, come in uno dei capolavori della commedia romantica di Hollywood, Scrivimi fermo posta di Ernst Lubitsch (1940), che narra di come Alfred e Klara, commessi di negozio, siano “amici di penna” per lettera, ma ignorino l’uno l’identità dell’altro: vivono una romantica storia d’amore in differita, mentre nella vita reale si detestano. Alla fine del film, quando scopriranno la reciproca identità, l’amore avrà la meglio sull’antipatia che provano l’uno per l’altro. 
Di questo film c’è un decisamente meno memorabile remake del 1998 con l’ormai stantia “fidanzatina d’America” Meg Ryan: C’è post@ per te di Nora Ephron, che aggiorna all’epoca del Web la vicenda, come anticipando la nascita del sito inglese. 
Il cinema romantico di Hollywood – come la sofisticated comedy – sembra voler esorcizzare l’impossibilità dell’amore, quella fissata da uno dei miti fondativi dell’amore in Occidente, Tristano e Isotta, che in varie forme, diventato indipendente dalla sua origine, ha accompagnato l’intera storia della narrazione, dall’Umanesimo ad oggi. E lo fa con il tono leggero della commedia degli equivoci, dei non-detti, delle schermaglie, fino alle rivelazioni e ai riconoscimenti finali, scorrendo in parallelo con il melodramma hollywoodiano di Casablanca di Michael Curtiz (1942) o Gilda di Charles Vidor (1946), che invece ricordavano come le relazioni amorose siano sempre fragili e a rischio.

 

Happy Ending, nella migliore tradizione ottimistica dell’american-way-of-life contro pessimismo e disincanto della tragedia classica condita di eroismi, sacrifici, rancori – ed esotismo.
Sì, perché a guardar bene, se la pellicola di Lubitsch, a New Deal ormai decollato, celebra i valori della famiglia e della coppia, del “dopo” la conquista dell’amore – come nelle favole: “… e vissero felici e contenti” – i drammi di Curtiz e Vidor rimandano ai rischi dell’avventura e della separazione, rielaborando il topos per cui dall’amore impossibile ci si libera fuggendo – o morendo.
Presi nel loro insieme, questi film mostrano la tensione profonda, irrisolvibile, eterna, fra la forza attrattiva del desiderio d’amare e la spinta centrifuga della paura di soffrirne, tema immortale della narrazione. Messo in scena infinite volte, fino ad oggi.
A maggior ragione in tempi come i nostri, esito delle trasformazioni e dei rivolgimenti che hanno impegnato l’intera seconda metà del Novecento, e che hanno stravolto e ristrutturato lo statuto di tutti i rapporti affettivi, sociali, amorosi. Così Pragmatica della comunicazione umana, il libro di Paul Watzlawick sulle dinamiche che reggono le modalità del dire e non-dire, dell’alludere e sottintendere, appare nel 1967 e viene ancora letto e studiato: in tempi di catastrofe e riconfigurazione dei rapporti umani, il come comunichiamo acquista un primato assoluto su tutte le pratiche sociali e affettive.

 

Parimenti, nell’ultimo decennio, dopo la tempesta del (sacrosanto) femminismo “militante”, poi della ricerca di un’intimità più consapevole e solidale, si è sviluppato un genere di commedia cinematografica – che potremmo definire “del primo appuntamento” – in cui vengono messi in scena il litigio, la recriminazione, la rivendicazione a posteriori (tentativi di smentite simulate degli “assiomi” di Watzlawick applicati all’impossibilità di comprendersi?), rispetto ad una vicenda già avvenuta, che sembra essersi esaurita, ma che poi, naturalmente, riprenderà fino all’immancabile lieto fine, come, giusto per esempio, in Ti odio, ti lascio, ti... di Peyton Reed (2006), con i due nuovi totem – nel senso dell’inespressività? – dello Star System Jennifer Aniston e Gary Grobowsky, che parlano invece di fare (come in una barzelletta che viene spiegata), di cui lo sciocco titolo italiano rende molto meglio di quello originale la mediocrità.
Film del ricongiungimento? No, piuttosto dell’esorcismo del rischio che la storia, anche se decollata dopo il primo appuntamento, finisca male, con risentimenti e rancori. Meglio dirsi tutto prima. O meglio, farlo dire agli attori sullo schermo. Perché quando poi la storia finisce – siccome la vita non è come i film – non c’è prova d’appello. E, svanito l’incanto del primo incontro, meglio usare un tramite, come il sito inglese per coppie naufragate, ad esorcizzare la paura dell’amore infelice, uno dei tratti fondativi della fragilità della condizione umana, con cui inevitabilmente facciamo tutti, prima o poi, i conti.