SOLARIS (Soljaris) è un film del 1972
diretto da Andrej Tarkovskij
TRAMA
Lo scienziato Kris Kelvin, inviato a indagare su ciò che sta accadendo sulla base orbitante attorno al magmatico pianeta Solaris, scopre che alcune radiazioni hanno il potere di materializzare ricordi e ossessioni dell’equipaggio. Lui stesso ne è vittima e vede rivivere la sua fidanzata Chari, suicidatasi anni prima. Lanciato all’epoca come “la risposta sovietica a 2001: Odissea nello spazio”, segna una svolta nel percorso di Tarkovskij, che utilizza un romanzo di fantascienza di Stanislaw Lem (sceneggiato con Fridrik Gorenštejn) per uscire dai vincoli del realismo e costruire un mondo fondato su leggi spaziali e temporali particolarissime.
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.
SOLARIS
regia di Andrej Tarkovskij
di Roberto Paura
Esistono delle trasposizioni
cinematografiche che, partendo
dal romanzo che intendono portare sul grande schermo, assumono una
propria identità fino a perdere quasi del tutto il contatto
con l’originale. Eppure, lungi dal commettere un peccato
(come accade il più delle volte con le trasposizioni), i
registi in questione conferiscono una dignità al loro
prodotto, che anche chi ha apprezzato l’originale non
può fare a meno di ammirare. Tra i pochissimi casi
c’è Solaris di Andrej
Tarkovskij. È noto che il criptico regista sovietico non
aveva granché voglia di realizzare un film di fantascienza,
ritenendo anzi che l’ambientazione futuristica fosse una
distrazione rispetto al soggetto di fondo da cui era stato attirato.
Grossolanamente, in Occidente il film venne presentato come la risposta
sovietica a 2001: Odissea nello Spazio. Certo, al
di là dell’operazione di marketing,
l’accostamento non era così sconsiderato da far
gridare allo scandalo. Come Stanley Kubrick, Tarkovskij traeva dal
soggetto fantascientifico – anch’esso tratto dalla
storia di un celebre scrittore, Stanislaw Lem, non noto al pari di
Arthur C. Clarke oltre cortina in quegli anni ma comunque apprezzato
– una sorta di parabola dell’esistenza umana. Aveva
scoperto insomma il vero valore della fantascienza, che se nel nome
poteva ricordare tanta brutta spazzatura prodotta dai pulp
magazine americani fin dagli anni Trenta, in
realtà possedeva e possiede un enorme valore, che Kubrick e
Tarkovskij avevano svelato. Più che science-fiction,
cioè, si poteva parlare di speculative-fiction,
se non addirittura di narrativa filosofica: astraendo dalle miserie
della realtà presente, questo tipo di narrativa offre allo
scrittore la possibilità di trattare dei grandi temi umani,
dei grandi quesiti filosofici e dei misteri dell’esistenza. E
allora, Stanislaw Lem, che aveva scritto il suo Solaris
nel 1961, non avrebbe dovuto certo dirsi insoddisfatto del lavoro del
regista sovietico (benché lo avesse sempre bollato come
“un film orribile”): in fin dei conti non aveva
fatto altro che dire la stessa cosa con altri termini.
Ma cosa
voleva dire Lem e cosa suggeriva Tarkovskij con le sue immagini
ermetiche e abbacinanti? Solaris è
fondamentalmente un monumento
all’incomunicabilità. “Per dirla in breve, si tratta di un dramma gnoseologico, nel cui centro focale sta la tragicità dell’imperfezione dell’apparato umano conoscitivo” (De Turris 2005).
Un tema che Stanislaw Lem aveva particolarmente a cuore:
l’avrebbe approfondito infatti pochi anni dopo in La
voce del padrone, recentemente presentato per la prima volta
in Italia, e sarebbe rimasto il filo conduttore di buona parte della
sua produzione (cfr. https://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero30/bussole/q30_b03.htm). Alla base
c’è il primo contatto con
un’entità aliena, un tema classico della
fantascienza, che Lem affronta tuttavia con una profonda dose di
realistico pessimismo: le categorie interpretative delle due
entità, l’Uomo e il pianeta-coscienza Solaris,
sono irriducibilmente diverse. Nonostante i mille e uno tentativi di
stabilire un contatto intellegibile con l’oceano pensante di
Solaris, gli scienziati terrestri devono arrendersi di fronte
all’evidenza che il contatto potrebbe non avvenire mai, tale
è la distanza tra i modelli comunicativi delle due specie.
Spaventosa beffa, dopo aver cercato in tutto l’universo
un’intelligenza con cui comunicare, per sentirci meno soli in
un infinito ostinatamente indifferente alle nostre tragedie. Poi, ecco
che Solaris tenta finalmente di rispondere alle sollecitazioni degli
scienziati in orbita intorno al pianeta: invia loro dei
“fantasmi”, esseri apparentemente umani ma composti
di neutrini, che costituiscono le realistiche proiezioni delle angosce
nascoste nei recessi del subconscio degli scienziati. Lo psicologo
Kelvin è il più fortunato, se così si
può dire: l’apparizione drammaticamente fisica che
gli presenta dinanzi giunto sulla stazione è Hari, la
fidanzata suicidatasi (apparentemente per colpa sua) anni prima. Un
“miracolo crudele”, come lo definirà
Kelvin nell’ultima bellissima pagina del romanzo.
Ce n’era abbastanza da attirare un regista come
Tarkovskij che nel suo saggio autobiografico Scolpire il tempo
scriveva: “Accadde così che l’uomo,
questo ‘coronamento della natura’ comparve sulla
terra allo scopo di conoscere perché propriamente egli vi
comparisse o vi fosse inviato. E per mezzo dell’uomo il
Creatore conosce se stesso. Questo cammino viene chiamato usualmente
evoluzione; un cammino che viene accompagnato dal tormentoso processo
di autoconoscenza” (Tarkovskij 1988). Il dramma
gnoseologico, uno dei leit-motiv della produzione cinematografica e
della riflessione filosofica di Tarkovskij, trova quindi in Solaris
la possibilità di enuclearsi in tutta la sua
complessità. Lo rivela Kelvin stesso quando,
all’inizio del film (nella lunga parte ambientata sulla Terra
che la folle cesoia di Dacia Maraini tagliò nella versione
presentata in Italia), chiarisce che tutto il problema della
solaristica – la branca della scienza che studia
l’enigma Solaris – gira intorno ai
“limiti della conoscenza umana”. Ma di tutto il
lungometraggio una scena, non a caso la più celebre e
osannata dal pubblico come dalla critica, riassume l’intero
pensiero di Tarkovskij e il senso stesso di Solaris
– del film come del romanzo. Definita “la scena
della levitazione”, sfrutta l’escamotage
fantascientifico di un breve momento di microgravità dovuto
alle manovre automatiche di riassetto della stazione per riassumere in
una scena fatta solo d’immagini e musica tutta la riflessione
di Tarkovskij. Nella biblioteca della stazione, Kelvin e Hari si
abbracciano stancamente levitando in assenza di gravità,
sullo sfondo di alcuni quadri di Pieter Bruegel il Vecchio e della
musica di Johann Sebastian Bach col preludio per organo Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ
(BWV 639). Una scena del miglior cinema ermetico fatta di immagini
potenti, su tutte quella del quadro di Bruegel Cacciatori
nella neve (1565) su cui insiste più volte la
cinepresa, accostandolo allo spezzone di una registrazione video della
famiglia di Kelvin sulla neve. Tantissimi significati di difficile
interpretazione, ma godibili anche solo per il loro impatto estetico,
tale da suggestionare anche lo spettatore meno attratto
dall’ermeneutica tarkovskiana.
Immagini e
musica che però hanno, appunto, un significato, su cui hanno
dibattuto generazioni di critici. Proprio come generazioni di
scienziati, nella fiction di Lem, hanno dibattuto sull’enigma
di Solaris, ciascuno offrendo un valido modello esplicativo, senza mai
riuscire però ad adattarlo alla complessità del
reale. Tra le più complesse interpretazioni
c’è quella di Julia Shpinitskaya, che si concentra
sul doppio refrain del pezzo di Bach e del quadro di Bruegel. Il
preludio per organo ricorre quattro volte nel film: nei titoli di
testa, bianchi su sfondo nero; mentre Kelvin e Hari guardano il vecchio
video di famiglia sulla neve; nella scena della levitazione in
biblioteca, appunto; e nell’ultima sequenza del film, il
ritorno a casa di Kelvin che si rivela essere in realtà una
nuova apparizione fantasmagorica creata da Solaris. Il quadro di
Bruegel appare per la prima volta nella scena della levitazione, dove
viene inquadrato ben tre volte, con voluta insistenza; e
successivamente in una sequenza onirica durante la malattia di Kelvin,
nella quale appare alle spalle della giovane madre sognata dal
protagonista. La Shpinitskaya osserva che nel corso delle funzioni
religiose “… il brano di Bach viene utilizzato
nelle parti della funzione dedicate alla preghiera e alla devozione
alla vita e alle sofferenze di Cristo. Esso rivela i valori
dell’umanità attraverso l’immagine del
Cristo-uomo” (Shpinitskaya 2008). Quindi suggerisce
un’identità tra Dio e Solaris. E prosegue:
“Bach e Bruegel sono la memoria del passato, ma appartengono
anche alla memoria di Kris e corrispondono ai suoi video, una
rappresentazione della sua memoria. Tutti i leit-motiv del film ― i
‘Cacciatori’, Bach, la pioggia e l’acqua
che scorre, la madre, la casa ― sono paradigmi personali della memoria,
i codici per leggere Kris Kelvin, e Solaris li legge di
conseguenza” (Ivi). La studiosa si spinge
oltre proponendo ulteriori accostamenti: l’insistente
immagine della giovane madre di Kelvin impellicciata e con un cane tra
le braccia sarebbe una rivisitazione della Dama con
l’ermellino di Leonardo Da Vinci. Un artista che
Tarkovskij esplorerà più a fondo soprattutto nel
successivo film Lo specchio.
Scrivendo
di Leonardo, Tarkovskij rivela: “Ci sono due aspetti dei
quadri di Leonardo che sono interessanti. Uno è la
straordinaria capacità dell’artista di esaminare
l’oggetto dal di fuori, stando indietro, guadandolo dal di
fuori del mondo – una caratteristica di artisti come Bach e
Tolstoj. L’altro è il fatto che
l’immagine ci colpisce simultaneamente in due modi diversi.
Non è possibile dire in ultima analisi che impressione
faccia il quadro su di noi. Non è ugualmente possibile dire
con certezza se la donna ci piaccia oppure no, se sia affascinante o
sgradevole. È al contempo attraente e repellente.
C’è qualcosa di inesplicabilmente bello in lei e
allo stesso tempo di ripugnante, diabolico. Ma non diabolico nel senso
romantico e seducente della parola; piuttosto, al di là del
bene e del male. Un fascino di segno negativo” (Tarkovskij op.
cit.). In effetti il regista riesce a esprimere efficacemente
questo concetto ritraendo la giovane madre con l’occhio
leonardesco. È una donna bella, a tratti seducente, ma
inquietante: lo sguardo freddo, la pelliccia bianca che la rende
inviolabile, la sigaretta che regge tra le labbra chiuse in un
atteggiamento sprezzante. Nulla da eccepire quando Hari rivela a Kelvin
di temerla.
Infine, la levitazione: dopo Solaris,
Tarkovskij riprende questo tipo di scena anche ne Lo specchio
e in Sacrificio. Anche in questi due film
successivi la levitazione ha come protagonista una donna. Per la
Shpinitskaya, la levitazione sarebbe in Tarkovskij la metafora
dell’amore: un amore che si libra fisicamente
nell’aria, libero dai vincoli terreni, a suggerirne anzi la
componente ultraterrena, dal momento che la possibilità di
volare è quanto di più inumano possa sembrarci.
In Solaris alla levitazione si aggiungono tutti i
leit-motiv del film: la musica di Bach, il quadro di Bruegel,
l’immagine della madre. Un complesso rimescolamento di
simboli e immagini. “Quasi tutte le realtà
musicali del film s’incrociano qui: suoni naturali e cosmici,
e Bach. Nel contesto visivo, Bach si sposa con il significato
connotativo della rappresentazione dell’amore sottinteso nel
significato della levitazione. Il campo semantico delle altre due scene
con Bach [quella del video di famiglia e del ritorno a casa
‘fantastico’] non negano questo significato:
l’amore è rivelato e predicato da Cristo come la
componente fondamentale per il solo mondo degli uomini e come il
principio che tiene il mondo e governa le relazioni umane”
(Shpinitskaya, op. cit.). Il brano di Bach connette
quindi l’amore di Kelvin per Hari, per la madre, e per il
padre, che ritorna nell’ultima scena: quella del ritorno a
casa che riprende il tema dei Cacciatori nella neve,
che ritornano al villaggio dopo una caccia conclusasi felicemente, ma
che ricorda anche – sostiene la studiosa – Il
ritorno del figliol prodigo di Rembrandt (1666), dove il
figlio s’inginocchia abbracciando il padre analogamente a
quanto fa Kelvin nell’ultima sequenza.
Ma
c’è evidentemente qualche connessione in
più tra il quadro di Bruegel e il video di famiglia che
riappare nella scena della levitazione e sembra quasi una riproduzione
moderna del quadro. Qualcosa che lo studioso Daniel Jones
spiega così: “Giusto prima che Kelvin attragga
l’attenzione di Hari, c’è la sequenza
interpolata di un bambino nella neve, un ricordo del video che lei
aveva visto prima. Hari ha fatto un collegamento, un collegamento tra
il mondo naturale che aveva visto nel video e il mondo naturale nel
quadro. La colonna sonora aiuta a fondere le due percezioni con voci
indistinte, cinguettii di uccelli, cani che abbaiano: suoni che
coincidono sia con le immagini di Bruegel sia con le immagini del video
di casa” (Jones 2007). Ecco il collegamento. Ma
c’è ancora di più, in quella scena.
Infatti, anche se i Cacciatori nella neve ritornano
con maggiore insistenza, altri quadri appaiono alle spalle dei due
protagonisti durante la levitazione, anch’essi di Bruegel: La
torre di Babele, Paesaggio con la caduta di Icaro,
Mietitori e Il ritorno della mandria.
Cosa rappresentano? Secondo alcuni critici, disposti
all’interno della biblioteca richiamerebbero le diverse
stagioni della vita. Ma la torre di Babele? È probabile che
stia lì a ricordare quel dramma gnoseologico di cui parlava
Lem, che è fondamentalmente il problema
dell’incomunicabilità degli uomini, simboleggiato
dalla confusione delle lingue imposta da Dio per punire
l’arroganza umana. Secondo il critico cinematografico
Gianfranco Massetti, comunque, Cacciatori nella neve
resta il quadro più significativo e propone
un’ulteriore interpretazione: “Così, per
Tarkovskij, la citazione di Cacciatori nella neve
racchiude una pluralità di significati. In un paesaggio
completamente avvolto dalla neve, dei cacciatori si aggirano in cerca
della preda. Relegata a margine, sulla sinistra del quadro,
è una scena di contadini che attizzano il fuoco,
all’esterno della locanda con l’insegna di
Sant’Eustachio e la scritta ‘Al cervo’.
L’insegna allude alla leggenda della conversione del
protomartire, che sarebbe avvenuta in seguito alla visione di una croce
fiammeggiante tra le corna di questo animale. Per Tarkovskij, Cacciatori
nella neve è anzitutto un simbolo di ricerca
spirituale: la caccia ed il fuoco dei contadini, rispettivamente. Ma
collegato ad esso vi è inoltre il simbolo di rigenerazione
dell’albero della vita: la croce veduta da
Sant’Eustachio e le corna del cervo che alludono, a causa del
loro periodico rinnovarsi, al ciclo delle stagioni ed al ritorno della
vita dopo la desolazione del clima invernale”. È
insomma una metafora del ritorno alla vita di Hari, che da
‘ospite’ fantasmagorica della stazione di Solaris
inizia ad acquistare una propria umanità proprio grazie
all’amore di Kelvin. Assume quindi un senso anche
l’immagine del fuoco acceso da bambino (Kelvin da piccolo)
nella neve: è il calore umano che si fa strada nella natura
inospitale e glaciale simboleggiata, a suo modo, anche dalla figura
della madre che, come abbiamo visto, sembra lontana, distante,
inumana.
Tantissime interpretazioni che si
affastellano su quella scena nella biblioteca dove, nel romanzo di Lem,
il protagonista a sua volta valutava le tantissime interpretazioni
della solaristica. Nella sala della biblioteca c’è
anche una statua. Sembra che i critici non l’abbiano notata,
nonostante riappaia nella camera da letto di Kelvin sulla Terra, nella
casa di famiglia. È il busto di Socrate. Sta lì a
ricordare, con molta semplicità, che l’unica cosa
che sappiamo è di non sapere. Nella sua
immobilità si prende gioco dei discorsi magniloquenti dei
solaristi e ricorda all’Uomo che, per quanto potrà
sforzarsi di cercare un’interpretazione, un senso
all’enigma della vita, finirà sempre per scontarsi
con un altro mistero. E, sembrerebbe aggiungere Tarkovskij in questa
scena, la ragione non serve se non comprendiamo il mondo – e
l’universo – anche col cuore.
LETTURE
× De Turris G., Solaris o “Dell’irrazionale” in Lem S., Solaris, Mondadori, Milano, 2004.
× Jones D. O., The Soul
that Thinks: Essays on Philosophy, Narrative
and Symbol in the Cinema
andThought of Andrei Tarkovsky, 2007.
× Lem S., Solaris, 1961, tr. it. Mondadori, Milano, 2004.
× Massetti G., Andrei Tarkovskij – Solaris, in “ActivCinema”.
× Shpinitskaya J., Solaris
and Beyond through Functional Doubles From Bach to Bruegel,
Rembrandt, Leonardo, and Chagall,
in “Nordisk musikkforskermøte”, agosto
2008.
× Tarkovskij A., Zapečatljonnoe vremya, 1986, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988.