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Un viaggiatore al Collége de France: Claude Lévi-Strauss
di Amato Lamberti 

strauss.jpgClaude Lévi-Strauss fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, in Francia, o, per meglio dire, a Parigi, tra gli intellettuali e gli studenti delle Università parigine era già una specie di mostro sacro, un autore di cui era obbligatorio conoscere la vita, le opere principali e aver letto almeno i libri che lo avevano reso famoso anche presso il grande pubblico, Tristi Tropici e Il pensiero selvaggio: il primo, un racconto di viaggio che si inseriva in una lunga tradizione francese, basti pensare alle Lettere persiane di Charles-Louis de Montesquieu, e che raccontava dei suoi viaggi di etnologo in Brasile, presso comunità, come i Nambikwara; il secondo, uno sguardo eccentrico che dona l'occasione di una visita nel sottosuolo inquietante del pensiero, dove il progetto d'universalità della filosofia occidentale appare come “ideologia”, pratica antropofagica di una coscienza singola o di una certa cultura.  
A seguire le sue lezioni al Collége de France non c'erano le folle di fans che seguivano, attratti magari dall'oscurità del linguaggio, lo “sciamano” Jacques Lacan: potevi però incontrare intellettuali e studiosi come Julia Kristeva, Michel Serres, Jean Marie Benoist, Francoise Hèritier, Paul Henri Stabl, André Green, Jacques Derrida, impegnati a partecipare attivamente ai suoi “seminari” con interventi importanti che sarebbero stati sviluppati in saggi su riviste come Tel Quel o in libri. I suoi seminari erano sostanzialmente dei laboratori dove problemi e questioni di grande rilevanza per numerose discipline, come la filosofia, l'antropologia, la sociologia, la psicologia, la letteratura, venivano affrontati da angolazioni diverse che potevano così confrontarsi e anche scontrarsi vivacemente, perché la convinzione di Lévi-Strauss era che il sapere si costruisce attraverso lo scontro “caldo” delle posizioni, come in un crogiuolo dove metalli diversi si fondono e si amalgamano dando luogo a qualcosa di nuovo e anche di inatteso. 
Come professore non era né accomodante né accogliente: come dicevano i suoi allievi aveva uno sguardo che gelava sulle labbra ogni sorriso. Proprio il modo in cui guardava l'interlocutore colpiva anche al primo incontro: era come se guardasse attraverso l'interlocutore qualcos'altro che non si capiva bene dove fosse, se dentro o oltre. Parlava pesando tutte le parole; nessuna era superflua; ogni frase aveva una compiutezza cristallina, fosse una affermazione o una domanda. La vastità della sua cultura era addirittura sconvolgente: riusciva a tenere insieme le culture di tutto il mondo, da quella occidentale, a quella indiana, cinese, araba, fino alla cultura dei gruppi umani più sperduti dell'Africa, dell'Amazzonia, dell'Indonesia. Ma non si limitava alla fenomenologia: il suo sguardo arrivava direttamente alle strutture elementari, ai concetti universali che si riproponevano identici, anche se diversamente vestiti, al “pensiero” che articolava ogni cultura, anche la più apparentemente strana e diversa, in modo “strutturalmente” costante. Lo schema fondamentale era condensato in una frase che fa da introduzione a Il Pensiero selvaggio: “Se c'è una “capacità di pensiero” da qualche parte, ce ne deve essere dovunque”. L’antropologia, per Lévi-Strauss, era la disciplina fondamentale, nel senso che delimitava lo spazio di azione di tutte le altre discipline, relativamente alle “scienze umane”, anche se, volendo, avrebbe potuto assorbirle tutte, come appare chiaro in Antropologia strutturale, la raccolta dei suoi scritti più teorici. Nel secondo capitolo, “L’analisi strutturale in linguistica e in antropologia”, prendendo come punto di partenza l’organizzazione in sistema dei fatti linguistici, così come è stato stabilito dalla fonologia, scrive: “In un altro ordine di realtà, i fenomeni di parentela sono fenomeni dello stesso tipo dei fenomeni linguistici”. Ma questo non significa, come molti hanno interpretato, che la fonologia sia lo schema di riferimento, in termini strutturali, di tutte le scienze umane, perché questo primato spetta all’antropologia, in quanto studio delle strutture fondamentali che reggono l’interazione, lo scambio, tra soggetti umani/sociali. In qualche modo si riallaccia agli studi di Marcel Mauss che aveva individuato alla base di tutte le possibili forme di scambio il triplice obbligo, radicato anche a livello simbolico nella mente umana, di dare, ricevere, ricambiare, che fondava ogni principio di reciprocità e da cui dipendono le relazioni di solidarietà tra gli uomini. 
L’antropologia, come la geologia e la linguistica, come scienza delle relazioni invarianti, diventa una disciplina capace di cogliere le strutture profonde, universali, a-temporali e necessarie, al di là della superficie degli eventi, sempre ingannevole, e al di là dell’apparente arbitrarietà degli elementi che costituiscono ogni società. A queste strutture non si accede attraverso la fenomenologia, la descrizione empirica, ma attraverso la costruzione di modelli. Qui è evidente il riferimento alla matematica di Evariste Gaulois e alla sua teoria dei gruppi e di campi, come pure alla teoria olistica secondo cui il tutto precede le parti. I modelli sono sistemi di relazioni logiche tra elementi, sulle quali è possibile compiere esperimenti, ossia trasformazioni, in modo da individuare ciò che sfugge all’osservazione immediata. I modelli, in pratica, servono a mettere in luce le strutture che formano l’ossatura logica della realtà. La struttura non è però una semplice forma, ma è il contenuto stesso colto in una organizzazione logica concepita come proprietà del reale
Nello studio dei miti queste posizioni teoriche trovano la loro completa esplicitazione. Perché i miti non sono espressione di sentimenti o spiegazioni pseudo scientifiche di fenomeni naturali o riflessi di istituzioni sociali, né sono privi di regole logiche. Come spiegare che i contenuti dei miti appaiono arbitrari, eppure presentano forti somiglianze nelle più diverse culture del mondo intero? Per Lévi-Strauss la risposta sta nel fatto che il mito è l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio. Come la funzione significativa di una lingua non è direttamente collegata ai suoni, ma al modo in cui i suoni sono combinati tra loro, così anche i miti sono formati di unità costitutive minime, le cui combinazioni avvengono secondo precise regole e danno luogo ad unità significanti. Il compito di uno studio scientifico dei miti consiste nel mostrare non come gli uomini costruiscano dei miti, ma come i miti si pensano negli uomini, e a loro insaputa.
Ma Lévi-Strauss non si ferma all’analisi dei miti. Egli fu tra i primi a porsi il problema dell’efficacia simbolica dei poteri magici e degli incantesimi fuori dalle logiche superficialmente riduzionistiche della psicologia americana degli anni Cinquanta. L’incantesimo dello stregone degli indiani Cuna, che letteralmente nomina il dolore attribuendo nomi ai vari mali, si rivela efficace proprio perché descrivendo e dando nomi dona significato, scioglie l’estraneità del male. Lo stregone è colui che mette in collegamento mondi che stanno su piani diversi. Ma questo accade in ogni cultura, anche nella nostra, perché, in generale una cultura costruisce nella sua storia e per essa una intersezione originale, un nodo di connessioni ben preciso e particolare. Ciò che differenzia le culture è la forma dell'insieme dei collegamenti, il suo andamento, il suo posto e così pure i suoi cambiamenti di stato, le sue fluttuazioni. Ciò che le culture hanno in comune, e che le costituisce come tali, è l'operazione stessa di collegare, di connettere. Ecco come emerge l'immagine del tessitore, fondamentale per Lévi-Strauss, nei miti come nell'etnologia, di colui che lega, annoda, e costruisce ponti tra spazi radicalmente diversi. Di colui che dice cosa accade tra queste cose. Di colui che inter-viene a vietare. Di colui che inter-viene, nelle rotture e nelle crepe, tra le varietà tutte chiuse in se stesse. Anche il pensiero ha come regola fondamentale l'interconnessione, il collegamento, la cucitura, la saldatura, così come, specularmente, la separazione, la divisione, il taglio.
L'etnocentrismo, ad esempio, si basa su una operazione razionale ma scorretta, di separazione tra noi e tutti gli altri. Già Platone, nel Politico, notava: “Abbiamo fatto come se, volendo dividere in due il genere umano, facessimo la divisione alla maniera della maggior parte delle genti di qui, che separano la razza ellenica da tutto il resto in quanto formante una unità distinta e, riunendo tutte le altre razze sotto la denominazione unica di barbari, benché esse siano innumerevoli, non si mescolino le une con le altre e non parlino la stessa lingua, si fondano su questa denominazione unica per guardarle come una sola specie”. 
Molti errori si nascondono nella struttura stessa del pensiero: il problema dell'uomo è prendere coscienza delle arbitrarietà che si celano anche dietro e sotto i discorsi più logicamente splendenti. 

 


 

:: letture ::

Lévi-Strauss C., Tristi tropici, Mondadori, Milano, 1988.

Lévi-Strauss C., Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1964.

Lévi-Strauss C., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1966.

Montesquieu Charles-Louis de, Lettere persiane, Rizzoli, Milano, 1984.

Platone, Il politico, in Tutti gli scritti, Bompiani, Milano, 1997.