Sconfitta
la ex-madrepatria, i giovani americani poterono dedicarsi con
più
serenità ad espandere i loro confini sia con acquisti di
territori, sia
con guerre. Ma perché vi era questa necessità
così fisiologica di
espandersi? Il desiderio di espansione era legato alla vecchia
società
europea, che imprigionava gli uomini e le donne in vincoli di ogni
genere, e li sottoponeva a regole ferree che avevano però
come unica
finalità quella di servire lo Stato assolutista. Quindi
un’impossibilità a sviluppare nuove teorie o nuove
idee senza
l’approvazione della tanto odiata aristocrazia. Insomma i
giovani
americani cercavano un’affermazione dei diritti
dell’uomo e questo si
traduceva sul campo pratico anche in un espansione territoriale che
rendeva l’individuo autore delle proprie conquiste, e
più cosciente di
se stesso. Questo ideale di libertà assoluta e priva di ogni
restrizione si affermò maggiormente
nell’Ottocento, che è il vero
“secolo americano”, a differenza del Novecento per
cui è stata coniata
e si è affermata questa definizione. È
nell’Ottocento che si sviluppa
l’ideale dell’impero americano, così
come lo conosciamo oggi. Ma se
vogliamo descriverlo meglio dobbiamo fare riferimento ai diversi media
che lo hanno reso famoso. Tralasciamo i classici della prima
letteratura americana, come L’ultimo dei Mohicani (Cooper
J. F., 1826), La lettera scarlatta (Hawthorne N.,
1850), Moby Dick
(Melville H., 1851), che raccontano la visione del mondo dei primi
colonizzatori ed esprimono i nuclei tematici fondamentali su cui si
costruiranno gli immaginari successivi, e
cominciamo con i fumetti, in particolare con Zagor
“lo spirito con la scure”. Questo personaggio
è importante ai nostri
fini perché ci permette di comprendere con più
facilità lo spirito del
primo Ottocento. Guido Nolitta (pseudonimo di Sergio Bonelli), autore
del fumetto, con estrema precisione storica ci narra attraverso
suggestive vignette, la società americana di quegli anni,
caratterizzata dalla scoperta di nuove terre all’interno di
quelli che
oggi conosciamo come Stati Uniti. Notiamo quindi una società
alle prese
innanzitutto con il disboscamento di alcune aree, in particolare
settentrionali al confine col Canada, non solo per allargare lo spazio
a propria disposizione e di conseguenza impiantarvi nuovi villaggi, ma
anche per utilizzare il notevole contributo che la natura tramite la
vegetazione forniva. Gli alberi servivano infatti per costruire le case
ma anche, cosa più importante, per costruire i battelli con
i quali i
primi esploratori, gli uomini d’affari, i trappers,
risalivano i fiumi
per fini chiaramente diversi.
È nell’Ottocento
quindi che comincia in
maniera più precisa la mappatura topografica degli
sconosciuti e
meravigliosi territori americani. Tale fu questa necessità
che si
esplicò pure nella pittura. Nolitta ci racconta anche i
primi screzi
con le tribù indiane, Huron e Algonchini ad esempio, ancora
in parte
sconosciute, ma già piuttosto violente, contro le quali
sarebbero
cominciate delle vere e proprie operazioni militari solo dopo la
seconda metà del secolo. Quindi la seconda frontiera
americana fu
rappresentata più che altro dalla conoscenza approfondita
dell’immenso
territorio vergine che Dio, o chi per lui, aveva messo a disposizione.
Lasciamo però Zagor, per rivolgerci a un
altro medium che ci
permette questa volta di parlare della terza frontiera americana,
quella più famosa: il Far West. Lo viviamo tramite il cinema
ovviamente, che più di tutti ha contribuito fin dai primi
del Novecento
a diffondere nel mondo il mito della Frontiera americana. A parere di
chi scrive i film che meglio hanno rappresentato lo stile di vita, ma
anche il territorio di fine Ottocento, sono quelli interpretati, ma
anche diretti, da Clint Eastwood. Senza nulla togliere al grande John
Wayne, o a Sergio Leone, la cinematografia del
“texano dagli
occhi di ghiaccio” ha un sapore di vero, di rude e tragico,
che
rispecchia più onestamente lo spirito del West. Eastwood
infatti nei
suoi film dà molto spazio alla definizione territoriale
delle scene più
che ai contenuti, e ci descrive bene ciò che rende davvero
epica una
banale scena di sfida tra due contendenti: gli sguardi, ma questo ci
interessa meno, e il background, che nei suoi film diventa
protagonista. Citiamo quelli paesaggisticamente più
suggestivi come Impiccalo più in alto
(Post T., 1968), Il texano dagli occhi di
ghiaccio (Eastwood C., 1976) e Il cavaliere pallido
(Eastwood C., 1985).
Cosa si nota nei paesaggi del Far West narrati da Eastwood? Prima di
tutto la vita quotidiana, fatta innanzitutto di fattorie, di bestiame,
di saloon (dove ci scappava quasi sempre il morto), di cercatori
d’oro,
di chiese sperdute nelle praterie, tanto care al generale Custer.
Così
comprendiamo infatti come la semplice vita del West, fosse in
realtà
dura, cruda e crudele. Gli uomini si ammazzavano per un nonnulla,
vigeva la legge del più forte e il più debole
soccombeva.
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