Flammarion
insisteva fortemente sull’aspetto prettamente scientifico del
suo
operato, tenendo a distinguersi dai sognatori o dai romanzieri che nel
corso dei secoli avevano tentato d’immaginare quali forme
potesse avere
la vita sugli altri mondi. Questa ferma volontà di ancorare
il suo
ragionamento esclusivamente nell’ambito di quanto
l’astronomia e le
scienze potessero farci imparare grazie ai progressi della tecnica,
risalta ancor più nel titolo del suo secondo best-seller, Les
mondes imaginaires et les mondes réels,
dove la prima metà è consacrata ad una
descrizione che si vuole
obiettiva dei vari pianeti sulla base delle ultime scoperte
astronomiche, mentre la seguente trasporta il lettore attraverso secoli
di fantasticherie pseudo-scientifiche, da Bernard de Fontenelle a Jean
Baptiste Charles Fourier, passando da Immanuel Kant e John Milton, ma
senza dimenticare Paul de Kock, Jules Verne o Edward Bulwer-Lytton.
L’astronomo-spiritista-poeta era ben cosciente della
posizione delicata
nella quale si situava e dell’ambiguità inerente
al genere dei suoi
scritti. Per questo motivo, si difendeva accanitamente
dall’accusa di
voler imitare Dante, Ernst Kircher oppure Emanuel Swedenborg, e
affermava di voler semplicemente estrapolare sulla base del conosciuto
per indovinare ciò che ancora si cela agli sguardi dei
ricercatori, e
formulare quelle ipotesi che più tardi nuovi sviluppi delle
scienze
avrebbero permesso di confermare. Agli strumenti materiali e ai calcoli
scientifici egli sognava d’aggiungere una terza dimensione
dalle
potenzialità enormi:
Al fianco
dell’astronomia matematica e dell’astronomia
fisica,
che costituiscono i due elementi fondatori della scienza del mondo,
esiste quella che potremmo chiamare l’astronomia speculativa,
che
deriva dalla prime due e s’innalza talvolta al di sopra di
esse con le
sue viste ardite e i suoi concetti giganteschi. [...] Ma conviene
evitare uno scoglio pericoloso [...] quello che consiste ad addentrarsi
troppo nell’arbitrarietà. (Flammarion,
1870, pag. 3)
Paradossalmente è quello scoglio, non sempre evitato, che
dà agli
scritti di Flammarion quel po’ di attualità cui
possono ancora aspirare
ai giorni nostri, dopo che le esplorazioni spaziali hanno dissipato
qualsiasi alone di mistero dalle vicinanze del nostro globo. La Luna,
questa “compagna utilissima della Terra”
(Flammarion, 1868, pag. 84),
ha attirato particolarmente la sua attenzione. Il satellite del nostro
pianeta affascinava l’autore quasi più per la sua
apparente assenza di
caratteri interessanti che per qualsiasi sua eventuale
virtù. Egli vi
vedeva “una delle scene più modeste della
natura” (Flammarion, 1870,
pag. 9), uno spettacolo umile ma pur sempre da non essere disdegnato.
Priva d’atmosfera, sprovvista d’acqua, assente da
essa ogni parvenza di
vita, la Luna poteva sembrare un oggetto quasi interamente trascurabile
agli occhi d’un astronomo dell’Ottocento. Ma la
visione di Flammarion
non si ferma alle immagini fornite dai telescopi. Egli guarda al di
là
delle semplici apparenze e giudica sulla base d’un ideale che
vorrebbe
vedere la vita spargersi e germinare nell’universo intero. La
Luna
attuale, ammasso sterile di pietraglie, scompare per lasciare il posto
alla speranza di un avvenire abitato, oppure al ricordo di un mitico
tempo che fu, quando la “vigile sentinella” (pag.
10) della terra era
anch’essa dimora di esseri viventi: “Ai nostri
occhi, la Luna ha ben
altro destino da realizzare che quello di orbitare solitaria attorno al
nostro globo. O essa è abitata o è stata abitata,
o sarà abitata”
(Flammarion 1868, pag. 83). O per dirla in modo ancora più
dichiaratamente poetico: “Gli astri sono fatti per essere
abitati come
i boccioli di rosa sono fatti per schiudersi”(ibidem,
pag. 12). Di
fronte al bisogno di rappresentare le forme di vita possibili sul
nostro satellite, Flammarion si guarda bene dal mostrarsi troppo
dogmatico e insiste al contrario nel sottolineare come esse possano
assumere forme, e coscienze, così completamente aliene da
essere
irriconoscibili per i terrestri. Rispondendo in anticipo alle critiche
di coloro che potevano chiedere come in un tale luogo potesse esistere
alcunché di vivente, egli prevede sulla Luna una vita del
tutto
differente da quella terrestre. Ad ogni angolo dell’universo
può così
corrispondere un’esistenza che gli è propria,
multipla e varia secondo
l’astro sul quale si è sviluppata e le condizioni
della sua esistenza.
Soprattutto, importa di non far mostra di arroganza e di non
“giudicare
il mondo intiero col metro della nostra debolezza e prendere la vita
terrestre per il tipo assoluto della vita universale” (ibidem,
p.11).
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