Ecco
perché in Dürrenmatt il soggetto sembra smarrirsi,
perché non c’è soltanto il colpevole,
ma c’è la colpa. Sia che le
connessioni tra la colpa e il giudizio esistano chiaramente (Il
sospetto) sia che queste connessioni particolari non esistano
(Il giudice e il suo boia) la colpa si lascia
intravedere dalla realtà delle cose, per quanto parziale e
fasulla essa sia. Dürrenmatt
segue una sottile linea gialla perché non scrive romanzi
canonici,
evade dal genere. La questione fondamentale, in Dürrenmatt,
riguarda la
realtà nel suo complesso. Quella metamorfica impressione che
accompagna
i suoi personaggi, che facilita un caso più che un altro,
che trova
soluzione a delitti mai commessi ma tanto reali, che concretizza cose
esistite ma non più esistenti. Di certo
l’atmosfera post-conflitto è
uno degli scenari su cui i tratti di uno scrittore cadono facilmente;
di certo la devastazione morale e politica di un’epoca che si
guarda
offuscano l’orizzonte delle cose, rendendole impalpabili
elementi di
una trama da ricostruire, da giustificare nella sua disarmante
apparenza di realtà. Alla crudeltà
dell’uomo fa dunque da sfondo una
crudeltà che appartiene alla dimensione famelica di un
realismo satollo
di se stesso. Un realismo che sembra oltrepassarsi nel rimbalzo delle
immagini trasmesse e riportate di un evento scandaloso, di una grande
guerra. La foto del dottor Nehle che opera nello strazio del suo
paziente non ha nulla di orale, nulla di riproducibile se non con
l’immagine tanto terribile quanto reale. Ed è
quest’immagine a dare il la alle indagini
del commissario ne Il sospetto.
Una fotografia. Un elemento riproducibile nella sua evidenza terribile.
Iperrealismo di Dürrenmatt. Iperrealismo che va contro la
realtà
stessa, che la oltrepassa. La stessa guerra della fotografia
si
concretizza nella maniacale perversione del dottor Nehle,
nell’abnegazione della sua amante, una ex dissidente sfuggita
all’olocausto solo per tramite del suo corpo, solo per aver
ceduto alle
insistenze sessuali del carnefice. E nelle
parole della donna
c’è tutto
lo sgomento trasformatosi in consapevolezza: “il bene e il
male si sono
abbracciati troppo stretti in quella maledetta notte nuziale tra il
cielo e l’inferno da cui e nata questa
umanità” (Dürrenmatt
F. 1953, p. 90). Ed è sorprendente come questa frase faccia
da eco a
quella che il medico Gastmann pronuncia allo stesso commissario in
occasione del duello finale ne Il giudice e il suo boia:
“mi
sono divertito a fare del bene quando ne avevo voglia e tornavo a fare
il male quando mi saltava in testa. […] Una sola notte ci ha
congiunti
per sempre” (Dürrenmatt F. 1952, p. 64). Bene
e male sono oramai
diventati due manifestazioni coniugabili a piacere, non tanto distanti
l’una dall’altra. È la
difficoltà del riconoscimento ad essere mutata,
e nel titolo del primo dei due nostri romanzi c’è
tutta questa tensione. Alla
sequenza canonica giallesca proposta sopra (fatto criminoso, sgomento,
dubbio, certezza, soluzione) Dürrenmatt sostituisce ed
inverte. Nulla è
più lineare nel giallo dürrenmattiano, il dubbio
non si presenta come
elemento propedeutico alla scoperta, la certezza nemmeno, e il fatto
criminoso è solo lo sfondo. Tutto resta sospeso nella
costruzione
narrativa di una trama terribilmente amorfa, inafferrabile, in cui bene
e male non sono più due termini oppositivi, quanto sono
diventati
termini vicendevolmente osmotici, nella consapevolezza di una
realtà
che oramai oltrepassa se stessa e che riproduce costantemente le sue
disgrazie. |