Sandro Penna, il tempo del sogno | di Erika Dagnino | |
È poi la riproducibilità, sovrapponibilità dell’elemento naturale, cosmico, a dare un’ulteriore conferma alla mutabilità del tempo umanizzato, cioè tempo dell’uomo. Una sorta di apparente contraddizione temporale tra ciò che resta uguale per esplicita asserzione, l’estate, e ciò che muta: il mutare dell’umano e il rimanere della natura, due concezioni, o meglio, due percezioni del tempo, i cui sfuggire e fuggire si delineano e consistono in un non essere uguale a se stesso, mantenendo al centro sempre la figura umana. Contrapposta, nel suo cambiamento, all’immutabilità della stagione, alla ripetizione della natura, uguale. L’estate, che non si vuole rappresentare soltanto come semplice raffigurazione di un ambiente o scenografia, ma come stagione contrapposta, quasi come dato, al tempo ‘umanizzato’, diventa immersione in uno spazio che può ripetersi come uguaglianza di sé a se stesso, mentre l’elemento umano ha il suo tempo che muta. E mutando cresce, ma la crescita custodisce e potenzia sempre qualcosa di invisibile, di cui chi circonda il soggetto in fase di crescita, certo non soltanto fisica, sembra a volte non accorgersi. La cosa più importante resta quindi il rilievo della temporalità, il mutamento – pur nel permanere dell’opinabilità a proposito del suo stesso essere pensato.
Il trascolorare dell’elemento temporale sottolinea le stratificazioni e la stessa incertezza del tempo. Tra identità reale e sognata, tra permanenza e immutabilità. Ma in questo caso la ripetizione è a suo modo sovrapponibile, pur nella sua diversità di durata e natura. |
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