Le ideologie più frequenti che il fumetto in quanto medium di massa (Brancato 1994; Brolli et al.
1992) ha fatto emergere nella maggior parte delle sue incarnazioni
seriali paiono di stampo piuttosto conservatore e, come asserito da più
voci, talora anche reazionario. V’è in particolare un autore di
fumetti, l’inglese Alan Moore, il quale in molte opere ha sottolineato
che alla base del fumetto popolare v’è un accento autoritario. Il suo
romanzo grafico Watchmen (Moore – Gibbons 1986-’87) mette bene
in luce le ideologie piccolo-borghesi e i quadri psichici non di rado
patologici che caratterizzano la maggior parte degli eroi in
calzamaglia (Wertham 1953; Mongai 1983). Durante la seconda metà degli
anni Ottanta, l’operato di Alan Moore è stato riconosciuto a livello
internazionale sia per le qualità affabulatorie sia per avere
evidenziato nelle sue opere il legame, sempre evidente ma troppo spesso
taciuto, tra fumetto popolare e ideologie, con opere quali V for Vendetta e, appunto, Watchmen. Moore aveva cominciato la sua riflessione sul supereroe già nei primi anni Ottanta con Marvelman (cfr. Aicardi 2006, pagg. 27-31 e 100-101), un vero laboratorio di riflessioni sulla natura e i tropi del
supereroismo a fumetti. Un altro pioniere della riflessione sui
supereroi è stato lo statunitense Frank Miller, che dal 1981 aveva dato
inizio alla sua opera di decostruzione del genere sulle pagine del Daredevil della Marvel Comics e che nello stesso anno di Watchmen avrebbe pubblicato The Dark Knight Returns, in cui la contrapposizione fra Batman e Superman è rivelatoria delle ideologie del superomismo a fumetti. Le implicazioni più interessanti fornite da Moore in merito all’ideologia nelle narrative popolari si trovano in V for Vendetta e From Hell, le sue opere più complesse, e sono comunque presenti, in vari modi, un po’ in tutto il suo opus. Sebbene queste due opere non siano specificamente affrontate in queste pagine, sono romanzi grafici di grande interesse. V for Vendetta
è ambientato in una Londra del futuro, decisamente fascista, in cui il
controllo politico è affidato a una polizia repressiva e a mass media
più che faziosi; solo un rivoluzionario, che si fa chiamare V, si erge inizialmente contro questo potere oppressivo, fino a guidare con il suo esempio tutta la popolazione. From Hell
è la storia romanzata dei poteri oscuri che governavano l’Inghilterra
vittoriana: un romanzo molto ben documentato che nel contempo è un thriller emozionante. Ciò nonostante Watchmen assume i tratti dell’unicità perché è
un’arguta conversazione sull’ideologia per come essa era stata
veicolata per cinquant’anni dal fumetto d’avventura con protagonisti
vigilanti e superuomini. Nel 1936, infatti, viene pubblicato The Phantom (L’Uomo Mascherato) di Lee Falk e Ray Moore, e nel 1986 Watchmen. Se si sceglie l’Uomo Mascherato come capostipite dei supereroi ignorando volutamente altri personaggi come Tarzan, Buck Rogers, Brick Bradford e Flash Gordon1, il superomismo a fumetti fino ai Watchmen attraversa mezzo secolo esatto. L’Uomo Mascherato è antesignano dei supereroi in calzamaglia perché per un verso possiede elementi già trasformati in cliché dallo Zorro
di Johnston McCulley (1919), quali la maschera, la divisa, il marchio e
il segreto, i quali a loro volta derivavano dagli antieroi tragici,
gotici e popolari europei – si pensi anche solo ai classici Rocambole o a Fantômas. Per l’altro verso Phantom è scenografico per il suo costume quasi circense che sarà fatto proprio da Superman, da Batman e dai loro successori, con l’aggiunta degli elementi ora indicati, del mantello (anch’esso già presente in Zorro) e di altri paraphernalia (Brolli et al. 1992).
I Watchmen di Moore riprendono tutto l’armamentario
ideologico, tecnologico e discorsivo prima appartenuto agli eroi in
costume dall’Uomo Mascherato
in poi e ne propongono ai lettori un esploso anatomico, rendendo conto
di come la presunta evoluzione del genere in quei cinquant’anni si
risolva in niente di più che periodici restyling e in una maggiore
proprietà linguistico-narrativa degli autori, di generazione in
generazione, ma in una immutabilità o quantomeno “coerenza” ideologica. È
quindi dallo scoccare degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta
che Frank Miller negli USA, ma soprattutto Alan Moore, Neil Gaiman,
Grant Morrison, Pete Milligan, Warren Ellis pubblicano – spesso proprio
per editori statunitensi – una quantità di fumetti, nel solco della
produzione seriale, che si distinguono per la loro carica eversiva.
Questa tuttavia non è sempre giocata su idee esplicitamente politiche
bensì, più spesso, sulla volontà di indicare con chiarezza e vis
polemica i limiti di un genere, il fumetto d’azione e la sua corposa
variante supereroica, nelle sue incarnazioni popolari, che fino a quel
momento erano state additate come puerili, semplicistiche,
adolescenziali (bocciature analoghe a quelle subite anche da altre
forme espressive allora non ancora del tutto legittimate, per esempio
la letteratura di fantascienza). Per quanto riguarda nello specifico il
fumetto di supereroi, escono dalla penna di Moore le opere manifesto
più importanti in tal senso, Marvelman (Miracleman negli Usa) e Watchmen, seguite dalla miniserie 1963 e da un ciclo del personaggio Supreme.
L’industria del fumetto popolare, tuttavia, non riesce ad assorbire
compiutamente il messaggio e ancora una volta avviene una sorta di
vigorosa controreazione, nella pubblicazione di supereroi – è il caso
della casa editrice Image negli Usa, ma non solo – ancora più
superficiali, violenti e autoritari, quasi sempre privi di contenuti
maturi2 e scimmiottanti, per paradosso, le tematiche fondative e
innovative di opere come Watchmen. In tal senso, l’operazione
culturale effettuata da Moore e dagli altri autori che condividono la
sua stessa visione sembra avere avuto, fino a tempi recenti, effetti
limitati sulle routine produttive del fumetto supereroico. La
fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo sono un periodo di
svolta. Oltre alla guida fornita da grandi autori e idealmente
capeggiata da Moore, nasce un nuovo tipo di fumetto supereroico in cui
avviene una singolare commistione fra i cliché superomistici (superpoteri, base segreta, gruppo vs.
individualità, buoni contro cattivi, alieni e scienziati pazzi) e un
nuovo modo di intendere l’attività supereroica nel mondo. È questo il
caso di due serie, The Authority e Planetary,
provenienti da scrittori britannici (Warren Ellis e Mark Millar), ma
pubblicate a partire dall’editore statunitense Dc. Qui i protagonisti
hanno poteri analoghi o superiori a quelli di personaggi storici quali
il quasi onnipotente Superman, il superveloce Flash, il poliziotto spaziale Lanterna Verde, la forzuta amazzone Wonder Woman, il dio nordico Thor, il mago arcano Dottor Strange
e altri; anzi sono basati, per caratteristiche psicologiche, costumi e
natura dei loro talenti, proprio sui prototipi del genere. Ciò che
cambia è il loro atteggiamento verso la realtà in cui si muovono.
Invece di essere tutori dell’ordine costituito, sono portati a fondare,
deliberatamente o meno, un nuovo ordine mondiale cercando di attuare il
disarmo nucleare, di eliminare i problemi d’inquinamento, di portare la
politica internazionale verso nuovi equilibri. Svolgono inoltre
poderose azioni antiterrorismo su scala planetaria, agendo con una
violenza e uno sprezzo della vita umana che solo in parte sono
giustificati dal fatto che gli oggetti della loro furia sono criminali
di guerra, eserciti di terroristi e politici corrotti.
Le azioni machiavelliche di questi semidèi non hanno freni e in
questo senso gli autori pungolano i lettori in vari modi. Innanzitutto
mostrano un modo più verosimile in cui si comporterebbe un superuomo, o
un gruppo di superuomini, se esistessero nella nostra realtà: anche se
animato da nobili propositi chiunque potrebbe cadere nell’eccesso di
usare la propria forza in modo sproporzionato, rispettando l’adagio
secondo cui se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe in modo
assoluto. The Authority, in particolare, scardina in modo
definitivo le leggi non scritte del fumetto supereroico più consueto,
in cui l’eroe si muove in modo limitato e su scala locale: i personaggi
di questa serie agiscono a livello transnazionale, fanno regime a sé, e
non sono “burattini” di alcun regime, come, al contrario, il Superman tratteggiato da Miller in The Dark Knight Returns. Una storia, questa, in cui è rappresentato, in un futuro prossimo, un Batman
invecchiato che torna in attività a causa dell’accrescersi del crimine
nella sua città, Gotham. In questo fumetto viene evidenziato anche il
ruolo del suo amico Superman, che anziché essere un eroe super partes come Batman
stesso, è una sorta di lacché del potere costituito, e prende ordini
dal presidente degli Stati Uniti invece di ergersi a eroe planetario,
visti i suoi poteri quasi divini. Tutto ciò porta gli autori a
interrogare i lettori circa la possibilità/inevitabilità di limiti
etici nell’amministrazione della forza da parte di chi ne detiene in
abbondanza, con chiari riferimenti all’attualità, e infatti non è un
caso che il nome del supergruppo sottolinei il tema dell’autorità implicando quello di autoritarismo. In buona sostanza The Authority
è un salotto filosofico sul valore ontologico del supereroe, e da un
punto di vista “interno” (il supereroe e le sue verosimili strategie di
comportamento all’interno del proprio mondo fittizio), e da un punto di
vista “esterno” (cosa significa, oggi, leggere storie imperniate su
persone dotate di poteri mitologici che risolvono i problemi del mondo
con la forza e tramutando così questo mondo in qualcosa d’altro
rispetto alla realtà in cui viviamo). È un fumetto che comunica
messaggi sottili, coniugandoli però con le esigenze del mercato
editoriale dei comics supereroici. Questa serie porta in ultima
analisi i lettori a interrogarsi sui limiti e le trappole ideologiche
che i supereroi nascondono sotto la loro patina di colori e azione
spettacolare. Molti tratti tipici dei fumetti “bellici” (il
razzismo; il culto della violenza come affermazione di valore; il culto
della virilità; il mito della santità della guerra, agone per uomini
forti che ivi dimostrano la loro forza; l’anticomunismo forsennato; il
culto del superuomo come distributore di giustizia al di sopra delle
leggi banali degli uomini deboli; cfr. Eco 1971), stemperati in
intensità, risaltano anche in molti personaggi avventurosi – sia
italiani sia americani – nelle loro incarnazioni classiche, quelle in
voga dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Sessanta,
decennio in cui tali tendenze cominciano a ridursi, nell’ambito
supereroico, grazie all’introduzione degli eroi tormentati della
Marvel. Soprattutto, sono i tratti che ci restituiscono l’identikit del Comico, il vigilante del cosmo di Watchmen che Moore ha ideato per ricordare ai lettori quale sia il vero volto del supereroe tradizionale, un po’ à la Superman e un po’ à la Capitan America. Questo coagulo di caratteristiche tuttavia è presente, in vari dosaggi, anche in altri protagonisti di Watchmen,
come lo psicopatico Rorschach e Ozymandias, e ha ragione Orion Kidder
(2004) nello scrivere che “porzioni” di supereroismo canonico sono
distribuite in tutti i personaggi di Watchmen. I vigilanti di Moore sono format
all’interno dei quali si ravvisa la vasta gamma dei superomismi a
fumetti. In tal modo è possibile accorgersi di come, estrapolati dalle
loro narrazioni, le caratteristiche di questi eroi appaiano improbabili
e ideologicamente opinabili: perché vi si avverte una minacciosa
impronta destrorsa (sull’ideologia di destra statunitense cfr.
Altemeyer 1988) la quale suggerisce che l’intera impalcatura del
supereroismo a fumetti – a parere di Moore – si reggerebbe su premesse
“politiche” aberranti.
Moore, appassionato di narrativa avventurosa ma anche di letteratura
colta, da giovane crebbe a contatto con letture in cui emergeva
l’autoritarismo della società inglese, che sotto l’anacronistico
moralismo pseudovittoriano nascondeva un passato oscuro e di soprusi. A
ciò si aggiunga lo sconcerto che la politica nazionale gli procurò
durante i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta, periodo di
gestazione e creazione di V for Vendetta prima e di Watchmen dopo. In
un’intervista l’autore fornisce una sua definizione del “fascismo
populistico”: “i fascisti sono persone che lavorano nelle fabbriche,
probabilmente sono gentili con i loro bambini. Sono gente qualunque.
Sono come chiunque altro eccetto per il fatto che sono fascisti3”. È un
modo pittoresco di definire i fascisti della porta accanto, ma è anche
uno degli indizi che chiariscono il fatto che Watchmen è un’opera-mondo (Moretti 1994) in cui viene narrato un ambiente coerente e credibile. Quando Bradford W. Wright ha asserito che Watchmen
è un fumetto in cui si rappresenta “cosa sarebbero i
supereroi se davvero esistessero” (Wright 2001, pag. 271, t.d.a.), Kidder (2004) ha puntualizzato, non a torto, che Watchmen piuttosto delinea “come sarebbe il mondo
se i supereroi davvero esistessero”. In sostanza, si chiede Moore, se
nella realtà – o in un mondo realisticamente progettato, narrato e
rappresentato – nascesse in alcuni individui l’impeto irrefrenabile di
diventare vigilanti in costume, agendo al di fuori della legge anche se
con l’intento di coadiuvarla, e se la società permettesse la loro
esistenza e le loro azioni sic et simpliciter, quello che mondo
sarebbe? La risposta che Moore si dà e dà ai lettori è: un mondo
decisamente orientato a destra – ciò che si può facilmente constatare
nella lettura dell’opera. Ma Moore fra le righe fornisce una risposta
ben più fastidiosa per il lettore, in particolare per quello
statunitense: egli afferma che questo mondo sarebbe orientato a destra
poiché gli Stati Uniti (e, aggiunge Moore puntutamente, la Gran
Bretagna) sono per lo più destrorsi, e i supereroi sono un prodotto
culturale statunitense/anglosassone. Il sillogismo è crudele e
tagliente nella sua elementarità, e in buona parte veritiero, che lo si
voglia o meno attribuire a Moore. Il quale peraltro in varie pagine del
libro mette in scena una serie di pubblicazioni, immaginate ad hoc,
che pongono in evidenza l’orientamento ideologico su cui si vuole
focalizzare l’attenzione. Si tratta dei fumetti violenti e macabri di
argomento piratesco letti da un bambino che in varie sequenze staziona
nei pressi di un’edicola, e della rivista politica The New Frontiersman, non a caso acquistata dal vigilante Rorschach, che insieme al Comico rappresenta l’estrema right wing dei Watchmen. A
questo punto, se è vero che i supereroi rispecchiano un’ideologia, e
poiché essi sono nati negli Usa, occorre provare a domandarsi non solo
perché i supereroi siano nati proprio in quel paese, ma anche quale
tipo di ideologia, inevitabilmente americana, alberghi nel concetto di
“supereroe”. Per Robert Emmons (2005, t.d.a.), ad esempio,
esso è “una creazione di scienza, tecnologia, psicologia, rivoluzione,
sessualità, valori, credenze e così via, dunque cos’è il supereroe se
non un’immagine della nostra [statunitense] psiche collettiva?”. Emmons
e altri autori cercano di spiegare o almeno di descrivere l’esistenza
della narrativa supereroica nel contesto americano, ponendola in
comunicazione con le origini mitiche, e le continue riscritture di tali
miti, che caratterizzano la narrativa popolare, partendo spesso e
volentieri dal classico studio di Joseph Campbell (1991) sulle versioni
mitiche dell’Eroe. Il rifarsi a Campbell e l’applicare la sua
trattazione ai racconti di supereroi è un lavoro interessante e utile
per delineare i meccanismi della narrativa popolare e la “morfologia”
del mito nella sua migrazione nei mass media contemporanei; tuttavia
questo tipo di strategie argomentative non ci paiono cogliere un punto
che in realtà era stato afferrato, in Italia, già da Roberto Giammanco
nel 1964. La filosofia della storia che anima lo spirito della
nazione americana, come noto fin dalle analisi più classiche (cfr.
Tocqueville 1835), è quella di un popolo che si ritiene obbligato a
farsi guida del mondo. La teleologia su cui si fonda il ruolo che
l’America s’è autoassegnato è poi giocata su una struttura binaria:
noi/loro, bene/male, molto di più di quanto non sia per la civiltà
europea. Inoltre, la società americana e la sua politica sono dominate,
a un livello molto profondo, dalla paura dell’altro e dell’alterità, e
ciò è in evidente paradosso con la realtà dell’America, terra di
contraddizioni e di estrema varietà etnica e culturale. Infine, la
presunta universalità dei valori della nazione americana – sanciti da
documenti che per gli statunitensi sono ammantati di sacro, quali la
Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione – e l’aura mitica di cui
sono oggi rivestiti i primi Padri Pellegrini che partirono dall’Europa
per raggiungere un nuovo mondo, hanno assunto un valore che
correttamente Giammanco definisce metastorico. Non è difficile
collegare quanto scritto sopra con i supereroi e l’ideologia alla loro
base.
L’amore per la bandiera vige pienamente per molti supereroi, i quali
la difendono muovendosi su un livello che non tiene conto delle leggi
internazionali: questo tipo di azione è spesso giustificata,
nell’economia delle storie, dall’arruolamento dell’eroe o in servizi
segreti ipertecnologici o nei consueti “supergruppi”, che non di rado
sono sostenuti a livello governativo, rafforzando così l’immagine di un
sistema politico e di difesa che, nel salvaguardare il proprio
territorio e il proprio ordine sociale, non esita a mettere all’opera
soggetti tecnicamente entro la legge, ma moralmente ambigui. E, com’è
evidente in Watchmen, tale rappresentazione idealizzata del
supereroe “filogovernativo” si trasforma nella sua brutta e realistica
copia, cioè nel Comico, un ex vigilante privo di coscienza, violento,
un pluriomicida e stupratore che svolge operazioni militari “sporche”
per il governo. Jeffrey Lang e Patrick Trimble (1988) interpretano
il supereroe come rappresentativo del carattere nazionale americano.
Vedono gli elementi “super” degli eroi in costume come allegoria del
fatto che all’alba del XX secolo gli Usa stavano diventando una
superpotenza, caratterizzata dalla giovinezza, dal vigore, sostenuta
(per lo più) da saldi principi morali, dalla supremazia tecnologica ed
economica, da un sistema sociale teoricamente in grado di fornire a
tutti adeguate opportunità per portare a compimento i propri progetti
di autorealizzazione. Si tratta di una lettura gioiosa ma incompleta.
Uno sguardo più critico potrebbe facilmente integrare il quadro con
alcuni elementi della psicologia del supereroe o, meglio, di quella del
suo lettore-tipo, che anche in questo caso, come già rilevato a
proposito delle aporie fra gli ideali statunitensi e la loro messa in
pratica, si ritrova vittima di una colossale contraddizione
esistenziale circa la sua ricerca del raggiungimento dell’American Dream. La
narrativa supereroica potrebbe allora fungere da sostegno, almeno in
piccola parte, a certe frustrazioni dell’americano contemporaneo (o
quantomeno di chi ancora legge i supereroi), come rilevato già molti
anni fa da Arthur Asa Berger (1973). “Viene da pensare che le esigenze
che avevano motivato la nascita dei supereroi non siano ancora
tramontate. Se anche, col tempo, la dipendenza dell’uomo dalla macchina
è stata ridimensionata (ma non eliminata), tuttavia altre forme di
schiavitù, più o meno evidenti, si sono fatte strada nella società. In
un mondo dove ogni individuo è almeno un po’ consapevole del suo
status, caratterizzato dalla mancanza di autonomia e dall’assorbimento
in una società caotica e nei suoi ritmi e valori sempre più mutevoli,
l’essere superiore che da questa mediocrità si innalza è un mito
destinato a durare” (Semprini 2006, Cap. IV). Sembra di leggere fra le
inquietudini di Dan Dreiberg, il Gufo Notturno, l’ex vigilante che in Watchmen
ha messo su pancia, si è rintanato nella sua sola identità civile di
uomo di mezza età, solo e frustrato, ma che ancora sogna di poter
condurre una vita meno monotona. I processi che hanno portato alla diffusione dei comic book
supereroici sono di certo più vari e complessi di quelli qui trattati,
e non è possibile esaurirli in questa sede. Sarà però il caso di
chiudere questo tema con una nota positiva, forse un po’ naïve
– nel senso affettuoso del termine – ma che rivela lo spirito con cui
molti statunitensi guardano a questo prodotto culturale che è loro
peculiare. Il brano citato, peraltro, non solo esprime una
testimonianza su come molti lettori e critici americani interpretano il
rinnovamento del genere supereroico avvenuto negli ultimi anni, ma
appare come una reazione di entusiasmo e rinnovata fiducia verso il
futuro rispetto alle crisi in corso in quel paese, in tal senso
sottolineando una volta di più la fede negli ideali nazionali:
L’America avrà i suoi nuovi supereroi perché noi non
rallenteremo, non ci fermeremo, pretenderemo il progresso, il nuovo.
Reagiremo al passato e prediremo il futuro. I nostri ideali, la nostra
intelligenza e la nostra cultura culleranno i supereroi a cui
aspireremo. […] Il nostro supereroe del XXI secolo è un
prodotto di autoanalisi e i supereroi del prossimo secolo di certo
saranno pregni del mistero e delle meraviglie che danno vita
all’America stessa, come nazione e come spirito collettivo. (Emmons 2005, t.d.a.)
Vi sono ora alcuni argomenti conclusivi da considerare, e che come gli altri già affrontati sono rintracciabili in Watchmen
secondo il taglio di Moore, che scarnifica la teoria dell’azione del
supereroe canonico rivelando le sue forzature ideologiche. Il primo
punto è l’evidente collegamento, vero o presunto, fra il supereroismo
nei fumetti e un ventaglio di concetti filosofici spesso attribuiti al
supereroe, e che fanno capo all’idea nietzhiana di Übermensch. Vari studiosi e critici cimentatisi o nell’analisi del supereroe in generale, o nella trattazione specifica di Watchmen,
in un punto o nell’altro dei loro contributi – spesso e volentieri
nella parte iniziale – si sono richiamati a una familiarità ideologica
e comportamentale fra il cosiddetto “superuomo” di Friedrich Nietzsche
e il supereroe. In effetti, Alan Moore in Watchmen si riferisce
esplicitamente a Nietzsche, ma il suo richiamarlo è da vedersi come il
tentativo di chiarire l’ambiguità di questo diffuso accostamento fra
supereroe e Übermensch, piuttosto che come il desiderio di sovrapporne i concetti. Altro
punto su cui porre brevemente l’attenzione è il modo in cui Moore
esemplifica le fantasie di potenza, l’autoassegnazione di una missione
che nessuno ha richiesto, la personalità narcisistica, il feticismo e
altre “patologie” insite nel supereroe. I suoi bersagli preferiti sono
Rorschach, paranoico ricalcato sui personaggi The Question e Mister A (di Steve Ditko) e su certe ossessioni di Batman, e Gufo Notturno, mélange fra le insicurezze di Clark Kent e
le mediocrità dell’uomo medio, individuo incapace di fare sesso come
una persona normale ma bisognoso di indossare il costume da vigilante o
di trovarsi in prossimità dei suoi paraphernalia. Moore, attraverso gli altri personaggi, delinea anche ulteriori cliché negativi del supereroe, come la megalomania di Ozymandias, il distaccato senso di superiorità del Dottor Manhattan, o all’inverso i complessi d’inferiorità e gli imbarazzi di Silk Spectre per il suo costume discinto. Molti di questi cliché, peraltro, riconducono a un topos centrale della raffigurazione supereroica, quella del corpo quale macchina armoniosa e perfetta – come quello di Ozymandias, che rappresenta il modello a cui aspirare – ma che è invece un elemento carente in Rorschach, mingherlino e sporco, e in Silk Spectre e Gufo Notturno,
inesorabilmente appesantiti dagli anni. Resta il fatto che Moore,
attraverso il corpo e i suoi difetti, sottolinea la natura “fallica” di
un fisico perfetto, la sua simbolizzazione in dimostrazione della
potenza e supremazia del supereroe (McRae 2001). Infine Moore, nell’epilogo di Watchmen, canzona la tradizione del supereroe mettendo in ridicolo le sue stesse origini, quando inscena un dialogo ironico fra Dan Dreiberg (Gufo Notturno) e Laurie Juspeczyk (Silk Spectre).
Quest’ultima, discutendo sulla possibilità che i due riprendano
l’attività di vigilanti, manifesta il desiderio per un nuovo costume,
stavolta di cuoio e che la copra e protegga, per una maschera e anche
per una pistola (Moore – Gibbons 1986-’87, pag. 30). In sostanza, il look iniziale di Batman,
che come noto nelle storie degli esordi (dal 1939 alla fine della
guerra) aveva un’arma e sparava, a volte uccidendo. Moore sembra cioè
avvolgere il mito del supereroe su sé stesso, mostrando che quello che
potrebbe sembrare un nuovo inizio e un ammodernamento del genere è in
realtà un ritorno alle origini e a un’ideologia autoritaria perfino più
retriva.
:: letture ::
. White, D.M. – Abel, R.H. (eds.), The Funnies: An American Idiom, Glencoe (IL), Free Press, 1963 (trad. it. Sociologia del fumetto americano, Milano, Bompiani, 1966, poi ristampato come Il fumetto e l’ideologia americana, Milano, Bompiani, 1973).
. Aicardi, G., M for Moore. Il genio di Alan Moore da V for Vendetta e Watchmen a Promethea, Latina, Tunué, 2006.
. Altemeyer, B., Enemies of Freedom: Understanding Right-Wing Authoritarianism, San Francisco-London, Jossey-Bass Publishers, 1988.
. Berger, A.A., The Comic-Stripped American, New York, Walker and Company, 1973 (trad. it. L’americano a fumetti, Milano, Milano Libri, 1976).
. Brancato, S., Fumetti. Guida ai comics nel sistema dei media, Roma, Datanews, 1994.
. Brolli, D. (a cura di), Il crepuscolo degli eroi, Bologna, Telemaco,1992.
. Campbell, J., L’eroe dai mille volti, CDE, Milano, 1991.
. Eco, U., “Fascio e Fumetto”, L’Espresso/ Colore, n. 13, 28 marzo, 1971.
. Eco, U., “Note bibliografiche per una analisi delle comic strips”, Marcatré – Rivista di cultura contemporanea, n. 2, gennaio, Genova, Edizioni Vittone, 1964.
. Emmons, R.A. Jr., (2005), “Modernism and the Birth of the American Superhero”, www.sequart.com/articles/index.php?article=704 (ultimo accesso: settembre 2006).
. Giammanco, R., Dialogo sulla società americana, Torino, Einaudi, 1964.
. Kavanagh, T., in Smoky Man (a cura di), “Alan Moore, scrittore supremo. Parte prima: da V for Vendetta a Watchmen”, www.ultrazine.org/ultraparole/alanmoore.htm, ottobre 2000 (ultimo accesso: settembre 2006).
. Kidder, O.U., “A World with Contradictions: Alan Moore and Dave Gibbon’s [sic] Watchmen and the Revisionist Superhero Story”, www.staticred.net/four-color/archives/002274.html, luglio 2006 (ultimo accesso: settembre 2006).
. Lang, J.S. – Trimble, Patrick, “Whatever Happened to Man of
Tomorrow? An Explanation of the American Monomyth and the Comic Book
Superhero”, Journal of Popular Culture, vol. 22, issue 3, Winter, 1988.
. McRae, L., “Rollins, Representation and Reality: Lifting the Weight of Masculinity”, M/C Journal – A Journal of Media and Culture, vol. 4, issue 4, August, 2001.
. Mongai, M., Chi ha paura di Lucy Van Pelt, ovvero Psicoanalisi e fumetti, Roma, Edizioni Psicoanalisi Contro, 1983.
. Moore, A. – Gibbons, D., Watchmen, New York, DC Comics, 1986-1987.
. Moretti, F., Opere mondo, Einaudi, Torino, 1994 (II ed. 2003).
. Nietzsche, F., Also sprach Zarathustra, pr. ed. 1885, trad. it. Così parlò Zarathustra, in Opere filosofiche, vol. I, Torino, Utet, 2002.
. Semprini, V., Bam! Sock! Lo scontro a fumetti. Dramma e spettacolo del conflitto nei comics americani d’avventura, Latina, Tunué, 2006.
. Tocqueville, A. de, La democratie en Amerique, pr. ed. 1835, trad. it. La democrazia in America, Torino, UTET, 1968.
. Wertham, F., The Seduction of the Innocent, New York, Amereron, 1953.
. Wright, B.W., Comic Book Nation: The Transformation of Youth Culture in America, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2001.
:: note ::
1. Il Tarzan a fumetti (1929, Harold Foster) derivava dall’eroe letterario di Edgar R. Burroughs (Tarzan of the Apes, 1912). Buck Rogers (1929, Philip Nowlan – Dick Calkins), Brick Bradford (1933, William Ritt – Clarence Gray) e Flash Gordon (1934, Alex Raymond) derivavano, direttamente o per ispirazione tematica, dalla space opera letteraria degli anni Venti.
2. Fanno
eccezione pochi autori, fra cui Peter David, Kurt Busiek, Joseph
Michael Straczynski, Chris Claremont, Brian M. Bendis.
3. La frase di Moore è riferita nell’intervista concessa in Kavanagh 2000; trad. it. Smoky Man 2000.
|