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La super ideologia eroica dei Watchmen
di Marco Pellitteri

watchmenLe ideologie più frequenti che il fumetto in quanto medium di massa (Brancato 1994; Brolli et al. 1992) ha fatto emergere nella maggior parte delle sue incarnazioni seriali paiono di stampo piuttosto conservatore e, come asserito da più voci, talora anche reazionario. V’è in particolare un autore di fumetti, l’inglese Alan Moore, il quale in molte opere ha sottolineato che alla base del fumetto popolare v’è un accento autoritario. Il suo romanzo grafico Watchmen (Moore – Gibbons 1986-’87) mette bene in luce le ideologie piccolo-borghesi e i quadri psichici non di rado patologici che caratterizzano la maggior parte degli eroi in calzamaglia (Wertham 1953; Mongai 1983). Durante la seconda metà degli anni Ottanta, l’operato di Alan Moore è stato riconosciuto a livello internazionale sia per le qualità affabulatorie sia per avere evidenziato nelle sue opere il legame, sempre evidente ma troppo spesso taciuto, tra fumetto popolare e ideologie, con opere quali V for Vendetta e, appunto, Watchmen.
Moore aveva cominciato la sua riflessione sul supereroe già nei primi anni Ottanta con Marvelman (cfr. Aicardi 2006, pagg. 27-31 e 100-101), un vero laboratorio di riflessioni sulla natura e i tropi del supereroismo a fumetti. Un altro pioniere della riflessione sui supereroi è stato lo statunitense Frank Miller, che dal 1981 aveva dato inizio alla sua opera di decostruzione del genere sulle pagine del Daredevil della Marvel Comics e che nello stesso anno di Watchmen avrebbe pubblicato The Dark Knight Returns, in cui la contrapposizione fra Batman e Superman è rivelatoria delle ideologie del superomismo a fumetti. 
Le implicazioni più interessanti fornite da Moore in merito all’ideologia nelle narrative popolari si trovano in V for Vendetta e From Hell, le sue opere più complesse, e sono comunque presenti, in vari modi, un po’ in tutto il suo opus. Sebbene queste due opere non siano specificamente affrontate in queste pagine, sono romanzi grafici di grande interesse. V for Vendetta è ambientato in una Londra del futuro, decisamente fascista, in cui il controllo politico è affidato a una polizia repressiva e a mass media più che faziosi; solo un rivoluzionario, che si fa chiamare V, si erge inizialmente contro questo potere oppressivo, fino a guidare con il suo esempio tutta la popolazione. From Hell è la storia romanzata dei poteri oscuri che governavano l’Inghilterra vittoriana: un romanzo molto ben documentato che nel contempo è un thriller emozionante.
Ciò nonostante Watchmen assume i tratti dell’unicità perché è un’arguta conversazione sull’ideologia per come essa era stata veicolata per cinquant’anni dal fumetto d’avventura con protagonisti vigilanti e superuomini. Nel 1936, infatti, viene pubblicato The Phantom (L’Uomo Mascherato) di Lee Falk e Ray Moore, e nel 1986 Watchmen. Se si sceglie l’Uomo Mascherato come capostipite dei supereroi ignorando volutamente altri personaggi come Tarzan, Buck Rogers, Brick Bradford e Flash Gordon1, il superomismo a fumetti fino ai Watchmen attraversa mezzo secolo esatto. L’Uomo Mascherato è antesignano dei supereroi in calzamaglia perché per un verso possiede elementi già trasformati in cliché dallo Zorro di Johnston McCulley (1919), quali la maschera, la divisa, il marchio e il segreto, i quali a loro volta derivavano dagli antieroi tragici, gotici e popolari europei – si pensi anche solo ai classici Rocambole o a Fantômas. Per l’altro verso Phantom è scenografico per il suo costume quasi circense che sarà fatto proprio da Superman, da Batman e dai loro successori, con l’aggiunta degli elementi ora indicati, del mantello (anch’esso già presente in Zorro) e di altri paraphernalia (Brolli et al. 1992). 

I Watchmen di Moore riprendono tutto l’armamentario ideologico, tecnologico e discorsivo prima appartenuto agli eroi in costume dall’Uomo Mascherato in poi e ne propongono ai lettori un esploso anatomico, rendendo conto di come la presunta evoluzione del genere in quei cinquant’anni si risolva in niente di più che periodici restyling e in una maggiore proprietà linguistico-narrativa degli autori, di generazione in generazione, ma in una immutabilità o quantomeno “coerenza” ideologica.
È quindi dallo scoccare degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta che Frank Miller negli USA, ma soprattutto Alan Moore, Neil Gaiman, Grant Morrison, Pete Milligan, Warren Ellis pubblicano – spesso proprio per editori statunitensi – una quantità di fumetti, nel solco della produzione seriale, che si distinguono per la loro carica eversiva. Questa tuttavia non è sempre giocata su idee esplicitamente politiche bensì, più spesso, sulla volontà di indicare con chiarezza e vis polemica i limiti di un genere, il fumetto d’azione e la sua corposa variante supereroica, nelle sue incarnazioni popolari, che fino a quel momento erano state additate come puerili, semplicistiche, adolescenziali (bocciature analoghe a quelle subite anche da altre forme espressive allora non ancora del tutto legittimate, per esempio la letteratura di fantascienza). Per quanto riguarda nello specifico il fumetto di supereroi, escono dalla penna di Moore le opere manifesto più importanti in tal senso, Marvelman (Miracleman negli Usa) e Watchmen, seguite dalla miniserie 1963 e da un ciclo del personaggio Supreme. L’industria del fumetto popolare, tuttavia, non riesce ad assorbire compiutamente il messaggio e ancora una volta avviene una sorta di vigorosa controreazione, nella pubblicazione di supereroi – è il caso della casa editrice Image negli Usa, ma non solo – ancora più superficiali, violenti e autoritari, quasi sempre privi di contenuti maturi2 e scimmiottanti, per paradosso, le tematiche fondative e innovative di opere come Watchmen. In tal senso, l’operazione culturale effettuata da Moore e dagli altri autori che condividono la sua stessa visione sembra avere avuto, fino a tempi recenti, effetti limitati sulle routine produttive del fumetto supereroico.
La fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo sono un periodo di svolta. Oltre alla guida fornita da grandi autori e idealmente capeggiata da Moore, nasce un nuovo tipo di fumetto supereroico in cui avviene una singolare commistione fra i cliché superomistici (superpoteri, base segreta, gruppo vs. individualità, buoni contro cattivi, alieni e scienziati pazzi) e un nuovo modo di intendere l’attività supereroica nel mondo. È questo il caso di due serie, The Authority e Planetary, provenienti da scrittori britannici (Warren Ellis e Mark Millar), ma pubblicate a partire dall’editore statunitense Dc. Qui i protagonisti hanno poteri analoghi o superiori a quelli di personaggi storici quali il quasi onnipotente Superman, il superveloce Flash, il poliziotto spaziale Lanterna Verde, la forzuta amazzone Wonder Woman, il dio nordico Thor, il mago arcano Dottor Strange e altri; anzi sono basati, per caratteristiche psicologiche, costumi e natura dei loro talenti, proprio sui prototipi del genere. Ciò che cambia è il loro atteggiamento verso la realtà in cui si muovono. Invece di essere tutori dell’ordine costituito, sono portati a fondare, deliberatamente o meno, un nuovo ordine mondiale cercando di attuare il disarmo nucleare, di eliminare i problemi d’inquinamento, di portare la politica internazionale verso nuovi equilibri. Svolgono inoltre poderose azioni antiterrorismo su scala planetaria, agendo con una violenza e uno sprezzo della vita umana che solo in parte sono giustificati dal fatto che gli oggetti della loro furia sono criminali di guerra, eserciti di terroristi e politici corrotti.

Le azioni machiavelliche di questi semidèi non hanno freni e in questo senso gli autori pungolano i lettori in vari modi. Innanzitutto mostrano un modo più verosimile in cui si comporterebbe un superuomo, o un gruppo di superuomini, se esistessero nella nostra realtà: anche se animato da nobili propositi chiunque potrebbe cadere nell’eccesso di usare la propria forza in modo sproporzionato, rispettando l’adagio secondo cui se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. The Authority, in particolare, scardina in modo definitivo le leggi non scritte del fumetto supereroico più consueto, in cui l’eroe si muove in modo limitato e su scala locale: i personaggi di questa serie agiscono a livello transnazionale, fanno regime a sé, e non sono “burattini” di alcun regime, come, al contrario, il Superman tratteggiato da Miller in The Dark Knight Returns. Una storia, questa, in cui è rappresentato, in un futuro prossimo, un Batman invecchiato che torna in attività a causa dell’accrescersi del crimine nella sua città, Gotham. In questo fumetto viene evidenziato anche il ruolo del suo amico Superman, che anziché essere un eroe super partes come Batman stesso, è una sorta di lacché del potere costituito, e prende ordini dal presidente degli Stati Uniti invece di ergersi a eroe planetario, visti i suoi poteri quasi divini. 
Tutto ciò porta gli autori a interrogare i lettori circa la possibilità/inevitabilità di limiti etici nell’amministrazione della forza da parte di chi ne detiene in abbondanza, con chiari riferimenti all’attualità, e infatti non è un caso che il nome del supergruppo sottolinei il tema dell’autorità implicando quello di autoritarismo. In buona sostanza The Authority è un salotto filosofico sul valore ontologico del supereroe, e da un punto di vista “interno” (il supereroe e le sue verosimili strategie di comportamento all’interno del proprio mondo fittizio), e da un punto di vista “esterno” (cosa significa, oggi, leggere storie imperniate su persone dotate di poteri mitologici che risolvono i problemi del mondo con la forza e tramutando così questo mondo in qualcosa d’altro rispetto alla realtà in cui viviamo). È un fumetto che comunica messaggi sottili, coniugandoli però con le esigenze del mercato editoriale dei comics supereroici. Questa serie porta in ultima analisi i lettori a interrogarsi sui limiti e le trappole ideologiche che i supereroi nascondono sotto la loro patina di colori e azione spettacolare.
Molti tratti tipici dei fumetti “bellici” (il razzismo; il culto della violenza come affermazione di valore; il culto della virilità; il mito della santità della guerra, agone per uomini forti che ivi dimostrano la loro forza; l’anticomunismo forsennato; il culto del superuomo come distributore di giustizia al di sopra delle leggi banali degli uomini deboli; cfr. Eco 1971), stemperati in intensità, risaltano anche in molti personaggi avventurosi – sia italiani sia americani – nelle loro incarnazioni classiche, quelle in voga dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Sessanta, decennio in cui tali tendenze cominciano a ridursi, nell’ambito supereroico, grazie all’introduzione degli eroi tormentati della Marvel. Soprattutto, sono i tratti che ci restituiscono l’identikit del Comico, il vigilante del cosmo di Watchmen che Moore ha ideato per ricordare ai lettori quale sia il vero volto del supereroe tradizionale, un po’ à la Superman e un po’ à la Capitan America. Questo coagulo di caratteristiche tuttavia è presente, in vari dosaggi, anche in altri protagonisti di Watchmen, come lo psicopatico Rorschach e Ozymandias, e ha ragione Orion Kidder (2004) nello scrivere che “porzioni” di supereroismo canonico sono distribuite in tutti i personaggi di Watchmen. I vigilanti di Moore sono format all’interno dei quali si ravvisa la vasta gamma dei superomismi a fumetti. In tal modo è possibile accorgersi di come, estrapolati dalle loro narrazioni, le caratteristiche di questi eroi appaiano improbabili e ideologicamente opinabili: perché vi si avverte una minacciosa impronta destrorsa (sull’ideologia di destra statunitense cfr. Altemeyer 1988) la quale suggerisce che l’intera impalcatura del supereroismo a fumetti – a parere di Moore – si reggerebbe su premesse “politiche” aberranti.

Moore, appassionato di narrativa avventurosa ma anche di letteratura colta, da giovane crebbe a contatto con letture in cui emergeva l’autoritarismo della società inglese, che sotto l’anacronistico moralismo pseudovittoriano nascondeva un passato oscuro e di soprusi. A ciò si aggiunga lo sconcerto che la politica nazionale gli procurò durante i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta, periodo di gestazione e creazione di V for Vendetta prima e di Watchmen dopo. 
In un’intervista l’autore fornisce una sua definizione del “fascismo populistico”: “i fascisti sono persone che lavorano nelle fabbriche, probabilmente sono gentili con i loro bambini. Sono gente qualunque. Sono come chiunque altro eccetto per il fatto che sono fascisti3”. È un modo pittoresco di definire i fascisti della porta accanto, ma è anche uno degli indizi che chiariscono il fatto che Watchmen è un’opera-mondo (Moretti 1994) in cui viene narrato un ambiente coerente e credibile. Quando Bradford W. Wright ha asserito che Watchmen è un fumetto in cui si rappresenta “cosa sarebbero i supereroi se davvero esistessero” (Wright 2001, pag. 271, t.d.a.), Kidder (2004) ha puntualizzato, non a torto, che Watchmen piuttosto delinea “come sarebbe il mondo se i supereroi davvero esistessero”. In sostanza, si chiede Moore, se nella realtà – o in un mondo realisticamente progettato, narrato e rappresentato – nascesse in alcuni individui l’impeto irrefrenabile di diventare vigilanti in costume, agendo al di fuori della legge anche se con l’intento di coadiuvarla, e se la società permettesse la loro esistenza e le loro azioni sic et simpliciter, quello che mondo sarebbe? La risposta che Moore si dà e dà ai lettori è: un mondo decisamente orientato a destra – ciò che si può facilmente constatare nella lettura dell’opera. Ma Moore fra le righe fornisce una risposta ben più fastidiosa per il lettore, in particolare per quello statunitense: egli afferma che questo mondo sarebbe orientato a destra poiché gli Stati Uniti (e, aggiunge Moore puntutamente, la Gran Bretagna) sono per lo più destrorsi, e i supereroi sono un prodotto culturale statunitense/anglosassone. Il sillogismo è crudele e tagliente nella sua elementarità, e in buona parte veritiero, che lo si voglia o meno attribuire a Moore. Il quale peraltro in varie pagine del libro mette in scena una serie di pubblicazioni, immaginate ad hoc, che pongono in evidenza l’orientamento ideologico su cui si vuole focalizzare l’attenzione. Si tratta dei fumetti violenti e macabri di argomento piratesco letti da un bambino che in varie sequenze staziona nei pressi di un’edicola, e della rivista politica The New Frontiersman, non a caso acquistata dal vigilante Rorschach, che insieme al Comico rappresenta l’estrema right wing dei Watchmen.
A questo punto, se è vero che i supereroi rispecchiano un’ideologia, e poiché essi sono nati negli Usa, occorre provare a domandarsi non solo perché i supereroi siano nati proprio in quel paese, ma anche quale tipo di ideologia, inevitabilmente americana, alberghi nel concetto di “supereroe”. 
Per Robert Emmons (2005, t.d.a.), ad esempio, esso è “una creazione di scienza, tecnologia, psicologia, rivoluzione, sessualità, valori, credenze e così via, dunque cos’è il supereroe se non un’immagine della nostra [statunitense] psiche collettiva?”. Emmons e altri autori cercano di spiegare o almeno di descrivere l’esistenza della narrativa supereroica nel contesto americano, ponendola in comunicazione con le origini mitiche, e le continue riscritture di tali miti, che caratterizzano la narrativa popolare, partendo spesso e volentieri dal classico studio di Joseph Campbell (1991) sulle versioni mitiche dell’Eroe. Il rifarsi a Campbell e l’applicare la sua trattazione ai racconti di supereroi è un lavoro interessante e utile per delineare i meccanismi della narrativa popolare e la “morfologia” del mito nella sua migrazione nei mass media contemporanei; tuttavia questo tipo di strategie argomentative non ci paiono cogliere un punto che in realtà era stato afferrato, in Italia, già da Roberto Giammanco nel 1964. 
La filosofia della storia che anima lo spirito della nazione americana, come noto fin dalle analisi più classiche (cfr. Tocqueville 1835), è quella di un popolo che si ritiene obbligato a farsi guida del mondo. La teleologia su cui si fonda il ruolo che l’America s’è autoassegnato è poi giocata su una struttura binaria: noi/loro, bene/male, molto di più di quanto non sia per la civiltà europea. Inoltre, la società americana e la sua politica sono dominate, a un livello molto profondo, dalla paura dell’altro e dell’alterità, e ciò è in evidente paradosso con la realtà dell’America, terra di contraddizioni e di estrema varietà etnica e culturale. Infine, la presunta universalità dei valori della nazione americana – sanciti da documenti che per gli statunitensi sono ammantati di sacro, quali la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione – e l’aura mitica di cui sono oggi rivestiti i primi Padri Pellegrini che partirono dall’Europa per raggiungere un nuovo mondo, hanno assunto un valore che correttamente Giammanco definisce metastorico. Non è difficile collegare quanto scritto sopra con i supereroi e l’ideologia alla loro base. 

L’amore per la bandiera vige pienamente per molti supereroi, i quali la difendono muovendosi su un livello che non tiene conto delle leggi internazionali: questo tipo di azione è spesso giustificata, nell’economia delle storie, dall’arruolamento dell’eroe o in servizi segreti ipertecnologici o nei consueti “supergruppi”, che non di rado sono sostenuti a livello governativo, rafforzando così l’immagine di un sistema politico e di difesa che, nel salvaguardare il proprio territorio e il proprio ordine sociale, non esita a mettere all’opera soggetti tecnicamente entro la legge, ma moralmente ambigui. E, com’è evidente in Watchmen, tale rappresentazione idealizzata del supereroe “filogovernativo” si trasforma nella sua brutta e realistica copia, cioè nel Comico, un ex vigilante privo di coscienza, violento, un pluriomicida e stupratore che svolge operazioni militari “sporche” per il governo.
Jeffrey Lang e Patrick Trimble (1988) interpretano il supereroe come rappresentativo del carattere nazionale americano. Vedono gli elementi “super” degli eroi in costume come allegoria del fatto che all’alba del XX secolo gli Usa stavano diventando una superpotenza, caratterizzata dalla giovinezza, dal vigore, sostenuta (per lo più) da saldi principi morali, dalla supremazia tecnologica ed economica, da un sistema sociale teoricamente in grado di fornire a tutti adeguate opportunità per portare a compimento i propri progetti di autorealizzazione. Si tratta di una lettura gioiosa ma incompleta. Uno sguardo più critico potrebbe facilmente integrare il quadro con alcuni elementi della psicologia del supereroe o, meglio, di quella del suo lettore-tipo, che anche in questo caso, come già rilevato a proposito delle aporie fra gli ideali statunitensi e la loro messa in pratica, si ritrova vittima di una colossale contraddizione esistenziale circa la sua ricerca del raggiungimento dell’American Dream.
La narrativa supereroica potrebbe allora fungere da sostegno, almeno in piccola parte, a certe frustrazioni dell’americano contemporaneo (o quantomeno di chi ancora legge i supereroi), come rilevato già molti anni fa da Arthur Asa Berger (1973). “Viene da pensare che le esigenze che avevano motivato la nascita dei supereroi non siano ancora tramontate. Se anche, col tempo, la dipendenza dell’uomo dalla macchina è stata ridimensionata (ma non eliminata), tuttavia altre forme di schiavitù, più o meno evidenti, si sono fatte strada nella società. In un mondo dove ogni individuo è almeno un po’ consapevole del suo status, caratterizzato dalla mancanza di autonomia e dall’assorbimento in una società caotica e nei suoi ritmi e valori sempre più mutevoli, l’essere superiore che da questa mediocrità si innalza è un mito destinato a durare” (Semprini 2006, Cap. IV). Sembra di leggere fra le inquietudini di Dan Dreiberg, il Gufo Notturno, l’ex vigilante che in Watchmen ha messo su pancia, si è rintanato nella sua sola identità civile di uomo di mezza età, solo e frustrato, ma che ancora sogna di poter condurre una vita meno monotona.
I processi che hanno portato alla diffusione dei comic book supereroici sono di certo più vari e complessi di quelli qui trattati, e non è possibile esaurirli in questa sede. Sarà però il caso di chiudere questo tema con una nota positiva, forse un po’ naïve – nel senso affettuoso del termine – ma che rivela lo spirito con cui molti statunitensi guardano a questo prodotto culturale che è loro peculiare. Il brano citato, peraltro, non solo esprime una testimonianza su come molti lettori e critici americani interpretano il rinnovamento del genere supereroico avvenuto negli ultimi anni, ma appare come una reazione di entusiasmo e rinnovata fiducia verso il futuro rispetto alle crisi in corso in quel paese, in tal senso sottolineando una volta di più la fede negli ideali nazionali:

L’America avrà i suoi nuovi supereroi perché noi non rallenteremo, non ci fermeremo, pretenderemo il progresso, il nuovo. Reagiremo al passato e prediremo il futuro. I nostri ideali, la nostra intelligenza e la nostra cultura culleranno i supereroi a cui aspireremo. […] Il nostro supereroe del XXI secolo è un prodotto di autoanalisi e i supereroi del prossimo secolo di certo saranno pregni del mistero e delle meraviglie che danno vita all’America stessa, come nazione e come spirito collettivo. (Emmons 2005, t.d.a.)

Vi sono ora alcuni argomenti conclusivi da considerare, e che come gli altri già affrontati sono rintracciabili in Watchmen secondo il taglio di Moore, che scarnifica la teoria dell’azione del supereroe canonico rivelando le sue forzature ideologiche. Il primo punto è l’evidente collegamento, vero o presunto, fra il supereroismo nei fumetti e un ventaglio di concetti filosofici spesso attribuiti al supereroe, e che fanno capo all’idea nietzhiana di Übermensch. Vari studiosi e critici cimentatisi o nell’analisi del supereroe in generale, o nella trattazione specifica di Watchmen, in un punto o nell’altro dei loro contributi – spesso e volentieri nella parte iniziale – si sono richiamati a una familiarità ideologica e comportamentale fra il cosiddetto “superuomo” di Friedrich Nietzsche e il supereroe. In effetti, Alan Moore in Watchmen si riferisce esplicitamente a Nietzsche, ma il suo richiamarlo è da vedersi come il tentativo di chiarire l’ambiguità di questo diffuso accostamento fra supereroe e Übermensch, piuttosto che come il desiderio di sovrapporne i concetti.
Altro punto su cui porre brevemente l’attenzione è il modo in cui Moore esemplifica le fantasie di potenza, l’autoassegnazione di una missione che nessuno ha richiesto, la personalità narcisistica, il feticismo e altre “patologie” insite nel supereroe. I suoi bersagli preferiti sono Rorschach, paranoico ricalcato sui personaggi The Question e Mister A (di Steve Ditko) e su certe ossessioni di Batman, e Gufo Notturno, mélange fra le insicurezze di Clark Kent e le mediocrità dell’uomo medio, individuo incapace di fare sesso come una persona normale ma bisognoso di indossare il costume da vigilante o di trovarsi in prossimità dei suoi paraphernalia. Moore, attraverso gli altri personaggi, delinea anche ulteriori cliché negativi del supereroe, come la megalomania di Ozymandias, il distaccato senso di superiorità del Dottor Manhattan, o all’inverso i complessi d’inferiorità e gli imbarazzi di Silk Spectre per il suo costume discinto. Molti di questi cliché, peraltro, riconducono a un topos centrale della raffigurazione supereroica, quella del corpo quale macchina armoniosa e perfetta – come quello di Ozymandias, che rappresenta il modello a cui aspirare – ma che è invece un elemento carente in Rorschach, mingherlino e sporco, e in Silk Spectre e Gufo Notturno, inesorabilmente appesantiti dagli anni. Resta il fatto che Moore, attraverso il corpo e i suoi difetti, sottolinea la natura “fallica” di un fisico perfetto, la sua simbolizzazione in dimostrazione della potenza e supremazia del supereroe (McRae 2001).
Infine Moore, nell’epilogo di Watchmen, canzona la tradizione del supereroe mettendo in ridicolo le sue stesse origini, quando inscena un dialogo ironico fra Dan Dreiberg (Gufo Notturno) e Laurie Juspeczyk (Silk Spectre). Quest’ultima, discutendo sulla possibilità che i due riprendano l’attività di vigilanti, manifesta il desiderio per un nuovo costume, stavolta di cuoio e che la copra e protegga, per una maschera e anche per una pistola (Moore – Gibbons 1986-’87, pag. 30). In sostanza, il look iniziale di Batman, che come noto nelle storie degli esordi (dal 1939 alla fine della guerra) aveva un’arma e sparava, a volte uccidendo. Moore sembra cioè avvolgere il mito del supereroe su sé stesso, mostrando che quello che potrebbe sembrare un nuovo inizio e un ammodernamento del genere è in realtà un ritorno alle origini e a un’ideologia autoritaria perfino più retriva.




:: letture ::

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Brancato, S., Fumetti. Guida ai comics nel sistema dei media, Roma, Datanews, 1994.

Brolli, D. (a cura di), Il crepuscolo degli eroi, Bologna, Telemaco,1992.

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Mongai, M., Chi ha paura di Lucy Van Pelt, ovvero Psicoanalisi e fumetti, Roma, Edizioni Psicoanalisi Contro, 1983.

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Moretti, F., Opere mondo, Einaudi, Torino, 1994 (II ed. 2003).

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:: note ::


1.
 Il Tarzan a fumetti (1929, Harold Foster) derivava dall’eroe letterario di Edgar R. Burroughs (Tarzan of the Apes, 1912). Buck Rogers (1929, Philip Nowlan – Dick Calkins), Brick Bradford (1933, William Ritt – Clarence Gray) e Flash Gordon (1934, Alex Raymond) derivavano, direttamente o per ispirazione tematica, dalla space opera letteraria degli anni Venti.

2. Fanno eccezione pochi autori, fra cui Peter David, Kurt Busiek, Joseph Michael Straczynski, Chris Claremont, Brian M. Bendis.

3. La frase di Moore è riferita nell’intervista concessa in Kavanagh 2000; trad. it. Smoky Man 2000.