Ogni città, come Laudomia,
ha al suo fianco un’altra città
i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è
la Laudomia dei morti, il cimitero […] E per
sentirsi sicura la Laudomia viva ha bisogno di cercare nella
Laudomia dei morti la spiegazione di se stessa, anche
a rischio di trovarvi di più o di meno…
Italo Calvino, Le
città invisibili
Tra i molti e contrapposti simboli che caratterizzano la
postmodernità, la simulazione forse non è il
più manifesto, ma
sicuramente è quello che è penetrato in modo
più stabile e pervasivo
nella vita quotidiana, che ne ha mutato le grammatiche e, soprattutto,
continua a modificarle a grande velocità contribuendo a
realizzare
l’esperienza umana come quella condizione definita da
possibilità
impensabili anche in tempi recenti, e che richiede per poter essere
definita l’accostamento di aggettivi specificativi in grado
di
testimoniarne la complessità: è per questo che si
parla di esperienza aumentata o anche moltiplicata,
vale a dire un’esperienza tecnologicamente modificata i cui
processi e fenomeni sono oramai riconosciuti come cultura
della simulazione
(Pecchinenda, 2003). Tuttavia, benché la simulazione faccia
parte in
larga misura della nostra quotidianità - che si tratti di un
prelievo
ad uno sportello bancomat, di un acquisto di biglietti on line o
dell’uso di un navigatore satellitare –
l’evocazione e, ancora di più,
l’analisi del termine richiama molte critiche e non poche
perplessità
che si dispongono secondo due polarità distinte: la prima di
ordine
cognitivo-percettivo, la seconda di ordine culturale. Se si considera
la simulazione in una prospettiva cognitivo-percettiva risulta evidente
la necessità di riconsiderare la relazione
dell’uomo con il proprio
ambiente circostante conseguentemente ad una trasformazione
dell’esperienza che esige di ripensare gli abituali schemi
d’azione e
di percezione. Le difficoltà di attribuire alla simulazione
la stessa
dignità e la stessa efficacia dell’esperienza
sorgono per il fatto che
quest’ultima si realizza attraverso la
sensorialità e la corporeità, le
quali sono caratteristiche precluse alla prima. Infatti, la simulazione
utilizza in maniera molto limitata elementi necessari
all’esperienza
come il corpo e i cinque sensi, ai quali è doveroso
aggiungere il senso
del movimento (Berthoz, 1997). Tale “sesto senso”
esplicita il legame
tra la possibilità dell’azione, intesa come
unità di misura
dell’esperienza, e la percezione dinamica dello spazio in cui
si
compie, e questo legame è il risultato
dell’immersione del corpo nel
mondo, poiché l’individuo, seguendo la lezione
fenomenologica di
Merleau-Ponty - e prima ancora di Husserl - è un
essere-al-mondo.
Simulare, attraverso l’ineliminabile mediazione di uno
schermo,
privilegia l’asse sensomotorio occhio-mano, che ha il
rischioso effetto
di intorpidire gli altri sensi, di annullare il corpo, trasformando
l’esperienza in un simulacro di se stessa, esperienza
di secondo
ordine, portatrice di effetti dannosi o devianti1.
Se, invece, si considera la simulazione da un punto di vista
culturale, le obiezioni sorgono quando si considera il contenuto di
tale attività. Infatti, il prevalere, nell’epoca
postmoderna, della
simulazione sulla realtà è direttamente connesso
al prevalere del gioco
sulla serietà2 e, per questo stesso motivo, la simulazione
è recepita a
diversi livelli, non esclusi quelli “scientifici”,
come attività di
tipo minore associata allo svago e al gioco e i cui effetti rispetto a
quelli dell’esperienza reale – seria - sono
inutili, ingannevoli o
decisamente nocivi. Eppure molti sono oramai i campi di
applicazione in cui la
simulazione si è affermata come un elemento convertitore,
attivatore e
moltiplicatore di esperienza: dai simulatori di volo alla medical
imaging, dall’e-learnig all’information
visualization, dai laboratori
scientifici ai musei e ai videogiochi. È fuori discussione
che la
mediazione tecnologica di uno schermo non possa riprodurre
un’esperienza identica a quella reale, ma questo non
significa che non
ne produca affatto. Se l’esperienza è il risultato
delle azioni di un
soggetto, anzi, di un corpo che insieme ad altri corpi abita il mondo,
è evidente come tale abitare non sia immutabile,
bensì si trasformi
sulla base di un processo evolutivo che produce una modificazione
dell’esperienza. Come osserva Anne Sauvageot, in tale
processo gli
schemi percettivi sono destabilizzati e riconvertiti in modo da fare
emergere nuovi rapporti con il corpo, con lo spazio e con il tempo
(Sauvageot, 2003, pp. 159-178). Così, la guida di
un’autovettura, l’uso
del telefono – in particolare il cellulare – la
fruizione della
televisione, l’accesso al computer e, attraverso lo schermo,
anche
l’utilizzo della simulazione hanno permesso
all’uomo contemporaneo di
realizzare esperienze (un tempo impossibili) che hanno ridefinito in
maniera continua l’organizzazione delle nostre percezioni e
dei nostri
sensi. Tuttavia, questa cauta apertura di credito nei confronti della
simulazione è fortemente sbilanciata verso gli aspetti e le
applicazioni cognitivi: vale a dire che la simulazione è
legittima,
giustificata, corretta, buona quando è
uno strumento al
servizio dei risultati della conoscenza e dello sviluppo scientifico.
Una legittimità che si risolve nel proprio contrario quando
la
simulazione diventa lo strumento per produrre un tipo particolare di
esperienza, quello legato alle emozioni. Inconciliabile con la sfera
emotiva, la simulazione non è più sottoposta al
vaglio di categorie
conoscitive - il Vero - bensì a quello di categorie etiche
– il Giusto.
Ne deriva che la simulazione si trasforma in una forma di esperienza
illegittima di cui vengono messi in evidenza gli aspetti negativi: dal
momento che l’emozione è qualcosa di diretto, di
impossibile a
sottoporre a mediazione, essenzialmente qualcosa di buono, qualsiasi
azione che non risponda a queste condizioni risulta artificiale o
perniciosa, o peggio, prodotta sotto il segno dell’inganno
volontario,
quindi pericolosa. In un solo caso questa
negatività viene in parte riabilitata, ed è
quello del gioco, al quale la simulazione è spesso
assimilata, ma anche
qui solo a certe condizioni. Infatti, come dimenticare che nella sua
forma tecnologica più emblematica – il videogioco
– l’unione di gioco e
simulazione è spesso causa, secondo alcuni studi3, di
disturbi del
comportamento o di atteggiamenti asociali?
Tralasciando però questi eccessi, vale la pena di
sottolineare la
stretta relazione tra la cultura della simulazione e la dimensione
ludica, riferita in particolare alle tecnologie informatiche. Infatti,
attraverso lo schermo (di un videogioco, ma soprattutto di un
computer), si possono compiere azioni virtuali i
cui effetti
materiali, cognitivi o affettivi sono estesi alla realtà. La
virtualità
che si esperisce attraverso questo processo consiste in una distanza
dalla realtà che non ne implica la separazione, ma piuttosto
un
equilibrio paradossale. Nella fenomenologia della simulazione
l’azione,
che pur astrae dalle coordinate spazio-temporali della
realtà, non si
tramuta in irrealtà, ma, invece, diventa
deterritorializzata, capace
di generare molteplici manifestazioni concrete, senza attivare un
legame univoco con la realtà. Ciò implica una
distanza che non recide
tale legame, bensì lo riattiva e lo moltiplica. In maniera
del tutto
analoga, anche il gioco attiva la medesima struttura, infatti, anche il
gioco è una distanza paradossale dalla realtà, la
quale però si afferma
come realtà del giocare, poiché ciò
che è importante non è la sua
apparenza, ma la sua distanza, vale a dire “una
realtà con la quale
riusciamo a tenere una distanza dalla realtà: un gioco
appunto rispetto
alla realtà comune, un allargamento e uno spazio che il
gioco ci fa
guadagnare rispetto ad essa” (Dal Lago, Rovatti, 1993, p.17). La
simulazione, quindi, considerata nei suoi diversi gradi e nelle sue
diverse forme, è essenzialmente
un gioco e diventa una forma privilegiata d’azione in cui la
possibilità di agire oltre le restrizioni che la
realtà fisica impone
costituisce uno spazio non solo dell’esperienza ma anche
dell’emozione
in cui regole ritenute immutabili sono ridiscusse e rinegoziate. Soffermiamoci
allora sull’emozione, in particolare, su una forma
specifica di emozione – il dolore – applicata ad un
contesto definito:
la morte, il lutto, e i rituali ad essi connessi. Può la
simulazione
essere presa in considerazione come strumento non solo adeguato, ma
soprattutto giusto, legittimo per produrre
un’esperienza
significativa nei confronti della morte, del dolore che essa produce e
della necessità di elaborarne un vissuto attraverso rituali?
La
presenza sul Web di siti dedicati all’elaborazione virtuale
del
dolore causato dalla morte indica che si tratta di una procedura
praticata. Molte sono infatti le pagine che affrontano la morte da
prospettive diverse o che, come i cimiteri virtuali, producono
simulazioni dei rituali funebri. Ma come si originano e come si giustificano
queste simulazioni che producono esperienze a forte contenuto emotivo?
Quali sono le condizioni che hanno prodotto queste forme moltiplicate
di esperienza? L’improrogabile esigenza di ricerca
di senso rivendicata dall’uomo
postmoderno e caratterizzata dal prevalere della sensibilità,
e della
sfera personale su altri ambiti dell’esistenza umana,
è la chiave di
lettura del processo di risacralizzazione contemporaneo che coinvolge
anche i rituali funebri. Si tratta di un processo, come già
aveva visto
Thomas Luckmann (1969), che rimodella il sacro in forma moderna secondo
la costruzione personale del proprio sistema di significanza ultima, i
cui temi emergono principalmente dalla “sfera
privata”. Anche la
risacralizzazione dei rituali funebri quindi accede a campi insoliti,
normalmente considerati poco solenni e poco istituzionalizzati, che
privilegiano l’impatto emotivo e il coinvolgimento personale.
In
particolare, il Web si rivela essere un campo fertile in cui possono
esprimersi nuove forme di ritualità, personalizzate non
soltanto per
cogliere al meglio l’individualità del defunto, ma
anche per
sottolineare l’intimità e la condivisione emotiva
che lega i
partecipanti. Non si tratta più di cerimonie standardizzate
e
tradizionali, ma di celebrazioni pubbliche - accessibili a chiunque -
di un’esperienza privata, come è ormai quella
della morte e del lutto,
che si realizza tramite pratiche e gesti privati, ma al tempo stesso
condivisibili con altri, che coinvolgono un singolo individuo e i suoi
congiunti. Sono, evidentemente, celebrazioni che assumono forme nuove
ancora tutte da definire, come ad esempio i cimiteri virtuali. Ma
l’aspetto interessante di queste forme inedite di simulazione
consiste
nel fatto che la possibilità di queste nuove forme di
rituali funebri e
l’uso degli strumenti tecnologici dei quali si servono sono
strettamente legati ad una delle modalità fondamentali della
ri-sacralizzazione: il gioco. Da sempre il gioco ha
mostrato
legami forti con la morte e con il sacro (quest’ultimo si
rende
accessibile grazie ad una liturgia realizzata sul piano ludico). Gioco
e sacro, infatti, uniti nel compito di esplorazione del senso nascosto
delle cose, trovano il proprio punto di equilibrio nella
regolarità
dell’azione rituale. Tuttavia, è nella
postmodernità che il gioco si
consolida come visione dominante di ogni ambito
dell’esperienza umana,
inclusa la morte e i rituali, diventando un emblema della
contemporaneità. Tale aspetto risulta evidente nelle nuove
forme di
ritualità che si producono grazie alle
potenzialità tecnologiche dei
nuovi media, di cui i cimiteri virtuali rappresentano
l’aspetto più
curioso e insolito, ma anche più rappresentativo. Nella
società
contemporanea, tecnologicamente avanzata, la morte rimane un
tabù e
l’uomo si trova di fronte ad essa in una condizione di
smarrimento, ma
anche di nuove possibilità: può affrontarla o
rimuoverla, oppure può giocarla.
In altri termini, l’uomo può instaurare con la
morte una relazione che
è contemporaneamente di coinvolgimento emotivo e di
necessaria
distanza, di simulazione per costruire uno spazio
da cui guardarla
in posizione protetta e privilegiata, proprio attraverso il gioco. Il
quale, libero da allusioni riduttive, mostra attraverso la sua
complessità e la sua serietà, la
capacità di esprimere i desideri e i
bisogni primari dell’uomo, non ultimi quelli di condivisione
e di
solidarietà. Solo partendo dalla disposizione ludica
è possibile
comprendere la ri-sacralizzazione dei rituali funebri che accompagnano
la morte, espressa nelle diverse manifestazioni che coinvolgono le
tecnologie informatiche. Se, da un lato, ciò che rimane
costante è il
fatto che i rituali traducono “ad un tempo, il disadattamento
degli
individui alla morte e il processo sociale di adattamento che permette
ai sopravvissuti di curare le loro piaghe” (Thomas,
1994, pp. 407-408,
trad. ns.). Dall’altro, invece, si
osservano livelli diversi di coinvolgimento. Il livello
emotivo,
in cui una nuova sensibilità estetica apre il varco alla
sensibilità
organica nella vita sociale tramite un edonismo quotidiano che agisce
“in tanto che cultura dei sentimenti” (Maffesoli,
1990; 2004),
affermazione di quell‘hic et nunc postmoderno che
è fondatore
del sistema di orientamento secondo le coordinate
dell’immediatezza e
dell’esaltazione delle emozioni. Il livello spaziale,
dove le
riconfigurazioni del paesaggio sociale si declinano secondo la
ri-destinazione e la moltiplicazione degli spazi fisici definendo uno
spazio aumentato che trasforma la realtà
e invade anche la virtualità, cosa che implica una
necessaria ricerca di nuove forme di dire e vivere
la morte capaci di accordarsi alle trasformazioni in atto. Il livello
della personalizzazione,
tale per cui il superamento del valore moderno
dell’individualismo ha
prodotto nuove forme di comunitarismo, di annullamento
dell’individuo
nella folla (Maffesoli, 1990), ma contemporaneamente ha riscritto in
prospettiva postmoderna il concetto stesso di individuo, sottolineando
l’unicità dei percorsi autoriflessivi di
formazione del sé. Infatti, la
possibilità di inclusioni molteplici e transitorie in
tribù diverse
implica sia la pluralità di ruoli contro
l’unicità della funzione sia
la possibilità/inevitabilità di scelta riguardo
l’assunzione di tali
ruoli. In questa prospettiva, ricorda Gilles
Lipovetsky (1983, pp. 7-18 e 21), la vita è in ogni suo
ambito existence à la carte.
Ciò vale anche per i rituali funebri, e se la ricerca di una
vita su misura risponde ad una logica del loisir,
vale a dire del gioco come schema d’azione, anche i rituali
funebri
obbediscono a tale logica. Ecco che allora riprende il dialogo
interrotto con il sacro e, in particolare, con la ritualità,
attraverso
giochi - i riti – che spesso si configurano come
riappropriazione del
sacro, della morte e, soprattutto, come ricostruzione dei
rituali.
Uno degli spazi in cui si compie la riappropriazione
dell’esperienza
del dolore attraverso forme rituali nuove che si avvalgono della
simulazione, della mediazione di uno schermo è il Web. Si
tratta di uno
spazio anomico (Durkheim, 1971, 1969; Guyau,
1985), aperto e costruttivo, risultato della completezza con cui
l’oggetto morte
è presente nel Web e capace di incidere sul tabù
della morte. In questo
caso, infatti, i meccanismi di rimozione, vigili nella
realtà,
risultano allentati sia perché la struttura del Web
favorisce i
contatti e le contaminazioni: navigando è possibile
intercettare
l’argomento morte anche in ambiti da esso
molto lontani; sia
perché la condizione ludica, attivata dalle nuove
tecnologie, in virtù
non solo di caratteristiche tecniche ma anche grazie alle disposizioni
psico-percettive che stabilisce, permette di accostarsi
all’argomento
in una zona franca - protetta - in cui la curiosità,
l’interesse, la
paura, l’immedesimazione, e non solo il coinvolgimento
diretto, sono
gli elementi attraverso i quali si costruisce, quasi pedagogicamente,
un discorso completo sulla morte in cui trovano posto le figure
dell’immaginario inconsce, sociali o personali,
l’emotività, vale a
dire il sentire sulla morte, la conoscenza. In
questo modo si costituisce attraverso lo schermo un vero e proprio spazio
della protezione,
un luogo protetto dove l’esercizio
dell’immaginazione si coniuga con la
simulazione in un processo circolare in cui intervengono sia
l’esperienza sia la conoscenza. In tale situazione
l’irreversibilità
della realtà si trasforma nel proprio contrario, in quella
reversibilità pedagogica che nel caso della morte diventa
condizione
fondamentale per articolare un discorso completo e
considerare la morte nella sua interezza. Condizione primaria
di questa apertura che si realizza nel Web è la costituzione
di uno spazio di prossimità,
cioè uno spazio capace di unire le persone in
virtù di nodi emozionali
comuni4. In altri termini, uno spazio che avvicina e affronta la morte
come un fenomeno complesso. Infatti, grazie a collegamenti ipertestuali
è possibile accedere ad approcci differenti del tema morte
con livelli
di approfondimento multipli. Si possono trovare, in spazi tra loro
contigui e comunicanti, settori esperti che nella cosiddetta
realtà
sono nettamente separati, spesso in modo insormontabile. Si incrociano
così, nello stesso sito, prospettive diverse: la morte vista
dalla
letteratura, dalla pittura, dalle tradizioni popolari o attraverso le
iscrizioni e i monumenti funebri, dalla scienza, dalla sociologia,
l’antropologia, la filosofia, la religione, ecc.;
così come i dibattiti
sull’eutanasia, sulla pena di morte, i focus group,
le mailing list e le chats per
il sostegno al lutto, ma anche gli indirizzi giusti per organizzare i
funerali5. In questo caso la modalità
globale di accesso e di fruizione che il
Web supporta definisce la morte come discorso completo, impossibile da
separare tanto dalla vita sociale quanto da quella privata,
poiché nel
Web la morte, con il suo significato e i suoi rituali, non è
più
rinchiusa – in una segregazione invisibile – in
maniera settoriale in
uno spazio familiare e/o religioso, scientifico, letterario, medico,
oppure specialistico. Inoltre, proprio per la permeabilità
degli spazi
che si realizza nel Web, la morte non interessa più soltanto
le
persone che ne sono toccate in un momento
particolare della
vita, ma appartiene anche alla comunità, che vi partecipa
virtualmente
nella sua totalità, secondo relazioni di
prossimità, di vicinanza, di
inclusione temporanea, ma anche di esperienza intensa e
complessa. A questo riguardo è bene osservare che
nel Web, attraverso la
simulazione, si apre uno spazio per la morte che non si limita al
discorso, al contrario raggiunge anche l’azione, grazie
all’interattività, modalità strutturale
che invita ad agire,
comunicare, costruire relazioni aventi per oggetto qualsiasi argomento,
anche la morte. Un chiaro esempio è dato dalla
capacità di attivare
attraverso il Web azioni di sostegno al lutto e di aiuto in favore dei
congiunti di deceduti. Azioni che si tessono nel Web attraverso una
rete di contatti e di connessioni attivate secondo le abituali
modalità
di accesso e che sono capaci di stabilire legami altrettanto forti di
quelli che si attivano nella realtà, al punto che, in alcuni
casi, tali
legami si estendono anche alla realtà. È
decisamente singolare vedere
che un contesto originariamente ludico, superficiale, come quello della
simulazione giocata attraverso lo schermo, sia essa riferita alla
semplice navigazione, all’uso di strumenti standard (forum,
blog, ect),
o alla ricerca di prodotti specifici (siti specializzati, cimiteri
virtuali), sia in grado non solo di catalizzare le emozioni –
il dolore
della perdita - ma soprattutto di produrre esperienze che, in questo
caso specifico, recuperano il valore del rituale elaborando le emozioni
– una vera e propria elaborazione del lutto. In un campo
così spinoso
come quello della morte la simulazione dimostra come il suo uso possa
essere non solo legittimo, ma anche umanamente significativo.
Spingiamoci oltre. Entriamo in quella forma di simulazione
emotivamente significativa maggiormente capace di attirare le nostre
resistenze perché riproduce, almeno nel nostro immaginario,
un luogo al
quale cerchiamo di applicare, generalmente con successo, una rimozione
totale: il cimitero. I cimiteri virtuali sono forse al momento
l’espressione più compiuta
della trasformazione dei rituali funebri e della memoria dei
defunti
attraverso uno spazio anomico. Infatti, si tratta di uno spazio, un sito,
in cui è possibile commemorare i defunti seguendo rituali
più liberi e
interattivi rispetto a quelli reali. Ci sono alcune analogie con la
realtà: si possono infatti deporre fiori, accendere candele,
lasciare
dediche, naturalmente digitali. Ma ci sono anche molte differenze: si
possono condividere informazioni sui defunti, tramite foto, video,
filmati, ma, soprattutto, si possono condividere emozioni e stati
d’animo con altre persone, amici, familiari, congiunti;
inoltre, i
cimiteri virtuali accolgono i propri ospiti senza limiti di tipo
spazio-temporale, in modo quasi sempre gratuito e senza richiedere
abilità informatiche particolari. Che si tratti di cimiteri
virtuali videogioco,
che riproducono formalmente i cimiteri reali e sono dotati di
animazioni grafiche definite dal movimento e dal contrasto cromatico;
che si tratti, invece, di cimiteri virtuali
ipertesto,
che sostituiscono ai riferimenti iconici della realtà gli
strumenti di
navigazione, i quali permettono di dialogare con la comunità
elettiva
di riferimento; oppure che si tratti di cimiteri virtuali
pagina personale,
vere e proprie forme espressive realizzate da un soggetto portatore di
valori ed emozioni che ricerca una ritualità personalizzata
da
condividere con altri; ognuna di queste forme di simulazione impegna,
sia pur a livelli diversi, l’esperienza della morte e la sua
elaborazione, mostrando caratteristiche ben precise. Lo spazio
anomico di un cimitero virtuale interrompe innanzitutto la
rigidità del calendario rituale, non tanto per ragioni di
principio,
quanto per motivi strutturali. In primo luogo, è da
sottolineare la libertà e la facilità di
accesso al sito senza vincoli di calendario né di orario: il
cimitero
virtuale è sempre aperto.
Questa elasticità comporta una
de-ufficializzazione e una de-istituzionalizzazione delle celebrazioni,
la cui significatività è decisa non da
un’astratta gerarchia
officiante, ma da chi accede materialmente al sito. In
secondo luogo, contrariamente al cimitero reale, non si tratta di
uno spazio separato e specializzato, ma di uno spazio multifunzionale e
integrato alla realtà. Infatti, il cimitero virtuale non
è soltanto il
luogo di celebrazioni, di riproduzione di riti funebri e della memoria,
ma, soprattutto, un punto di scambio di informazioni, di condivisione
del lutto, di comunicazione. In altri termini, uno spazio di
prossimità
tra persone, ma anche di vicinanza alla vita quotidiana,
poiché
l’accesso a questi nuovi strumenti di ritualità
avviene senza la
necessità di spostarsi in un luogo specifico, lontano dai
flussi della
quotidianità. Dal momento che il computer può
trovarsi ormai in
qualsiasi luogo (sia esso di lavoro, familiare o di svago) la
quotidianità pervade anche l’ambiente virtuale e
la simulazione, che di
questa contiguità conserva modi e attitudini. Infine,
altro elemento importante da osservare è la
capacità da
parte degli utenti di trasformare i cimiteri virtuali in vere e proprie
pagine personali con procedure, regole e codici comunicativi propri. In
modo tale che il rito, la memoria, non sono più pratiche
generalizzate
e rigidamente codificate ma, al contrario, costruite e trasformate a
partire dalle necessità e dal sentire dei congiunti con il
concorso
attivo della comunità affettiva che condivide e comunica al
proprio
interno l’esperienza della morte, le emozioni e il dolore che
essa
suscita. In questo modo si definisce lo spazio della simulazione dei
cimiteri virtuali: un’apertura che toglie la
ritualità dalla
segregazione, dalla meccanicità e dalla rimozione della
morte, per
consentirne un’appropriazione emotiva che la familiarizza, la
rende
partecipe del quotidiano. Quindi, lo spazio anomico, che sul Web
è
dedicato alla morte e più in particolare ai cimiteri
virtuali, produce
una ritualità che allontana la morte dalla sfera del
tabù attraverso
una trasformazione continua dei riti funebri in senso lato, i quali si
manifestano come informazioni, scambio di messaggi, immagini,
comunicazioni, condivisioni emotive del lutto: tutte forme plasmate dal
doppio canale della personalizzazione e della condivisione. Vale a dire
che lo spazio della simulazione dei cimiteri virtuali e dei siti
dedicati alla morte non propone un rituale nuovo nelle sue forme, ma
uguale per tutti una volta per tutte e orientato esclusivamente alla
trascendenza. Tale spazio, invece, apre uno spazio da fare
in cui prende forma un rituale on demand
da scegliere ed adeguare volta per volta alle esigenze, alle
condizioni, alle sensibilità in continua trasformazione, in
cui si
trova immerso l’uomo postmoderno orientato
all’immanenza. Questi
principi, queste esigenze, questi desideri relativi
all’esigenza di
personalizzare attraverso i rituali un momento emotivamente
fondamentale come la morte sono racchiusi in una sorta di manifesto che
si può leggere idealmente nelle pagine del primo cimitero
virtuale
realizzato sul Web, il 28 aprile 1995, dal canadese Michael Kibbee, il
World Wide Cemetery6. Quando l’ingegnere Michael Kibbee decide
di
costruire un cimitero virtuale è convinto di realizzare uno
strumento
capace di sostenere il lutto, di comunicare e scambiare dolore e
conforto con il maggior numero di persone possibile. Un
punto sul quale Mike insiste è l’importanza della
comunicazione
per l’uomo; infatti, il desiderio di comunicare la perdita
dei propri
cari, è al tempo stesso forte e naturale ed esso viene sempre
soddisfatto attraverso i media, siano essi stampa, radio o televisione7.
Ed è proprio nell’interazione tra lutto e media
che si inseriscono le
straordinarie capacità di simulazione attraverso il Web che,
proprio in
ragione di tali caratteristiche è, secondo Kibbee, il luogo
ideale dove
annunciare la perdita dei propri cari e dove potere dedicare monumenti
alla loro memoria. Monumenti che, a differenza di quelli reali, non si
deterioreranno con il passare del tempo e potranno essere visitati
facilmente da chiunque in qualsiasi parte del mondo. È
evidente che nel disegno di Mike Kibbee la comunicazione
stabilisce una comunione di persone che condividono stati
d’animo ed
esperienze (i congiunti) e, nello stesso tempo offre informazioni sul
defunto. Le iscrizioni tombali o gli annunci stampati non possono in
alcun modo competere con la possibilità di comunicazione e
di
condivisione posseduta dal World Wide Cemetery,
dove ogni monumento può includere fotografie, filmati,
documenti sonori del defunto. Nel progetto di Kibbee, il punto
centrale è costituito dal legame
tra tecnologia, sfera emotiva e relazione sociale, poiché
grazie al
cimitero virtuale o attraverso il suo uso si possono costruire ipertesti
familiari,
i quali offrono la possibilità di costruire
identità condivise
attraverso una costellazione di frammenti, di esperienze personali
veicolate dal Web. Ciò rientra in un orizzonte di socialità
elettiva,
vale a dire una appartenenza alla collettività attraverso
continue
scelte di inclusione all’interno di gruppi emotivamente
significativi,
sia in forma transitoria che duratura. Un’appartenenza
che è indice
della postmodernità. Nell’enunciare i
principi ispiratori del World Wide Cemetery
Kibbee non descrive soltanto il suo progetto, ma rivela in questo modo
anche il suo testamento etico. Infatti, nella frase conclusiva del
testo egli dichiara che il suo cimitero è aperto alle
persone di
qualsiasi fede religiosa e che esso permetterà di
condividere le vite
dei propri cari con persone di tutto il mondo8. Un’affermazione che non
lascia dubbi: il cimitero virtuale è virtualmente aperto a
tutti e ha
come fine quello di unire persone di tutto e da tutto il mondo per
condividere un particolare momento della vita, definito dalla perdita e
dal lutto. Il cimitero virtuale, quindi, non
è solo un superficiale gioco di
simulazione, destinato a ristrette conventicole di adepti,
bensì il
tramite per condividere una condizione universale: la morte; a cui si
aggiunge la speranza che la sua frequentazione costituirà
non soltanto
una consolazione, personale e intima, per i congiunti, ma anche la
scoperta della diversità, dell’unicità
e delle qualità dei suoi ospiti.
Una ulteriore apertura alla complessità delle vite e delle
identità, un
esplicito invito alla tolleranza e alla compassione,
mediati dallo strumento insolito, eppure particolarmente efficace della
simulazione.
:: note ::
1. Per una trattazione più ampia sul
significato culturale dello
schermo, delle sue funzioni e dei suoi effetti rimando a Gamba, 2004. Sugli effetti negativi dello schermo si vedano a puro titolo di esempio
Baudrillard, 1997; Id,
www.watsoninstitute.org/infopeace/vj2k/baudrillard.cfm; Virilio, 1994.
2. I temi della prevalenza della
simulazione sulla realtà, del gioco
sulla serietà, della superficie sulla profondità,
intesi come cifre
della postmodernità sono stati trattati da Jameson, 1989.
3. A questo riguardo è
d’obbligo ricordare che altri studi,
altrettanto autorevoli, sostengono e dimostrano l’esatto
contrario: non
solo l’innocuità ma gli effetti benefici dei
videogiochi.
4. Il termine per indicare tale legame
è stato reso con il neologismo reliance,
intraducibile in italiano, da Marcel Bolle de Bal (cfr. M. Bolle de Bal, 1996).
5. Un esempio di tale molteplicità di
prospettive si trova nel sito
italiano http://www.thanatos.it/portale/thanatos_portale.htm.
6. www.cemetery.org
7. “...the desire to communicate our
loss is both natural and strong. We use the media - all forms of print, as well as radio and
television - to notify others of a loved one’s
passing.”
(www.cemetery.org/about.html).
8. “The World Wide Cemetery is open to
people of all religious faiths, and will allow as all to share the lives of our loved ones with people
the world over.” (www.cemetery.org/about.html).
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