Le cose della vita è
l’ultimo libro di Luis Chiozza1, le cose della vita sono
nell’ultimo libro di Chiozza, gli oggetti di ogni Uomo
– occhiali, chiavi, portafogli… - sono poggiati
sul tavolo come nel bel disegno (della figlia Silvana) in copertina. Sono
lì e possiamo guardarli, frequentarli in senso hillmaniano,
senza finalismi, e frequentandoli, parlandone, smettono naturalmente
di starci sopra e cominciano a camminarci accanto. Questo
sguardo laico e mai supponente è alla fine la vera cifra di
Chiozza, è tono termico, è il motivo del nostro aderirgli. Immagino
infatti che, anche se Chiozza collega idealmente questo libro
soprattutto a Corpo, affetto e linguaggio, il suo
primo pubblicato in Italia (nel 1981), per un insieme di motivi i
lettori italiani avrebbero potuto erroneamente collegarlo soprattutto a
Perché ci ammaliamo?, del 1989. Avrebbero
potuto intenderlo nel senso del “se è per questo
che ci ammaliamo, ecco come (fare per) non ammalarci”, le
cose della vita nel senso di “come muovercisi in
mezzo”, nel senso de “la vita - istruzioni per
l’uso”. Invece Chiozza è troppo
laico per qualunque forma di finalistica prescrittività, sia
sottesa come nelle assegnazioni di senso che informano il capolavoro di
George Perec, La vita istruzioni per l’uso2,
sia esplicita come nei tanti “manuali” alla Jackson
Brown. Lo dice lui stesso che non è
possibile costruire un sistema per raggiungere “la
pienezza” della vita. Non esiste un “manuale di
istruzioni” o una mappa che ci segnali il cammino per vivere
la vita. Chiozza è troppo laico dunque
per scrivere una qualunque istruzione per l’uso: le cose
della vita sono solo (solo? grandiosamente direi) una
“descrizione del prodotto” (vita), il racconto
delle cose, laicamente assunto dai tanti punti di vista sulle cose, le
tante diverse parole parlate su quelle cose. Gli oggetti, poggiati sul
tavolo, vengono guardati e viene registrato tutto quello che ci
suggerisce il guardarli, tutto quello che ci suggeriscono: riflessioni,
evocazioni, rimandi etimologici, antropologici… L’impressione
è che voglia produrre nel lettore risuonamenti e voglia
invitare il lettore a registrarseli, con la terapeuticità
tutta implicita nell’approfondimento dello sguardo e
nell’ “allargamento” della
consapevolezza, nel ritrovarsi alla fine comunque meno banali,
auspicabilmente mai più
“banali”. Gli oggetti sul tavolo
li riconosciamo perché sono i nostri, gli oggetti di ognuno,
poggiati su ogni tavolo di ogni casa: sono gli oggetti che ogni
soggetto “incontra” (auspicabilmente) nella propria
espansione nel mondo, ma il più delle volte si tratta di
impatti disarmonici, interdizioni, una sorta di “inciamparci
su”. Sono quelle aree argomentative, tra biologia,
antropologia, cultura, che più probabilmente possono
incubare i nostri nuclei conflittuali. Si tratta di quei luoghi in cui
è più complessa e delicata la sintesi tra le
ragioni dell’individuo e quelle dell’Altro, le
negoziazioni e i contratti tra noi stessi e noi stessi, tra noi e
l’Altro, le convenzioni, il Mondo e il futuro, la
focalizzazione dei Costi, delle Forze Contrattative, delle strategie
esistenziali. Gli oggetti li riconosciamo perché
sono veramente, “tecnicamente”, quelli di ognuno,
nel senso che Chiozza ha filtrato nella sua esperienza professionale i
suoi tanti pazienti, gli oggetti della loro vita e questo “ci
restituisce”. Accolti, letti, filtrati (i soggetti e gli
oggetti) dal suo pensiero integrato e restituiti con la sua narrazione
(il suo linguaggio) integrati, con quell’Approccio che
è la sua cifra di grande clinico. Siccome “le
parole per dirlo” cambiano nel tempo e da soggetto a
soggetto, l’ascolto psicologico, per intercettarle con
proprietà, deve possedere gli alfabeti del mondo, del
proprio Tempo Sociale: deve essere un ascolto largo (…
non indipendente dal contesto e dal significato peculiare del rapporto
tra individui, gruppi organizzati, modelli culturali e contesto).
Inoltre, deve essere un ascolto denso di sottesi livelli paradigmatici
perché, per certi sofisticatissimi passaggi
dell’anima, non ci sono metafore abbastanza precise. Abbiamo
dunque bisogno di molta vita interiore, di molta evocazione personale,
per raffrontare le esperienze e tradurre le parole nei precisi
corrispettivi di sentimento, emozione... Questi
requisiti dell’ascolto sagomano la qualità
professionale e s’intuiscono in quegli autori che diventano
poi grandi punti di riferimento intergenerazionali. Di più
c’è che, quando si tratta di autori come Chiozza o
James Hillman, si avverte che i loro sottesi paradigmi interiori sono
così integrati dal Mondo (grazie ad una superiore
– soprattutto qualitativa – capacità di
ascoltarlo) da diventare nel tempo quasi tutt’uno. Come se
potessero capire e parlare il Mondo perché ne posseggono i
paradigmi. E così pare che Chiozza, i suoi pazienti e i suoi
lettori possano condividere la visuale, come quando, parlando della
fase iniziale di un matrimonio, scrive che le persone vicine
che guardano nella stessa direzione, vedono entrambe quasi la stessa
cosa. Riconosciamo gli oggetti sul tavolo e riconosciamo noi
stessi, mentre li guardiamo, perché ci risuonano le stesse
difficoltà, gli stessi inciampi, perché siamo
“ossa, carne e respiro” come tutti quei suoi
pazienti che quegli oggetti gli hanno portato, consentendogli
censimenti, catalogazioni, riflessioni. Restituisce ai lettori
ciò che – come pazienti – gli hanno
portato, perché sono tutti allo stesso modo,
organismi-persone, uomini, donne, padri, madri, cittadini, creature di
(un qualche) Dio (Mark Twain a otto anni pensava che suo padre fosse un
dio, a diciotto un idiota e dovette arrivare ad ottanta per capire che
era un uomo, vedi ne I nostri genitori, a pagina
73).
Sono le cose della vita, gli oggetti su ogni tavolo,
perché tutti amiamo e (in qualche modo) tradiamo, ci
ammaliamo e (in qualche modo) guariamo, abbiamo nostalgie e desideri
(una Nostalgia o un Desiderio), cose che ricordiamo e cose che
dimentichiamo (per lo più le dis-posizioni biologiche
precedenti –vedi ne La separazione dai figli,
a pagina 65). Le cose delle vita
è più semplicemente recensibile riflettendone la
struttura generale, poiché sarebbe arduo e lungo rifletterne
ogni sottordine, ogni cosa della vita, come pure il
testo meriterebbe. E, d’altronde, riflettere solo
qualcuna di queste cose potrebbe creare un disequilibrio recensivo tra
ordini e sottordini. Però va detto almeno che i capitoli 6 (La
malattia e il dramma), 7 (La morte che fa parte
della vita), ed 8 (Il malinteso) sono il
vero cuore “tecnico” del volume. Questi capitoli
costituiscono autentici strumenti di lavoro per ogni psichista, ne
orientano l’inclinazione dello sguardo. Il capitolo 6
chiarisce, una volta di più, come la psicosomatica non
può che fare riferimento ad una teoria psicodinamica della
personalità. Nel capitolo 7 risuonano tutti i precedenti
studi sul costo dell’elusione (e del fraintendimento) della
Morte, nel Mondo e nella clinica. Il capitolo 8 ribadisce la misura in
cui, nella vita e nella clinica, quasi tutto è questione di
Linguaggio e di Filtri Personali (occhiali indossati). Il capitolo
successivo (9, Il cammino di ritorno alla salute)
sta alla terapia come i precedenti alla malattia;
l’undicesimo (Il recupero della voglia)
è tutto di taglio psicosomatologico e regala straordinarie,
utilissime “suggestioni” a questi tipi di
“addetti” ai lavori. Dicevamo che Chiozza
è troppo laico per qualunque finalistica prescrizione di
istruzioni per la vita. Questa affermazione può sembrare
contraddittoria, almeno con riferimento all’ultimo capitolo,
il quattordicesimo, titolato Sui modi buoni e cattivi di
vivere la vita. In effetti si tratterrebbe addirittura di un
Decalogo, Il decalogo del marinaio, ma si tratta
solo delle pagine ultime, si tratta solo delle
ultime 13 pagine (su 300), e scaturiscono in modo così
naturale dalle precedenti da essere quasi una sorta di loro implicito,
“esplicato” solo per esigenze di
“scaletta” ed equilibri di
“sceneggiatura”. Il “tono
termico” che le sottende, ed il linguaggio, ci confermano
ancora una volta che Chiozza è sempre nella quota
processuale della relazione, quasi inevitabilmente. Non riesce ad
abitare altro che questa, anche quando si cimenta con decaloghi del
buon vivere. La prova provata di quello che dico è nel suo
pudore, nel suo pregiudiziale cercare di prendere le distanze dalla
quota formale e da ogni prescrittività finalistica, nel suo
quasi scusarsi con il lettore per una fraintendibile
“magniloquenza” in tal senso. Per dirlo con le sue
parole, a proposito del Decalogo, la difficoltà
sta nel fatto che in un decalogo è molto difficile evitare
che il discorso, piegandosi continuamente verso il dovere, assuma in
modo indesiderato quel tono “magniloquente” e
quella semplificazione dell’etica propri delle massime da
calendario. Spero che il lettore possa andare al di là
dell’aliquota di questo difetto che non ho potuto evitare e
che approfitti di questo decalogo che è nato alcuni anni fa
con la forma vivace di un piacevole gioco. Questa
raccomandazione è un eccesso di scrupolo. Chi conosce
Chiozza (noi che abbiamo “viaggiato” con
lui…) non potrà mai fraintenderlo. Richard
Weizsacker ha scritto che ogni caso clinico è da
interpretare come la storia di una vita, tradurre il linguaggio della
malattia nel linguaggio della biografia, ed ha sperato che ricercatori
più giovani portassero a termine questo compito. Chiozza
è tra i più grandi tra quelli che ci hanno
provato, ci ha insegnato che non bisogna mai tradire il livello
narrativo, che bisogna riuscire a simbolizzare la sofferenza, a trovare
un’immagine intorno a cui narrare il senso
dell’esistenza. L’anamnesi non
è forse, il tracciato di una vita? Questo non si avvicina al
processo creativo della narrativa? Nella malattia
può manifestarsi l’essenza dell’uomo, la
personalità e la sua umanità tutta intera.
Avvicinandosi ai processi narrativi, si può meglio
ricostruire la realtà: solo la narrazione, non separando
l’umanità dalla realtà, rende questa
ultima finalmente leggibile.
:: note ::
1. Luis Chiozza, Le cose della vita,
Città Aperta Edizioni, Troina, 2007
Luis Chiozza ha conseguito un posto di rilievo internazionale
per aver esteso l’applicazione del sapere psicoanalitico alla
malattia somatica. Già docente di psicofisiologia
all’Università del Salvador di Buenos Aires, ha
elaborato concetti innovativi sulla teoria psicoanalitica relativa
all’ammalare e al guarire. In Italia è presidente onorario
dell’Istituto Aberastury di Perugia che ha promosso la scuola
di specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica secondo lo sviluppo
di Luis Chiozza. Delle sue opere sono state pubblicate in italiano:
Corpo, affetto e linguaggio (Torino, 1981), Psicoanalisi e cancro (Roma, 1981), Verso una teoria dell’arte psicoanalitica (Roma, 1987), Perché ci ammaliamo? (Roma, 1989) e
Psicoanalisi dei disturbi epatici (Perugina, 2003).
2. G. Perec, La vita Istruzioni per
l’uso, Rizzoli, Milano, 2005.
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