A futura memoria | |
di
Adolfo Fattori | |
Fra questi, in profondità, anche
di un frammento di pellicola con una scritta in chiusura del film che recita: Prodotto negli stabilimenti Walt Disney
che riproduceva le azioni di un personaggio capace di mirabolanti avventure e
che possiamo immaginare (noi che lo abbiamo conosciuto) dotato di due grandi
orecchie rotonde, un naso sporgente, mani coperte da guanti gialli: Mickey
Mouse, il nostro Topolino. I rettili venusiani che nel
racconto sarebbero sbarcati (sbarcheranno) in un lontano futuro su una Terra
ormai completamente priva di qualsiasi traccia organizzata e coerente
dell’esperienza umana avrebbero deciso (decideranno) che quel filmato riproduce
gli antichi abitanti e dominatori del pianeta. Il racconto è chiaramente
ironico, ma nasconde una fondamentale paura: quella non solo della propria
morte, ma della sparizione dell’umanità intera, e quindi di qualsiasi speranza
di sottrarsi, individualmente e come specie, all’oblio totale. La stessa preoccupazione è
latente anche nella composizione della targa fissata all’esterno delle sonde
Pioneer 10 e 11 spedite nel 1972 nello spazio dalla NASA, oltre Giove e
Saturno, e contenenti alcune indicazioni fondamentali su noi umani, e diretta a
chiunque possa raccoglierla: sulla targa compaiono infatti a rappresentarci due
sagome umane, uno schema dell’atomo, uno schema del sistema solare con
l’indicazione della posizione relativa della Terra. Si calcola che la prima di
queste sonde raggiungerà Proxima Centauri fra circa 26.000 anni. A evitare, immaginiamo,
imbarazzanti equivoci sulle nostre somiglianze con un topo di carta e
celluloide. Un’altra targa della forma di un
disco, con altre informazioni su di noi, è stata applicata su una sonda Voyager
nel 1977. D’altra parte, la paura
dell’oblio dopo la morte è una costante di tutta la storia umana, anche se
assume connotazioni particolari con l’avanzare della Modernità. Insieme, si può
dire, con la paura dell’annichilimento totale – nucleare, ambientale, o altro –
e l’idea che nello spazio ci siano altre intelligenze. Questa necessità di testimoniare
la propria esistenza – al di là delle spiegazioni razionali: non possiamo
sapere fra 26 millenni cosa sarà stato di noi… – è quindi connessa alla paura
di sparire, di dover affrontare l’idea del proprio totale non-esserci, ed è
tipica del moderno e del tardomoderno. Le società arcaiche, infatti,
gestivano il passaggio alla non esistenza in maniera molto più serena, se si
vuole. Fondate sull’idea della ciclicità e della continuità col passato, e su
una percezione del mondo legata al sacro e al soprannaturale, consideravano la
morte come uno stato che non precludeva il dialogo fra vivi e morti, né la
presenza dei morti nel mondo. Con l’avanzare della
modernizzazione e della secolarizzazione le cose cominciano a cambiare. Si appanna il senso della
sacralità del mondo, avanzano razionalità e scetticismo – la cultura laica –
l’uomo procede nella costruzione di un mondo a sua misura,[2] si
sviluppano insieme tecnologie e controllo sulla natura. La morte tende ad
allontanarsi dalla sfera dei fenomeni normali.
Tende ad essere rimossa, e a passare dallo statuto di fenomeno naturale: la morte anonima e
indifferenziata degli altri, a fenomeno contingente:
la morte che attende ciascuno di noi. Anzi, nella società
contemporanea, la morte assume tutte le caratteristiche di un fenomeno marginale, occultato e da respingere,
differire, evitare. E questo processo, da individuale diventa collettivo:
riguarda la specie, il genere umano, la sua Storia. Scrive a questo proposito
Zygmunt Bauman che, nella nostra società, La
morte come tale è inevitabile; ma ogni esempio di morte è contingente (…) Tutte
le morti hanno delle cause, ciascuna morte ha una causa, ciascuna morte
particolare ha la sua causa particolare (…) Non sentiamo di gente che muore di
mortalità. Muoiono solo di cause individuali, muoiono perché c’è stata una
causa individuale.[3] Come se in teoria ci fosse un
numero di finito di potenziali cause di morte, e fosse possibile sfuggirvi,
evitarle, come ostacoli su una pista. Nelle sue riflessioni Bauman
parte dalla considerazione che gli uomini sono gli unici esseri che non solo
hanno consapevolezza della loro mortalità, ma sanno anche di sapere,[4] e non
possono dimenticare questo sapere, anche se cercano di sopprimerlo. E questa
continua ricerca di soppressione è alla base dello sviluppo di tutta la cultura
umana. Naturalmente, sostiene il
sociologo, questo non significa che …
ogni impulso creativo della cultura umana derivi dalla cospirazione “a
dimenticare la morte”,[5] visto
che la produzione culturale rapidamente raggiunge una sua autonomia, ma …la Morte (più esattamente la consapevolezza della mortalità) è la
condizione ultima della creatività culturale in sé.[6]
[1] A. C. Clarke, Spedizione
sulla Terra, Robot n.15, Armenia, Milano 1977. cfr.
http://quadernisf.altervista.org/numero4/vinile1.htm
[2] T. P. Hughes,
Un mondo a misura d’uomo,
Codice edizioni, Torino, 2006.
[3] Z. Bauman, Il
teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna, 1995, pag. 182.
[4] Ibidem, pag. 10.
[5] Ibidem, pag. 11.
[6] Ibidem.
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(1) [2] |