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Anche la sfera della produzione confonde i tempi, impiega
la migliore tecnologia per restituirci il passato, come avviene per i vini Donnafugata, azienda nata nel 1851 e trendy nel XXI secolo. L’energia del sole
viene catturata di giorno, ricorrendo a un impianto fotovoltaico, mentre la
vendemmia bioclimatica avviene di notte. È l’annata New Age, la migliore. Anche l’industria dismessa si ricicla in museo, così come
quella tuttora in attività. Industria e distribuzione poi a volte
cortocircuitano, come ad esempio a Torino, dove all’interno di Eataly, un progetto che coinvolge Slow Food, è stato aperto il museo della Carpano nelle aree che un tempo
servivano come archivio documenti, all’estrazione delle erbe, alla combinazione
degli ingredienti e alla conservazione degli estratti. Eataly, infatti, sorge
negli stabilimenti per la produzione del vermouth Carpano, fabbrica che fu
attiva dal 1908 fino alla fine degli anni Ottanta. La novità è che Eataly è al tempo stesso un
centro commerciale strutturato per aree di vendita dedicate: salumi e formaggi,
la carne e il pesce, l'ortofrutta, la panetteria e la pizza, la pasta fresca,
generici, analcolici e cantina. Tutto in 2.500 metri quadrati di mercato a cui
si affiancano 8 ristoranti, due caffè e un’agrigelateria, compreso il suddetto
museo, l’unico che ha il coraggio di chiamarsi tale, perché dall’esposizione
alle tipologie di prodotto, ogni cosa a Eataly è lontana anni luce dal futuro
come si immaginò. Infine, per restare all’industria, in altri casi, si allestiscono
musei relativi ai campi d’azione (cioccolato o pasta, ad esempio) dell’impresa
e non dell’azienda stessa. Commercio, industria, tempo libero, intrattenimento,
le stanze della vita quotidiana sono traboccanti di cimeli, sono l’ambiente
artificiale/naturale dentro il quale scorre la vita.
Un altro sostanziale contributo arriva poi
dall’intrattenitore di massa per eccellenza, il mezzo televisivo, che ha
educato impalpabilmente e inesorabilmente a viaggiare nel tempo, o meglio ad
abolirlo, poiché saltellando da un canale all’altro possiamo visionare pezzi
di realtà/tivù di epoche diverse, ma tutte trasmesse nel tempo unico della
tivù. Temponauti in pantofole, ci osserviamo in diretta ripresi nella realtà di
ieri, noi viventi ci ri-visitiamo nel grande museo degli archivi televisivi,
tutti un po’ baronetti, immortalati in vita. Un mondo in repeat come
nell’invenzione di Morel, solo che le riprese sono estese al mondo e ognuno di
noi è spettacolo e spettatore al tempo stesso. “La
storia è il nostro referente perduto – scrive Jean Baudrillard – vale a dire il
nostro mito. E come tale prende il posto dei miti sullo schermo”[3]. Restiamo incollati
allo schermo. Anche la pubblicità celebra ritorni che mandano in cortocircuito
il procedere normale del tempo. Lavazza rimanda in onda (e non solo)
Carmencita, i Supermercati Decò restaurano la suggestione dell’intervallo
televisivo e Conad ci fa accompagnare da una guida per visitare guarda caso il
suo punto di vendita/museo, fondato su antichi valori popolari: qualità e
convenienza. Istruttivo, poi, il recente spot di un notissimo prodotto
alcolico, che cita una celeberrima pubblicità degli anni d’oro di Carosello. Il
prodotto è il Cynar, la rèclame storica è quella con Ernesto Calindri e la
materia prima il carciofo, formidabile “contro il logorio della vita moderna”,
come dimenticarlo. Nel nuovo spot i protagonisti sono Elio e la sua combriccola
che, come Ernesto Calindri, siedono a un tavolino in
mezzo al traffico chiacchierando, sorridenti, fregandosene del caos che li
circonda. Finito il Cynar tra i giovialoni serpeggia il panico, lo stress incalza,
il traffico li minaccia, solo azionando una leva a forma di carciofo i quattro
vengono miracolosamente salvati da un Carciofone, trasformato in navicella che
li catapulta nello spazio. Il passato e il futuro si danno una mano per
sfuggire al presente, ma per una volta la pubblicità piace proprio perché si
mostra come autentica fiction. Nella realtà fughe del genere non sono possibili
e i sogni di ieri, ovvero quelli di domani, sono stretti d’assedio dal traffico
quotidiano, dal presente infinito. Sempre nei palinsesti del passato troviamo un segnale
premonitore di questi nostri tempi. L’anno è il 1965. Va in onda la prima
puntata dello sceneggiato televisivo Belfagor,
il fantasma del Louvre (ispirato a un romanzo scritto nel 1927 da Arthur Bernède)
diretto dal regista Claude Barma e sceneggiato da Jacques Armand. Mantello,
copricapo nero e una maschera sul volto appariva di notte nelle sale del Louvre
presso la statua della divinità caldea dell'inganno Belfagor. Terrorizzò tutti
miscelando esoterismo rosacrociano, materiali radioattivi, suspence e guerra
fredda. Qui, però, interessa seguire un vecchio
metodo: nel nome risiede l’origine e dunque la spiegazione. Che ci faceva un
fantasma in un museo, per giunta in quello più famoso del mondo? Appare nei
pressi dell’inganno e su questo dobbiamo indagare. Allora, abbiamo un museo, un
fantasma e un’audience composta da quello stesso pubblico che popola
l’inarrestabile civiltà dei consumi. Il museo è ancora quello tradizionale, la
cultura è ancora discriminazione, i prodotti culturali non sono ancora del
tutto equiparabili a quelli offerti in un ipermercato, ma il destino di quel
mondo è già segnato. Quel mondo è già un fantasma, ecco perché Belfagor sbuca
lì. Dov’è l’inganno? Nel ritenere il mondo vittima di una cospirazione, come
quell’intrigo rosacrociano che sostiene la trama dello sceneggiato. Non è così,
“è la massa stessa che mette fine alla cultura di massa”, conferma Baudrillard[4], abolendo la dialettica
alto/basso. L’ipermercato e il museo sono specchi
reciproci della medesima merce e dello stesso fruitore, anzi nel suo stadio più
avanzato costui fruisce soprattutto di se stesso, e questo ci conduce all’altro
motore ultimo dei nostri tempi, la pornografia, allo sguardo ovunque, che
osserva perennemente questa storia presente, irriconoscibile data la distanza
tra l’osservatore e l’osservato. In questo senso la storia siamo noi, il buco
nero dove si immergono memoria merci e segni reciprocamente contaminati, e poi
volendo consegnati all’eterno in un hard disk da 50 gigabyte o giù di lì. Tutto questo scenario può sembrare greve, a
metà strada tra apocalittici e integrati, cosicché val la pena di chiudere in
leggerezza, magari con un po’ di buona musica. Potremmo ascoltare un po’ di
jazz italiano, ormai di valore internazionale, grazie a un nuovo, strepitoso repertorio: le
canzoni italiane degli anni Sessanta o quelle napoletane, fino ad arrivare giù
in fondo al XX secolo fino a Giacomo Puccini e poi ancora più indietro
arrivando alla musica popolare come la taranta pugliese.
Meglio ancora, il disco ideale è Ray
Sings, Basie Swings, eseguito da Ray Charles & The Count Basie
Orchestra, un concerto degli anni Settanta inedito, registrato dall’impresario
di allora, il mitico Norman Grantz, uscito nel 2006. Un suono splendido, ma
nella bobina originale solo la voce di Ray Charles risulta perfetta, il resto
dell’orchestra si sente un schifo. Allora il produttore attuale John Burk ha
chiamato la leggendaria Count Basie Orchestra,
tuttora in circolazione, diretta da Bill Huges con ospiti del calibro di Joey
De Francesco all’organo Hammond. Ha poi reclutato uno stuolo di arrangiatori e
un nugolo di programmatori. Tutto viene risuonato e ricucito con la voce di The Genius. Oltre il campionamento e il
taglia e cuci, al di là della manipolazione di frammenti, ecco un nuovo genere
senza tempo perché di ieri, oggi, grazie alle tecnologie che sembravano
possibili solo domani. Musica fantasmatica. L’ideale commento sonoro al dickiano “io sono
vivo e voi siete morti”. Chissà, forse alla morte si addice lo swing. Buon ascolto.
[3] J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Cappelli, Bologna 1980, pag. 7. [4] Idem, pag. 21
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