Numero D'Vol
di Hugh Hopper
MoonJune

 

 

 

 





 

 

 

Numero D'Vol di Hugh Hopper

 

 

Un sassofono tenore sussurra accompagnato da un pulsare di tamburi (la cassa di una batteria, probabilmente), un pianoforte a far da eco, un sintetizzatore s’invola, energia immobile, poi basso e piatti irrompono e aprono le danze, piano e sax intrecciano figure melodiche, poi il tenore innalza il suo pianto, la sezione ritmica incalza, possente, ma c’è uno spiraglio e vi si intrufola una coda tutta affidata al pianoforte. Fine. È Numero D'Vol, la traccia omonima dell’album che apre questa bella prova di Hugh Hopper pubblicata dall’etichetta di Leonardo Pavkovic, solita operare in una zona musicale che “potrebbe essere definita come un'area tra il jazz, il rock e l''unknown', una dimensione quella 'unknown' che non si potrebbe categorizzare facilmente”, come Pavkovic dichiara in un’intervista in rete (www.artistsandbands.org/ita/modules/myReviews/detailfile.php?lid=26).

La MoonJune ha comunque un preciso riferimento storico, come già il nome lascia intuire contraendo il titolo della composizione di Robert Wyatt presente su “Third” dei Soft Machine. Il raggio d’azione quindi è proprio quello delle esperienze musicali che negli anni Settanta ripensarono il jazz e il rock, con in prima fila i protagonisti della cosiddetta scena di Canterbury. Infatti, in catalogo sono presenti diversi dischi dei Soft Machine Legacy (con Elton Dean prima e poi, dopo la sua scomparsa, con Theo Travis), un concerto tenuto nel 1975 dalla morbida macchina sul finire della sua storia, lavori a nome di Dean, di Phil Miller-In Cahoots e anche band prog italiane, come Arti & Mestieri, D.F.A. e Finisterre, senza dimenticare i sorprendenti simakDialog da Jakarta.

Tornando a Hopper, di lui si è già parlato in diverse occasioni, segnalando uscite dei Soft Machine o a proprio nome (vedi Quaderni D’Altri Tempi n. 5, 6, 7 e 9). In questo lavoro è in compagnia di Simon Picard (già con gli In Cahoots di Miller), il tastierista Steve Franklin (idem) e Charles Hayward, l’altro blasonato del quartetto. Membro dei This Heat (vedi Quaderni D’Altri tempi n. 6), presente nei Quiet Sun di Phil Manzanera, nel progetto Keep The Dog di Fred Frith (proveniente dagli Henry Cow), nei Massacre sempre con Frith e coinvolto nel progetto Oh Moscow! di Lindsay Cooper (ancora ex Henry Cow), anche se assente nell’unico disco pubblicato (con Marilyn Mazur al suo posto). All’attivo poi sperimentazioni elettroniche con David Shea e Scanner, tra gli altri, oltre ad alcuni album a suo nome, tra cui il bell’esordio “Survive The Gesture”.

Ritornando al disco, i quattro firmano collettivamente tutte le composizioni (anche se il titolare è Hopper, poiché il suo nome è evidenziato in rosso sulla copertina con un corpo tipografico più grande), trovando il modo di far apprezzare l’interplay del gruppo e le prove individuali. Picard a volte richiama alla mente il ruggente e tormentato Gary Windo (nella citata title track in Earwigs Enter e nella conclusiva Some Other Time), mentre altrove assume il tono di una nervosa meditazione come nella lunare Get That Tap.

Il drumming di Hayward è completo, muscolare quando occorre, ma anche morbido, quasi vellutato. Piatti e tamburi costituiscono le tessere di un perfetto mosaico ritmico insieme al basso di Hopper. Si ascolti la ripartenza all’unisono dei due nella conclusione di Free Bee e l’accelerazione da manuale nel finale di Shovelfeet.

Franklin si muove a suo agio sia con il sinth, che introduce dal nulla nella citata Get That Tap, sia con l’organo (bellissimo solo nella parte centrale di Bees Knees Man) che al piano, nelle code quasi fugate di Numero D'Vol, Twilight e Free Bee.

E Hopper? In gran spolvero, maestoso e ipnotico, un riff dietro l’altro, colori e ritmi che assurgono a protagonisti senza mai prevaricare sui solisti di turno. Sconfina nella trance in Bees Knees Man (la traccia più rimarchevole dell’album insieme a Numero D'Vol) sostenendo il lunare assolo d’organo di Franklin, e tuona in apertura di Earwigs Enter.

Un disco dove il tempo sembra sempre fuori di sesto, interpretando al meglio quell’unknown di cui parla Pavkovic. Una prova di classe, quella d’altri tempi, naturalmente.

     Recensione di g.f.