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Ian Fleming fra il 1953 e il 1965
scrive dodici romanzi e un certo numero di racconti con 007 come La narrativa di Fleming prende ad
esempio Mike Hammer,[5] trasferendolo in un ambiente più
levigato e soft – con un deciso
tributo alle ambientazioni di fumetti come Rip
Kirby e Terry e i pirati. Ma vi aggiunge qualcosa: la
presenza di tecnologie – specie ad uso militare – fantascientifiche, messe in
scena in ambienti esotici ed esclusivi che fanno da sfondo alle avventure
immobili delle nuove classi emergenti degli anni dello sviluppo economico e del
consumismo, dispiegati nei film tratti dai romanzi, in particolare quelli con
protagonista Connery, fra il 1962 e il 1971.[6] La migliore promozione per il
turismo globalizzato che verrà, quello delle Seichelles e di Sharm el Sheik. Ma
anche un discorso in parallelo, leggero e trendy,
sulla “guerra fredda”, In realtà, l’unica riflessione
seria su Bond e il suo mondo la farà Stanley Kubrick nel 1964 con Dr. Strangelove.[7] Attorno alla saga dell’Agente 007
si catalizzano quindi alcuni elementi cruciali dell’immaginario della seconda
metà del ‘900: la bomba atomica – quindi la paura dell’apocalisse;
l’immaginario spionistico popolato di avventurieri e megalomani che progettano
di dominare il mondo; l’esotismo di paesi lontani ormai completamente asserviti
ai bisogni dell’Occidente, colmi di promesse voluttuose ed estreme; le
tecnologie del futuro. Oltre, c’è solo In questo viaggio di ritorno ad un
mondo ormai completamente desacralizzato è cruciale lo sviluppo di quella
cultura esotizzante che si nutre di merce finto/primitiva-naturale – oggi la
chiamiamo etnica – e di musica,
appunto exotica. Proprio l’evoluzione dei gusti in
campo musicale negli anni ’60 – ’70 del secolo scorso può darci qualche
indicazione per approfondire di più l’evoluzione del mito del viaggio mentre si
avvicina l’età postindustriale. Perché – mentre gli astronauti
americani sbarcavano sul suolo lunare, altri viaggi si svolgevano qui sulla Terra, ben simboleggiati dal viaggio
che compiono i protagonisti di Easy Rider.[8]
Così si sviluppano due culture
diverse: quella “istituzionale”, del “Patto Atlantico”, della lotta al
comunismo della rispettabilità, delle tradizionali divisioni uomo/donna, ben
esemplificata fra gli altri dai personaggi di Fleming; quella della terna “pace-amore-musica”,
celebrata a Woodstock proprio in quel fatidico 1969, e, almeno in Europa, i
padri storici del movimento comunista. I gusti e le scelte musicali
esemplificano bene questa frattura – che non è solo generazionale: da un lato i
giovani “ribelli” che ascoltano il rock (in fondo anch’esso esotico: la radice è il blues);
dall’altro gli altri, che si nutrono di exotica
in tutte le sue declinazioni, con le sue allusioni deduttive e
conquistatrici. Se ci si fa caso, i ritmi della
vita del XX secolo mettono da parte la musica “classica”: la radio, poi il
mangiadischi e il mangianastri non permettono il suo ascolto… L’evoluzione
delle tecnologie della registrazione e della riproduzione del suono accompagna
e detta i tempi e i modi del gusto e del consumo. Intanto anche la cultura
“d’opposizione” si esprime sul rapporto con il “resto del mondo”: i Beatles
vanno in India, in un viaggio che segnerà un’epoca; comincerà la scoperta di
strumenti e sonorità diverse; cominciano a diffondersi le discipline e le culture
orientali. In fondo, una nuova forma di appropriazione e di colonialismo, sotto
l’etichetta della “naturalità”… E il viaggio verso il
postindustriale procede… E si entra nella globalizzazione. Che vuol dire rottura tendenziale
di tutte le divisioni – e i vincoli alla libera circolazione di linguaggi,
merci, persone. Naturalmente sotto il controllo delle multinazionali. E succedono delle cose
interessanti, da molti punti di vista. Perché sul piano degli stili di vita
dell’Occidente anche i consumi si globalizzano.
Più le tecnologie, in particolare quelle della comunicazione riempiono la
nostra vita, più si va alla ricerca del naturale,
nei cibi, nell’abbigliamento, nell’arredamento. È il trionfo del biologico, delle medicine naturali, e dell’etnico. Il bello
è che della naturalità nelle sue varie accezioni e declinazioni di marketing ne
hanno fatto da subito una bandiera gli “alternativi” di tutti i tipi. Ben rannicchiati dentro il
benessere occidentale, come “topi nel formaggio”. Mentre per gli altri le cose vanno
sempre peggio: smarrita la strada per il cosmo, non ci sono più – questo sì –
terre da colonizzare (l’America, l’Australia…), l’antico rimedio all’eccedenza
di disperati. Fino ad arrivare al paradosso di
quegli ambientalisti che per preservare la natura (animali, piante) in Africa e
in Asia chiedono l’espulsione delle popolazioni locali dalle terre dove vivono
da secoli – con, almeno in Africa – il generoso e disinteressato appoggio delle
multinazionali dei diamanti.[9] In fondo sono solo negri... Così che lo slogan più enfatico e “coinvolgente” degli ultimi anni, un altro mondo è possibile! fa sorgere
una domanda quantomeno sinistra: quale? e per chi? Il fondo non esiste
[5] Cfr. U. Eco, “Le strutture narrative in Fleming”,
in L’analisi del racconto, Bompiani,
Milano, 1969.
[6] Con una coda nel 1983 con
Never Say Never Again (Mai dire mai).
[7]
Il Dr.. Stranamore, o: come smisi di
preoccuparmi e imparai ad amare la bomba, USA, 1964.
[8] Cfr. A. Fattori, ibidem.
[9] F. Caferri, Le
tribù minacciate dagli ecologisti, in “
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