Guida Galattica in trentaduesimo

 

 

 

Con questo numero di Quaderni doppiamo una seconda boa, quella del secondo anno di vita. Insieme, raddoppiamo il numero di coloro che collaborano alla sua realizzazione e alla sua crescita. E festeggiamo…

Festeggiamo predisponendo un secondo volume di quella che sarà presto la nostra “Enciclopedia dell’altrove”, che a breve metteremo in rete come luogo virtuale con un suo spazio autonomo da “Quaderni”.
Il primo volume dedicato ai romanzi, ai film, agli album musicali, alle grandi saghe a fumetti o per la TV.
Il secondo, questo, dedicato sostanzialmente ai racconti – di science fiction, naturalmente.
Anche questa volta, i lavori che proponiamo sono frutto del susseguirsi delle nostre letture, quindi delle nostre biografie, dell’evolversi dei nostri gusti – che abbiamo scoperto condivisi con i nostri nuovi compagni di strada stabili, e che non hanno nessuna pretesa di esclusività, esaustività, o necessità. Indicazioni e/o suggerimenti di percorsi possibili, nient’altro.

Di seguito, Carmine Treanni ragiona su come il racconto sia forse il formato originario del genere, almeno da quando si è creata l’unione fra fantascienza e rivista popolare, periodica, da edicola.

Qui, riflettiamo su un’altra questione, altrettanto importante, specialmente da quando l’interesse per il genere sembra risvegliarsi. E, speriamo, senza nessuna presunzione archeologica. Non sarebbe il caso.

La science fiction, continuiamo a sostenerlo, nasce con La macchina del tempo di Wells. Trova un’altra radice fondamentale in La guerra dei mondi, sempre di Wells. Due temi fondamentali, il viaggio nel tempo e l’invasione aliena, sono quindi fissati dallo scrittore anglosassone.

Se vogliamo andare indietro nel tempo, troviamo sempre in Gran Bretagna altre due opere fondamentali: il Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelley, Lo strano caso del Dr. Jekill e Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson. Possiamo dire che con questi tre autori in successione si prevede, si introduce, si apre il Moderno – e contemporaneamente si compie la frattura con il dominio assoluto sul mondo del sacro e del soprannaturale. Che sopravvivrà, non c’è dubbio e fortunatamente, con opere come Il Signore degli Anelli e con generi come lo sword & sorcery e l’horror. Elettricità e chimica, insomma, in attesa di elettronica e informazione.

Allora, la fantascienza è nata in Europa, in particolare in Inghilterra. Anzi, nell’Inghilterra vittoriana, se vogliamo essere precisi. Quella delle colonie, del carbone, del ferro, delle manifatture.

Ma poi trova la casa più confortevole in America. Come il cinema, d’altra parte, che dalla Francia emigra a Hollywood, e la musica del Novecento, che insieme agli schiavi africani arriva e trova lì il suo sviluppo, quando si incontra con gli strumenti musicali e di riproduzione del suono inventati e perfezionati in Occidente.

L’America è il vero luogo novecentesco della fiction: prima le grandi pianure e i grandi spazi della Monument Valley, poi le distese e i canyon delle metropoli, come New York e Los Angeles.

Ed è fra questi due poli delle geografie dell’immaginario che cresce la fantascienza, spiccando il balzo verso lo spazio profondo, gli universi paralleli, i tempi alternativi.

I racconti servono a questo: la forma breve permette di esplorare possibilità senza temere di chiudersi in vicoli ciechi, in strade troppo battute. È il luogo più adatto per sperimentare gli … e se? alla base della logica della narrazione contemporanea. Come si trovò ad affermare Poe, scrivendo in un suo saggio che il lettore aveva il diritto di esaurire la sua lettura … in una sola seduta. Il tempo della Modernità che avanzava, e che ridefiniva i ritmi della vita quotidiana – del tempo di lavoro, del tempo libero.

Seppur imbevuto di cultura del Vecchio Mondo, Poe era americano, e rimane uno dei fondatori di quel luogo della fiction che sono gli Stati Uniti, come ebbe a scrivere Jean Baudrillard in Amerique, il diario ragionato del suo viaggio in America.

Anzi, lo studioso francese si espose, come era nel suo stile, ancor più esplicitamente:

Niente eguaglia il sorvolare Los Angeles di notte. Una sorta di immensità luminosa, geometrica, incandescente, a perdita d’occhio, che spunta fra gli interstizi delle nuvole. Solo l’inferno di Jeronimus Bosch dà la stessa impressione di braciere (…) Mulholland Drive, di notte, è il punto di vista di un extraterrestre sul pianeta Terra, o all’inverso è la visione di un terrestre sulla metropoli galattica.

Baudrillard coglie un aspetto cruciale del nostro rapporto con l’America: è un luogo della fiction, in cui sono immersi, in una vertigine ologrammatica, iperreale, gli stessi americani. E scrive queste pagine qualche anno dopo l’uscita sugli schermi di Blade Runner, il capolavoro di Ridley Scott tratto da Il cacciatore di androidi di Philip Dick.

Né poteva essere diversamente. D’altra parte Baudrillard era un ammiratore dello scrittore americano, da un po’ di tempo in predicato di diventare una delle tante “icone inoffensive” di cui è popolata la cultura mediatica dei talk show e delle rubriche letterarie. E che invece rimane uno dei profeti più precisi dell’avvento della tarda Modernità.

Una decina di anni prima, al convegno “La fantascienza e la critica” che si svolse a Palermo, e rimane tuttora uno degli sforzi più grossi da parte della cultura italiana ufficiale di trovare un senso nella science fiction (con risultati tuttora solo immaginabili), lo stesso francese affermò che la fantascienza era morta, perché si era confusa col reale. Fu uno dei pochi a fornire argomenti e considerazioni utili alla comprensione della fase di passaggio che abitavamo – e allo statuto dell’oggetto di cui si sarebbe dovuto parlare. Il passaggio dall’era della fabbrica a quella della simulazione, dell’iperrealtà, del virtuale. A quella che sarebbe stata ben rappresentata, nella narrativa, dal cyberpunk.

Ma molto tempo prima, sempre uno scrittore di fantascienza ne aveva dato un’anticipazione ghiotta, e a quei tempi probabilmente incomprensibile nelle sue reali implicazioni. Nel 1943 Frederic Brown – un altro visionario di calibro – scrive e pubblica The Angelic Angleworm (L’angelico lombrico, Urania, 1971), un racconto in cui – alla stessa maniera di Ragle Gumm in L’uomo dai giochi a premio (guarda caso di P. K. Dick, Time Out of Joint, 1959, in Urania nel 1968) – il protagonista comincia a imbattersi in bizzarre smagliature nel tessuto della realtà. Giusto per esemplificare, vede un verme con l’aureola strisciare sul pavimento. Alla fine scopre che il santo che in cielo ha il compito di far procedere il reale scrivendo sulla grande macchina da scrivere cosmica ogni tanto sbaglia battuta sulla tastiera, produce dei refusi, che subito si riflettono sulla realtà materiale.

Ora, nell’era del virtuale interi universi - e I Sims o Second Life ne sono solo due spicchi – si aprono alle nostre percezioni, alle nostre emozioni e intelligenze, grazie al computer, al web. Ma sono il risultato di sequenze alfanumeriche prodotte attraverso una tastiera – non dissimile da quella delle vecchie macchine da scrivere.

Quella supremazia del codice, quel libero gioco dei significanti, ormai liberati dalla necessità di designare un qualcosa di specifico, di cui ancora Baudrillard scrive, fra Lo scambio simbolico e la morte e Le strategie fatali.

Allora possiamo forse riformulare le considerazioni palermitane del filosofo francese, senza temere di distorcerne il pensiero: più che esser morta, la fantascienza, confondendosi col reale lo ha permeato, nascondendosi al suo interno e finendo per riempirlo, dandoci qualche strumento – metaforico, per carità – per non farcene sommergere.

Cercheremo di non dimenticarlo, questo militante dell’intelligenza, che ci ha lasciato da qualche settimana, per difenderlo da un rischio simile a quello che corre Dick, continuando a esplorare i sentieri che ci ha indicato, a far prolificare i contributi che ci ha dato.

Questo numero di Quaderni è dedicato a Jean Baudrillard.