Ascoltare Evan Parker
è sempre impegnativo, vale quando sono di
scena formazioni a suo nome, estemporanee o di lunga durata, come
l’Electro-Acoustic Ensemble. Vale quando
è ospite in progetti altrui, come Spring
Heel Jack e quando si propone in solitudine come in questo
nuovo disco. Musica sperimentale, alta, concettuale, forse non
musica ma chimica del suono, vivisezione sonora, comunque si
definisca, il denominatore comune risiede nell’impegno totale di
chi esegue e di chi ascolta.
Si può
evitare l’impresa o consensualmente partecipare a questo rito,
cerimonia quasi sciamanica, poiché tutta la musica di Evan Parker
è imparentata con la trance e le sue performance solitarie ne sono
la prova più evidente. Questo, però, è un solo a più a largo
spettro dei precedenti e rivede Parker impegnato solo al soprano,
dopo una serie di registrazioni che lo hanno visto cimentarsi più
che in passato al sax tenore.
Certo,
iniziando l’ascolto dalla seconda traccia, Monkey’s Fist,
si potrebbe trarne l’errata conclusione di essere di fronte a un
classico monologo di Parker: torrenziali emissioni di suoni,
applicazione magistrale della respirazione circolare, nugoli di
suoni parassitari, sconfinamenti nel rumore e tutto quanto si può
spremere da un sax soprano suonato a velocità supersonica. Accade
anche nella spettacolare Alone On A Long Hard Road, ma le
cose procedono diversamente in questo nuovo lavoro.
Nelle undici
tracce, Parker effettua una ricognizione nella memoria,
ripercorrendo le molteplici esperienze della sua quarantennale
carriera, inclusa la scelta radicale, compiuta nel primo solo
pubblicato nel 1975 dalla Incus, di sbriciolare la materia stessa
del suono. Non siamo di fronte a un bilancio nostalgico, ricordo
di stagioni passate, ma ad una di quelle incursioni nel tempo che
fingendo di muoversi all’indietro si proiettano in avanti, ed è
uscito quasi in contemporanea con la ristampa della sua opera
prima come titolare di un album, quel Topography of the Lungs
che inaugurò l’etichetta autogestita, la Incus appunto (vedi
Quaderni d’Altri Tempi n.6). Un viaggio nel tempo a volte
esplicitato da dediche, come nella danza di Threnody For Steve
Lacy o nella spettrale Chorus After Alaric 1 Or 2 For Gavin
Bryars. Altrove, gli omaggi/rimandi non sono dichiarati, come
in Gees Bend, o Pulse And The Circolation Of The Blood,
che rigenerano il minimalismo del primo Philip Glass, o nel brano
d’apertura, Ak-Kok-Deer, denso di riverberi lunari “alla
maniera”di Lol Coxhill.
Un discorso
a parte merita la tenebrosa Organ Point, che vede Parker
impegnato anche all’organo, osando una sintesi tra la
sperimentazione di scuola AMM e l’ambient music più
oscura. Un racconto corale, più che un monologo, e meno urticante
che nel passato. Nelle note Parker illustra il metodo di
composizione/registrazione seguito e le modalità seguite per le
sovraincisioni. Un’operazione durata cinque anni, tanti sono
occorsi per la messa a punto di questo lavoro, dall’ottobre 1996
al giugno 2001.
La Tzadik
presenta il disco come essenziale. Enfasi da ufficio stampa, ma
questa volta bisogna proprio convenirne e chi vuole avere un primo
incontro ravvicinato con il musicista più autorevole della scena
radicale inglese, può iniziare tranquillamente da qui.
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