No logos, sì logos… un sacro dibattito interiore di Catello Parmentola

 


Il credente, avendo trovato, ha risolto la necessarietà della ricerca: può quindi comodamente riservare al sacro il tempo canonico degli appuntamenti formali che gli vengono fissati.

Il non credente invece è con-dannato a starci sempre su.

Il credente va a messa (forse) la domenica mattina.

Il non credente è in Chiesa molto più spesso, quando non c’è nessuno.

Cerca di sentire-capire se è lì che – come gli dicono – può trovare qualcuno che gli dia una mano nel proteggere i propri bambini, qualcuno da ringraziare per avergli dato una mano. Solo lì nelle chiese, c’è quel silenzio, quella concentrazione. Il silenzio della natura (della Terra) è riprodotto nel Mondo solo nei luoghi di culto. E tutti gli incroci condivisi Terra-Mondo sanno di sacro. Lo sanno bene gli sciamani e lo sa bene il non credente che uscito dalla chiesa, continua a cercare Qualcuno in tutti i punti limiti di sé ma anche in tutti i punti limiti del mondo.

Nel meraviglioso film di Zanussi, Illuminazione, il protagonista “cerca” nella filosofia, nella fisica, nella teologia...

E allo stesso modo avrebbe potuto cercare nelle foreste pluviali a nord di Cape York o sulle vie dei monasteri, a 5.000 metri sul livello del “male” …
O nella più perduta isola indonesiana dove una guida indigena mi disse “qui da noi i peccati sono due, ma io ne ricordo solo uno…”
Qui da noi invece ci sono 10 comandamenti e 7 vizi capitali e li ricordiamo tutti.

Sciamani e terapeuti
Mamma mia!, ho detto che il non credente non può che stare sul sacro – direi ovviamente ed inevitabilmente – molto più del credente.

Che scandalo! S’incavoleranno i credenti, ma molto di più i non credenti “ideologici”, offesi dall’untore, loro che col sacro non ci vogliono avere assolutamente mai niente a che fare. Mai e niente, pura ideologia per l’appunto.

Come vedete, parlare del sacro è sempre incauto: sono andato a violare quel comodo pragmatismo dualista che tiene il non credente scienziato sempre lontano da certi argomenti-territori, certe ammissioni, certi risuonamenti, certe difese forse…

Ed io invece entro a gamba tesa, non scelgo di mischiarmi, più precisamente prendo atto che lo sono, da sempre, comunque.

Come ho annunciato, io vi parlo di me, della mia mischia personale, delle chiese del mondo in cui vado a cercare la ricerca in sé, la ricerca infinita del ricercare, pallido e assorto, 5.000 metri sopra il male. Così ideologicamente appassionato della mischia inconcludente che pur di non concludere mai in niente (mai e niente, pura ideologia per l’appunto) non ho mai voluto il mio mestiere di psicoterapeuta nel dominio della riflessione scientifica, ma piuttosto nel dominio della vita (che si guarirebbe da sola) con tutti i suoi domini, dell’arte, se vi pare, della magia, o del sacro per esempio…

E i non credenti scienziati ideologizzati di-da un’opposta ideologia già pronti a dare addosso: fragilone, mistione, clinico di serie gn. Non è stato inventato ancora un modo di parlare del sacro, nominarne il nome, senza incorrere in questi rischi: dunque li incorrerò.

Esistono intrecci fra magia da un lato, psichiatria e psicoterapia dall’altro, e ci sono, anche in psichiatria e in psicoterapia, magie false e magie vere.

Le magie false sono quelle degli psichiatri e degli psicoterapeuti che adoperano trucchi facendo ricorso a tecniche da applicare a pazienti, che vengono in tal modo reificati.

Le magie vere sono quelle di cui sono partecipi gli operatori che incontrano i pazienti in rapporti terapeutici che comportano la crescita degli uni e degli altri.
Le magie vere sono quelle in cui i terapeuti non rivendicano il merito del cambiamento dei pazienti, non vogliono sembrare né si sentono maghi.
Ohibò, pensateci bene, proprio come un sacerdote che attribuisce non a sé il potere di fare miracoli, ma ad una Divinità, sopra di lui, della cui potenza si sente, tutt’al più, un umile strumento.
Le magie vere di questi terapeuti hanno dunque valenze e uno spessore di tipo religioso.
Nella psicoterapia interagiscono, infatti, i due differenti livelli logici, della forma (contratto, regole…) e del processo (la “relazione” terapeutica). Questo secondo livello non può essere finalistico, essendo largamente inconsapevole e caratterizzato dai linguaggi non finalistici.

Per questo, anche nell’ambito di un processo formativo, assumere e trasmettere tecniche, non è sufficiente. È fondamentale anche coltivare la sensibilità a sentirsi parte di un tutto, la “disposizione” alla conoscenza per sensibilità.
Per far questo, i formatori dovrebbero offrire ai loro allievi la possibilità di fruizione di esperienze che rientrino in territori costituzionalmente attraversati da abitudini di pensiero orientate alla relazione non finalistica e all’approccio per sensibilità: territori quali quello dell’arte, se vi pare, del gioco, della magia, o del sacro per esempio…

L’azione terapeutica non deve essere arrogante, finalisticamente orientata a modificare il mondo fuori di sé. Come ci insegna lo Zen, va attesa invece come un prodotto spontaneo dell’esercizio paziente e della disciplina: non nasce dallo sforzo ma dall’assenza di sforzo.

Nell’azione spontanea, agire non consiste più nel decidere di fare qualcosa al fine di ottenere un certo scopo: l’azione diventa l’espressione non più di ciò che si vuole, ma di ciò che si è.
Per Whitaker la psicoterapia consisteva nell’intervenire su una ferita semplicemente detergendone i tessuti in modo che i suoi margini potessero generare da soli nuove cellule in grado di muovere l’una verso l’altra per raggiungersi e consentire la cicatrizzazione.
L’azione psicoterapica nasce, in tal modo, dalla quieta, feconda passività dello psicoterapeuta, dal suo coraggio di aspettare che emerga qualcosa di spontaneo dalla sua creatività.

Proprio il non perseguire fini consapevoli aiuta a riconoscere il carattere integrato del tutto di cui si fa parte, a cogliere la bellezza delle relazioni, aiuta a riconoscere il sé nell’altro, e dunque propone il territorio del sacro.

La coscienza è indesiderabile e il silenzio è d’oro, sicché la segretezza può fungere da segno per indicare che ci stiamo avvicinando a un terreno sacro (Bateson).
Il sacro non si può conoscere ma riconoscere, o accettare e la sua verità non è nella conoscenza ma nella non conoscenza (Dal Lago).
Non si può costruire qualcosa e poi dire che è sacro (Bateson), e questo vuol dire che il sacro non è compatibile con il finalismo e con esso non si può entrare in contatto finalisticamente.

Anche il processo psicoterapico, allo stesso modo, ha natura misteriosa, inconsapevole che non deve essere vanificata dal finalismo cosciente.

 

 

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