Benvenuti nell’era neoterica |
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Mia madre è una scimmia, mio
padre è Dio. Con questo fulmineo corto circuito, che apre la sua
personale riscrittura della saga di Tarzan, Philip José Farmer risolve in un
colpo solo l’intero conflitto fra creazionismo ed evoluzionismo, che ha
accompagnato lo sviluppo della cultura scientifica e la definitiva
secolarizzazione del mondo per metà del XIX e l’intero XX secolo, per poi
periodicamente riemergere e arricchire – grazie più che altro alla verve dei
teo e neocon dei nostri tempi – lo stupidario della tarda
modernità. Farmer risolve un problema:
quello di un vuoto e di un indicibile. Di trovare parole per descrivere e
spiegare l’impercepibile e l’inspiegabile per definizione: il sacro.
Ed è particolarmente significativo che lo faccia uno scrittore di fantascienza
che ha riempito le sue narrazioni di personaggi – veri e immaginari – della
storia della narrativa e del cinema: da Mark Twain a Tom Mix, da Phileas Fogg
appunto a Tarzan. Ed è altrettanto significativo
che lo faccia riferendosi ad uno dei fondatori della cultura di massa, quell’Edgar
Rice Burroughs che oltre a dare i natali all’uomo scimmia, li diede
anche a John Carter, uno dei primi terrestri dell’immaginario a sbarcare su
Marte. Tarzan e il suo mondo rimandano a
quella immaginazione avventurosa che è radicata prima di tutto nella tradizione
di quei territori arcaici, spesso inesplorati, che nascondono misteri – e
forse magia e soprannaturale. Territori del sacro, appunto. Quelli
esplorati anche dal Conan Doyle di Un mondo perduto e dal Rider Haggard
di Le miniere di Re Salomone. Che poi la science fiction contribuisce
a disinnescare, a disincantare, mentre intorno a lei altre esperienze
artistiche ed estetiche – quella delle avanguardie prima di tutto –
rielaboravano e frantumavano, accompagnando a loro volta lo sviluppo
dell’egemonia del cinema e dei media che lo seguiranno. A partire dal King Kong di
Shoedsack. Per poi arrivare fino ai nostri cyborg, passando per la
televisione e la sua – profana – sacralità. Prevedendo la nascita del web, e
accompagnando le visioni concesse dalle sostanze che alterano la percezione e
gli stati di coscienza. Cosa sono, alla fin fine, gli universi paralleli
immaginati dalla science fiction, se non quelli evocati dalle
“droghe” e simulati dal virtuale? C’è qualcuno che sostiene che il sacro
nasce con le prime visioni provocate dalle erbe e dai funghi, e chi nota
l’analogia fra la rete e l’altro mondo. E a certificare questa relazione
pensiamo bastino i nomi di tre fra i tanti avatar partoriti
dall’immaginazione di un grande visionario del XX secolo, Philip Dick: Bob
Arctor, Palmer Eldritch, Glen Runciter. La fantascienza, nel suo lavoro
di disincantamento del mondo non può che partire dalla forma della fiaba,
insieme al mito il discorso originario con cui l’uomo cerca di dire
il sacro. E la secolarizza, mettendone le strutture al servizio di narrazioni in
cui la magia e il soprannaturale sono esclusi, sono neutralizzati. Oppure sono attualizzati,
secolarizzati, come nel Signore della luce di Zelazny, in cui la potenza
della tecnologia diventa lo schermo per proiettare la fede. O addirittura rilanciati, sotto
forma di recupero delle tradizioni religiose del vecchio mondo, in una fusione
tra ipertecnologico e criptoscintoismo futurista, in saghe come Evangelion. E in questo suo lavoro di
ingerimento e digestione dei generi, delle idee, dei concetti che hanno
fatto la modernità, e di reinterpretazione e traduzione delle tradizioni e
degli immaginari del passato la science fiction ci dimostra non soltanto
di saper divorare tutto, ma anche di voler provare a disinnescare
l’ineffabile: cos’altro se non la morte, che è la compagna più
fedele del sacro? Come fare a superare, a bypassare
la “signora con la falce” se non mettendoci in grado di conoscere il
futuro? La fantascienza pretende proprio,
sin dalla sua nascita, di essere in grado di conoscere il futuro: le case che
avremo, le città che abiteremo, le esistenze e le identità che indosseremo…
ma pure le armi che useremo per combattere le guerre che ci sentiremo tenuti o
che saremo costretti a fare … ma tanto i terrori che la guerra e il suo
indotto di stupri, distruzioni, terrori, schiavitù generano trovano comunque le
loro metafore nell’altra faccia della narrativa d’immaginazione, che la science
fiction ha separato da sé: lo sword & sorcery e gli orrori
narrati da Lovecraft, King, Barker. Altre mappe dell’inferno, una declinazione
necessaria del sacro. Il futuro però è dietro l’orizzonte e con lui la
capacità della sf di visionarlo e noi, tramontate le grandi narrazioni, immersi
nella cosiddetta realtà, nella coralità di innumerevoli piccoli discorsi, noi,
soggetti dal breve periodare, ci ritroviamo paradossalmente sulle tracce di un
tema, il sacro, imponente per dimensioni e implicazioni. Lo si scorge ovunque, abbiamo detto, nelle fiction
televisive, nelle anime del Sol Levante, nella rete, nei succedanei
dell’incanto, i non luoghi dove scintilla la merce e l’umano si fa opaco,
nelle propaggini delle avanguardie, nella videoarte. Ne restiamo abbagliati
quando riemerge dallo spazio interno grazie alle tecniche psicoterapeutiche. Il
postmoderno ripropone l’ubiquità del sacro, laddove la società industriale
aveva sistematicamente tentato di cancellarne ogni traccia. Qualcosa di diverso però c’è, il tempo non è
trascorso invano: quando oggi parliamo di sacro dobbiamo precisare che
ragioniamo soprattutto intorno al sacro senza religioso. Una differenza
notevole, poiché, forse restituisce al sacro quella dimensione perturbante che
le religioni avevano osato normalizzare, anche se spesso si ripropone un
simulacro del sacro, declinato in generi, correnti, stili e anche mode. Il sacro senza religioso, però, ha anche una gamba
nel cosiddetto universo reale. Emblematica in tal senso la New Age, ma anche
l’alone mistico che circonda non poca della pratica ambientalista, dei consumi
verdi e delle logiche sottese – quando sono in buona fede – al cosiddetto
sviluppo sostenibile. Non solo: finita l’era delle grandi narrazioni anche il
sacro si ripropone segmentato in piccole storie, nella fiction e nel quotidiano,
dimensione sempre più sfumata nell’intrattenimento ed estetizzata, design/ata
e soprattutto accompagnata 24 su 24 da colonne sonore trasmesse da varie fonti,
pensate, dedicate, mirate a target più o meno estesi. Chiudiamo il cerchio: non c’è
sacralità, inoltre, senza vittima sacrificale e anche il sacro senza religioso
se ne abbevera.
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