MAPPE | NAPOLEONE, UN SOVRANO DELLA FICTION | QDAT 61 | 2016
Durante la tragica ritirata di
Russia nel 1812, Napoleone brucia – tra le tante sue carte
personali – anche gli appunti per un’autobiografia
che aveva iniziato a scrivere. Certamente non si trattava di materiali
compromettenti, da far sparire per evitare che cadessero in mani
nemiche. Ma non era la prima volta che Napoleone gettava nel fuoco dei
suoi manoscritti. Un giorno il suo ministro degli esteri, Talleyrand,
pensando di fargli cosa gradita, gli aveva portato
l’originale del saggio che nel 1791 il giovane
còrso aveva inviato all’Accademia di Lione, che
aveva bandito un concorso sul tema “Quali sono le
verità e i sentimenti più importanti
perché l’uomo impari a essere felice?”.
C’erano in palio 1.200 franchi e Napoleone, che
all’epoca aveva ventidue anni, pochi soldi e il sogno di
diventare scrittore, ci mise sei mesi a scrivere il suo testo; fu
sonoramente bocciato dalla giuria. Quando lo rilesse, ormai Imperatore,
pensò bene di gettarlo nel fuoco, per la costernazione di
Talleyrand. Per fortuna se ne sono conservate delle copie.
All’epoca era già pienamente maturata, in
Napoleone, l’idea di costruire intorno alla sua persona un
mito, una leggenda quanto più possibile priva di macchie,
depurata dagli episodi poco memorabili, dagli incidenti più
imbarazzanti. Nel 1812, mentre iniziava quel riflusso che avrebbe
trascinato giù tutto l’enorme Impero che aveva
costruito in pochi anni, già si sviluppava invece
un’altra idea: che la storia della sua vita non dovesse
essere raccontata da lui stesso, ma da altri, stando ben attento che
fosse la sua versione della Storia a essere
adottata. Quando – è il 20 aprile 1814 –
saluta, in un episodio destinato a imprimersi nella leggenda
napoleonica, i veterani della Vecchia Guardia radunati nel cortile del
castello di Fontainebleau, prima di salire sulla carrozza che lo
condurrà al primo esilio, quello dell’Elba,
dichiara: “Soldati! Non mi resta che una missione da
compiere, ed è per essa che ho consentito a vivere.
È di raccontare alla posterità le grandi cose che
abbiamo fatto insieme” (cit. in Ludwig, 1999). Ma, durante i
dieci mesi di esilio all’isola d’Elba, non si
accingerà mai a intraprendere quel compito; sa bene che
è ancora presto per farlo. E difatti, durante
l’assai più penoso e lungo viaggio che lo
condurrà al suo secondo e ultimo esilio, quello di
Sant’Elena, ecco il progetto concretizzarsi. “Ma
che potremmo fare in quel luogo sperduto?”, chiede Napoleone
un po’ a se stesso, un po’ al conte Emmanuel de Las
Cases, uno dei pochissimi volontari che hanno accettato di seguirlo
sull’ingrata isola dell’Atlantico. E Las Cases gli
risponde, prontamente: “Vivremo del passato, Sire;
c’è di che appagarci. Non godiamo, forse, leggendo
della vita di Cesare o di quella di Alessandro? Noi avremo di meglio,
perché, Sire, rileggerete voi stesso!”. Non ci
mette molto a convincere Napoleone, che prontamente replica:
“Bene, scriveremo le nostre Memorie”
(Las Cases, 2004). In effetti in quei cinque anni di esilio
detterà ai suoi fedelissimi – i cosiddetti
“evangelisti di Sant’Elena” –
tre volumi di memorie, rispettivamente sulla campagna
d’Italia, su quella d’Egitto e sul periodo
dell’Elba e dei Cento Giorni. Lo fa parlando in terza
persona, imitando lo stile delle opere memorialistiche di Cesare, il
suo modello ideale. Ma questi volumi non sono destinati a grandissima
fortuna; ben altra accoglienza riceverà invece
un’altra opera, quella scritta dallo stesso Las Cases sulla
base delle conversazioni quotidiane svolte con Napoleone a
Sant’Elena. Il monumentale Memoriale di
Sant’Elena, opera destinata a influenzare
un’intera generazione, quella del Romanticismo, è
la summa della leggenda napoleonica. È
attraverso di essa che Napoleone racconta la sua versione della Storia,
sapendo che avrà maggior eco dal momento che non
l’avrà scritta egli stesso, ma uno storico di
professione. Di tanto in tanto egli chiede a Las Cases di fargli
leggere quel diario che sa bene diventerà un giorno il
più grande best-seller
dell’Ottocento (“Tutti i giovani più
distinti leggono il Memoriale di Sant’Elena
e si dichiarano pazzi per l’Imperatore”,
scriverà Stendhal [1999]): e, nel centellinare le sue
massime, i suoi ricordi, le sue riflessioni sul passato e sul futuro,
sa bene che ogni sua frase sarà un giorno letta e riletta
dai posteri.
“Che romanzo è stata la mia vita!”, dirà egli stesso un giorno, sempre a Sant’Elena (cit. in Roberts, 2015). Ma quell’idea di fare della sua vita un romanzo, una fiction – come diremmo oggi – era presente nella sua testa fin dai primissimi anni. Un romanzo l’aveva anche scritto: nel 1795, nel momento più difficile della sua carriera, privato di ogni comando e del suo primo amore, Désirée, scrive Clisson et Eugénie, storia melensa in cui Clisson, eroico militare della Rivoluzione, è naturalmente Napoleone, ed Eugénie, sua amata, è l’ormai perduta Désirée. In quella storia Clisson trova la morte – volontaria – in battaglia; è l’ideale della morte eroica che lo stesso Napoleone tenterà (senza troppa convinzione) a Waterloo, prima di essere tratto in salvo dai suoi soldati, e che Tolstoj, in una scena famosissima, rappresenterà nel suo Guerra e Pace: Napoleone che scorge il principe Andréj, steso a terra e creduto morto, con la bandiera a fargli da feretro, e commenta Voilà une belle mort! Il valore di quel romanzetto, che sarebbe stato del tutto dimenticato se a scriverlo non fosse stato Napoleone, sta proprio nell’identificazione dell’autore con il suo personaggio. Per tutta la vita, Napoleone cerca di essere Clisson.
Per riuscirci, occorre non solo farsi protagonista della Storia, ma anche raccontarla, scrivere la sua versione. Il momento-chiave è la campagna d’Italia. È il 1796, Napoleone ha fatto una carriera fulminante, tipica degli anni della Rivoluzione. Ha tentato di assumere un ruolo centrale nelle vicende della sua isola natale, la Corsica, finché Pasquale Paoli – il suo vecchio eroe e mentore – non ha tradito consegnando l’isola agli Inglesi e costringendo la famiglia Bonaparte, filo-francese, a riparare a Marsiglia. Poi è diventato giacobino di ferro, amico di Augustin Robespierre (il fratello minore dell’Incorruttibile), grazie al quale il suo piano per riconquistare Tolone, porto strategico caduto nelle mani degli Inglesi, è stato accolto e realizzato con successo. Con il Termidoro e la caduta di Robespierre si è fatto qualche giorno di prigione ed è rimasto senza incarichi. Partito per Parigi, è entrato nelle grazie di Paul Barras, presidente del Direttorio – il nuovo organo esecutivo della Francia – che ha conosciuto a Tolone; Barras gli ha ceduto la sua amante, Giuseppina Beauharnais, avvenente trentenne vedova di un generale ghigliottinato sotto il Terrore. E gli ha concesso anche il comando delle truppe durante l’insurrezione realista del 13 vendemmiaio 1795; schiacciando i rivoltosi a cannonante per le strade di Parigi, si è guadagnato il tiolo di “generale Vendemmiaio”, difensore della Rivoluzione. Ma soprattutto il comando dell’armata d’Italia. È qui che inizia la sua vera carriera. Quell’armata è tale solo di nome: il Direttorio la vuole usare in un’azione diversiva contro gli Austriaci, che controllano il Nord Italia, ma la maggior parte dei soldati è senza armi e persino senza scarpe. Nondimeno, Napoleone promette loro di condurli “nelle più fertili pianure del mondo”, come scrive nel suo celebre proclama all’armata. E ci riesce; batte ripetutamente gli Austriaci e i loro alleati, i Piemontesi, in una serie interminabile di battaglie: Montenotte, Millesimo, Dego, Lodi, Rivoli, Castiglione, Bassano, Arcole. Sono nomi che la generazione romantica imparerà a memoria. Lì Napoleone diventa il “piccolo caporale”, soprannome affettuoso affibbiatogli dai soldati dell’armata. Lì capisce dove può portarlo la sua carriera. Dopo la battaglia del ponte di Lodi, che gli apre le porte di Milano, avviene la trasformazione: “Non mi consideravo più un semplice generale, ma un uomo chiamato a decidere della sorte dei popoli. Mi venne in mente che potevo davvero diventare un attore decisivo sul nostro palcoscenico nazionale. Nacque in quel momento la prima scintilla di una suprema ambizione” (cit. in Roberts, 2015).
Il generale Bonaparte inizia a diventare Napoleone. Non è più solo un militare: diventa l’idolo dei francesi e degli italiani, ai quali promette libertà e indipendenza, contribuendo a fondare le prime “repubbliche sorelle” del Nord Italia. A Mombello mette su una sorta di piccola corte dove riceve la migliore aristocrazia italiana e tratta con gli Austriaci come se fosse già l’Imperatore. Ma soprattutto, attraverso i giornali che fa fondare presso l’armata, inizia a costruire la sua leggenda. Il Journal de Bonaparte et des Hommes Verteux riporta frasi del tipo: “Annibale ha dormito a Capua, invece a Mantova Napoleone non dorme”. Le detta lui stesso. A Milano il giovane Marc-Antoine Jullien, giacobino, dirige il Courrier de l’armée d’Italie, dove non mancano analoghe descrizioni del comandante in capo: “Egli vola come il lampo e colpisce come la folgore. Egli è dappertutto e vede tutto”. E ancora il più moderato giornale La France vue de l’armée d’Italie, dell’ex deputato della Costituente, Saint-Jean d’Angély, descrive così Napoleone: “Se si penetra nell’intimità della sua vita, si troverà l’uomo semplice che si spoglia di ogni sua grandezza in seno alla famiglia, abitualmente assorto in qualche grande progetto che gli fa interrompere il sonno e i pasti” (cit. in Tulard, 2000).
In effetti, quando torna finalmente a Parigi, accolto come un eroe, il vincitore d’Italia si spoglia subito di ogni grandeur. Affetta di portare, al posto dell’uniforme militare, la divisa dell’Institut de France, di cui è stato appena eletto membro, all’interno della sezione di scienze fisiche e matematiche. A lungo si firmerà semplicemente come “Bonaparte, membro dell’Istituto”. Sembra abbia realizzato la sua massima ambizione. Ma non è così. Si fa affidare l’incarico di conquistare l’Egitto per sottrarla alla sfera d’influenza dell’Inghilterra, unica nazione ancora in armi con la Francia rivoluzionaria, e per bloccare il commercio inglese con l’India. Operazione militare destinata al fallimento, ma che Napoleone trasformerà in gigantesca operazione culturale. Con lui partono “167 fra geografi, botanici, chimici, antiquari, ingegneri, storici, tipografi, astronomi, zoologi, pittori, musicisti, architetti, orientalisti, matematici, economisti, giornalisti, ingegneri civili e aeronauti, i cosiddetti savants” (Roberts, 2015). Durante la traversata del Mediterraneo, Napoleone si intrattiene con loro parlando di tutto quello che gli salta in mente, compresa la possibilità di vita su altri mondi. Mentre in Egitto è impegnato a combattere i bey (cercando anche di accattivarseli indossando il turbante e citando il Corano, ma la pagliacciata non convince), i savants riscoprono la civiltà dell’Antico Egitto. Negli anni successivi scoppierà in Francia la “moda egizia” nell’arredamento e nell’architettura, mentre Napoleone si farà promotore dell’imponente operazione editoriale della Description de l’Égypte in 23 giganteschi volumi, alla base della moderna egittologia (cfr. “Quaderni d’Altri Tempi” n. 21). Con essa, Napoleone farà dimenticare ai francesi i disastri della disfatta navale di Abukir, in cui l’ammiraglio inglese Nelson fa affondare tutta la flotta francese ancorata davanti ad Alessandria, nonché lo scacco dell’infruttuoso assedio di San Giovanni d’Acri, condotto ostinatamente da Napoleone per settimane durante la campagna di Siria, e gli episodi più oscuri della vicenda napoleonica, come la fucilazione di mille prigionieri turchi a Jaffa o il presunto avvelenamento di soldati francesi malati di peste.
Tornato precipitosamente dall’Egitto, dove ha lasciato il suo esercito, allarmato dalle notizie che vendono la Repubblica francese in pericolo, minacciata dalla nuova coalizione europea, Napoleone è accolto come il “salvatore”. Parigi è colta da una “commozione elettrica”, come dirà un testimone dell’epoca, l’ex deputato rivoluzionario Thibiaudeau (cit. in Mascilli Migliorini, 2001). Il Direttorio, ormai screditato, è pronto per essere rovesciato. L’abate Sieyès, uno degli iniziatori della Rivoluzione dell’89, è pronto ad abbattere il governo e a sostituirlo con un nuovo regime; gli occorre “una spada”, e la trova in Napoleone. Nasce così il colpo di stato del 18 brumaio (9-10 novembre 1799): Napoleone, con i suoi granatieri, scioglie le camere e costringe i membri del Direttorio alle dimissioni. Il potere è concentrato nelle mani di un triumvirato di tre consoli. Lui, non Sieyès, diventa Primo Console. Lo storico Jean Tulard, il più grande storico contemporaneo di Napoleone, apre la sua biografia proprio con il colpo di stato di Brumaio: è lì che nasce le mythe du saveur, il mito del salvatore, come riporta il sottotitolo della sua opera, pubblicata nel 1977. “Bonaparte, forse dopo Cesare, è il primo a comprendere l’importanza della propaganda”, scrive Tulard. “Con la stampa e l’inventiva popolare egli ha saputo trasformare la sua campagna d’Italia in una vera Iliade. La spedizione d’Egitto, benché conclusa in una sconfitta, con la penna dei cronisti assume l’aspetto di una epopea orientale e Bonaparte è l’uguale di Alessandro e di Cesare. Egli affascina, irrita, soggioga, ma nessuno lascia indifferente” (Tulard, 2000).
Inizia il “Grande Consolato”. Cinque anni durante i quali Napoleone diventa il pacificatore, l’uomo che pone fine alla Rivoluzione conservandone le conquiste politiche e sociali. A Marengo batte gli Austriaci e riconquista l’Italia. Dopo lunghi negoziati riesce a fare la pace anche con l’Inghilterra. Pacifica il paese mettendo fine alla chouannerie, la guerriglia cattolica-realista che per anni insanguina la Bretagna. Pone fine alla disastrosa politica economica del Direttorio, istituendo il franco d’argento e la Banca di Francia. Emana il nuovo Codice civile (il Code Napoléon) e successivamente quello penale. Infine, conclude la pacificazione religiosa, sanando la ferita più sanguinosa della Rivoluzione: il Concordato con papa Pio VII (1801) fa di nuovo del cattolicesimo la religione “della maggioranza dei francesi”, ma al tempo stesso riconosce l’acquisizione da parte dei privati dei beni ecclesiastici venduti dal governo rivoluzionario negli anni precedenti. “Trascorsi gli anni di Alessandro, sono ora quelli di Solone che cominciano” (Mascilli Migliorini, 2001). Ma non durano a lungo. Napoleone è un uomo nato dalla guerra e non sa accettare di buon grado le provocazioni dagli Inglesi. La pace di Amiens è ben presto rotta. Nel frattempo, liquidata l’opposizione di sinistra e annientati i realisti ancora legati ai Borbone (per dare un esempio, il duca d’Enghien, un membro della dinastia Borbone, è stato catturato all’estero e fucilato in Francia), Napoleone fa pressioni sugli accondiscendenti membri delle camere per ottenere prima il consolato a vita e poi il titolo di Imperatore. Il tutto sancito da una serie di “plebisciti”, in cui i risultati – pur pesantemente truccati per apparire ancora più eclatanti – dimostrano il solido consenso di cui Napoleone gode nel paese.
La costruzione dell’Impero, nel corso del 1804, è attentamente studiata da Napoleone. Egli intende diventare sovrano senza far apparire il suo regno come un ritorno all’ancien régime. Va ad Aquisgrana per omaggiare Carlo Magno nella sua tomba; vuole sottolineare che il suo Impero è la continuazione di quello carolingio, cosa che ne sottintende anche l’ambizione paneuropea. Nel settembre di quell’anno, al Salon, viene esposto il celebre quadro di Antonie-Jean Gros, Napoleone visita gli appestati di Giaffa, nel quale è rappresentato il mito medievale del re-taumaturgo: Napoleone, con il suo tocco regale, favorisce la guarigione degli appestati. Il 2 dicembre, infine, si svolge la grandiosa incoronazione nella cattedrale di Notre-Dame, i cui interni sono ridisegnati per assomigliare a quelli di un tempio dell’antichità, benché la cerimonia sia squisitamente cattolica, dal momento che a officiarla c’è il papa, fatto venire apposta da Roma. Ma, com’è noto, Napoleone s’incorona da sé, perché resta un “imperatore della Repubblica”, come sottolinea la denominazione ufficiale (almeno fino al 1807). Il giuramento che egli compie, d’altro canto, si rivolge al popolo francese, non a Dio: è un “patto” in base al quale Napoleone Imperatore giura di rispettare l’integrità della Repubblica, la vendita dei beni nazionali (le proprietà ecclesiastiche e nobiliari vendute ai privati durante la Rivoluzione), rispettare le libertà civili e politiche. Jacques-Louis David, il grande artista che ha già servito sotto la Rivoluzione, rappresentandone i momenti più salienti (per esempio la Morte di Marat) ma anche occupando posti politici di primo piano (per esempio nel governo di Robespierre), ha il compito di rappresentare la grandeur dell’incoronazione nel quadro iconico dell’Impero, dove Napoleone è intento a incoronare l’Imperatrice Giuseppina.
Gradualmente, l’Impero si libera dalla pastoie repubblicane. Napoleone fonda un’aristocrazia imperiale, conferendo ai suoi generali e agli esponenti di spicco del suo governo i titoli di conte, duca, barone, e feudi simbolici che portano i nomi delle sue vittorie militari. L’ape operosa diventa l’icona di Napoleone: viene ricamata sulle tende, sui tappeti, sulle tovaglie del palazzo delle Tuileries, residenza dell’Imperatore. La lettera “N” è invece stampata sulla tazze, sui piatti, sulla biancheria imperiale. La dinastia napoleonica si consolida con il conferimento, agli altri membri del clan Bonaparte, di troni in mezza Europa. Giuseppe, il fratello maggiore, diventa nel 1806 re di Spagna (trono che conserverà con molta fatica fino al 1813). Luigi è re d’Olanda, almeno finché Napoleone non si scoccerà e annetterà l’Olanda all’Impero, nel 1810. Girolamo re di Westfalia, stato della Confederazione del Reno, che unisce tutti gli staterelli tedeschi sottratti all’influenza dell’Austria e della Prussia. Elisa riceve il trono del Regno d’Etruria (la Toscana). Carolina il trono di Napoli, con il marito Gioacchino Murat. Il figliastro Eugenio Beauharnais è viceré d’Italia (il re, ça va sans dire, è Napoleone stesso). Solo Paolina e Luciano restano a bocca asciutta, anche se non se curano molto (la prima troppo impegnata a passare da un amante all’altro, il secondo esiliato a Roma in seguito alla rottura con l’ingombrante fratello, di cui pure a Brumaio aveva permesso l’ascesa al potere).
A consolidare il culto dell’Imperatore c’è la decisione di proclamare il 15 agosto, anniversario della sua nascita, festa di San Napoleone: un santo con questo nome, per la verità, non esiste, ma si riesce a trovare un oscuro martire romano con un nome più o meno simile da usare per la bisogna. Questa scelta inizia a trasformare le basi stesse della sua autorità; per usare le celebri tassonomie di Max Weber, all’autorità carismatica Napoleone inizia ad aggiungerne una di tipo tradizionale. Lo sollecitano, in tal senso, i suoi più stretti consiglieri, come Fouché e Talleyrand: bisogna costruire una dinastia e per farlo bisogna legare il sangue dei Bonaparte con quello delle antiche dinastie europee, per fornire all’Impero radici più robuste. Nel 1810 Napoleone si decide al gran passo: divorzia da Giuseppina, che non è riuscita a dargli un erede, e sposa Maria Luisa d’Austria, figlia dell’imperatore Francesco, che lui stesso ha battuto quattro volte. Anni prima, quando qualche archivista gli chiedeva udienza per presentargli documenti che attestavano l’antica origine nobiliare del casato dei Bonaparte (ancora oggi oggetto di discussione tra gli storici, ma probabilmente proveniente da San Miniato, in Toscana), Napoleone liquidava la faccenda sottolineando che la nobiltà dei Bonaparte iniziava con lui. Ora invece è disposto ad andare a letto con la discendente di una delle più antiche famiglie aristocratiche d’Europa, gli Asburgo. Solo così, egli crede, diventa possibile liberarsi dalla patina di parvenu che gli impedisce di trattare da pari con le altre teste coronate. Non c’è più spazio per l’eroe rivoluzionario.
La sua forza è ancora tutta nell’esercito, di cui si considera espressione. Il 2 dicembre 1805, anniversario dell’incoronazione, ha vinto la sua più grande battaglia, Austerlitz, sconfiggendo l’imperatore d’Austria e lo zar di Russia, il giovane Alessandro. Destinata a mutare per anni l’assetto geopolitico europeo, Austerlitz è al centro della leggenda napoleonica. Il “sole di Austerlitz”, che emerge dalla nebbia la mattina della battaglia e saluta l’esercito francese, riecheggia il mito del “re Sole”. Austerlitz è anche il battesimo della Grande Armée, il nuovo assetto organizzativo dell’esercito napoleonico. Duecentocinquantamila soldati nel 1805, oltre 600.000 nel 1812, quando partirà la spedizione di Russia. Il nerbo dell’esercito, come sottolinea lo storico militare David Chandler, è la Vecchia Guardia: “Naturalmente, servire nella Guardia costituiva un immenso privilegio e un onore. La qualifica minima necessaria per entrare nella Vecchia Guardia era di cinque anni di servizio e due campagne (…). Appartenere alla Guardia comportava notevoli vantaggi materiali; i comuni granatieri e i cacciatori ricevevano la paga da sergente, i caporali della Guardia erano pagati secondo le stesse tabelle dei sergenti maggiori e così via, fino al sommo della gerarchia. Inoltre, la Guardia godeva sempre di razioni e rifornimenti speciali (…). Non vi era dubbio che gli uomini della Guardia fossero i «ragazzi preferiti» di Napoleone: gli davano una forte riserva di truppe scelte, sempre a sua immediata disposizione e pronte per essere inviate in azione nel punto e nel momento decisivi” (Chandler, 1968). Chiamati familiarmente grognards (“brontoloni”), i soldati della Guardia portano, come segno distintivo, grossi baffoni. Ancora più di loro, i massimi rappresentanti dell’ascesa sociale dell’età napoleonica sono i Marescialli, istituiti contestualmente all’Impero, nel 1804. Quel titolo ambitissimo e prestigiosissimo è conferito da Napoleone sono ai suoi migliori generali; ma, come egli è solito dire, tutti i suoi soldati portano nella giberna un futuro bastone di Maresciallo dell’Impero. Combattere per Napoleone significa poter diventare, come è stato per Gioacchino Murat, generale, maresciallo e re. La nuova aristocrazia napoleonica conta moltissimi uomini dell’esercito, “in tutto 23 duchi, 193 conti, 648 baroni e 117 cavalieri” (Chandler, 1988). Tutto l’Impero poggia sull’immagine dell’Imperatore-soldato, che si espone in prima linea durante le battaglie e spesso condivide il rancio con le sue truppe, non disegnando talvolta di dormire con loro all’aria aperta (a Sant’Elena ricorderà quelle notti come le più belle della sua vita).
Dopo la battaglia di Wagram, nel 1809, avviene tuttavia un cambiamento. Battuta l’Austria per la quarta volta, impegnato nel pantano della Spagna, dove la guerriglia impedisce di pacificare il paese conquistato, e con un’alleanza turbolenta con la Russia siglata a Tilsit due anni prima ma che già mostra le prime crepe, Napoleone cerca la stabilità. Le memorie dei contemporanei ricorderanno, da quel momento in avanti, un Napoleone più apatico, meno avvezzo alle scomodità delle campagne. Per tre anni non si combatte più. Dopo il matrimonio con Maria Luisa, nel 1811 nasce Napoleone Francesco, l’attesissimo erede dell’Impero. Resterà noto con il titolo nobiliare di “re di Roma”. Napoleone s’imborghesisce, sogna di trascorrere il resto della sua vita a governare l’Impero da Parigi in compagnia della nuova moglie, di cui è molto innamorato, e del figlio, che spera possa superarlo in grandezza: “Lui sarà Alessandro Magno, io non sono altro che Filippo il Macedone”. Fa avviare grandi lavori di sistemazione del palazzo del Quirinale, a Roma, che dal 1809 è stata annessa all’Impero (il papa deportato a Savona): vorrebbe farvi un ingresso trionfale nel 1812 per farne la seconda capitale dell’Impero, affidandone il governo al figlio fino alla maggiore età. Ma il precipitare degli eventi impedirà la realizzazione di quel sogno.
Il 1812 è infatti l’anno della campagna di Russia. Rotto ormai il patto di Tilsit con lo zar Alessandro, che ha ripreso i commerci con l’Inghilterra in spregio al Blocco Continentale decretato da Napoleone e che riarma l’esercito per reazione all’occupazione francese della Polonia (il Granducato di Varsavia, protettorato napoleonico), la guerra con la Russia diventa, per Napoleone, inevitabile. In quel momento, probabilmente, è sedotto dal sogno di diventare Imperatore d’Occidente: solo la Russia, infatti, si frappone tra lui e il controllo totale dell’Europa (la Prussia e l’Austria, infatti, sono state costrette ad allearsi con la Francia e fornire truppe per la campagna). Il 1812 è l’anno del disastro: degli oltre 630mila uomini partiti per la Russia, ne faranno ritorno appena 10mila. L’inutile conquista di Mosca, bruciata dagli stessi russi, non pone fine al conflitto. La ritirata, pensata come semplicemente ripiegamento nei quartieri d’inverno in Lituania, da dove riprendere la campagna in primavera, si trasforma in una catastrofe. L’inseguimento dei cosacchi e il freddo intenso, a cui i francesi non sono abituati, fanno strage. Il 1812 è l’anno di tre grandi scene: l’incendio di Mosca, che sarà raccontato poi in con immagini vividissime da Tolstoj; il disperato passaggio del fiume Beresina, con i genieri francesi immersi nell’acqua gelata fino alla cintola per gettare in tempi record i ponti necessari al passaggio, mentre i russi premono alle spalle; Napoleone che parte a bordo di una slitta, accompagnato dal Gran Scudiero, Armand de Caulaincourt, lasciando il comando dell’esercito a Murat per ritornare di gran carriera a Parigi, dove un oscuro generale, Malet, ha tentato un colpo di stato diffondendo la notizia della sua morte in Russia (un episodio brillantemente raccontato da un libro poco noto, Napoleone è morto in Russia di Guido Artom, del 1968). Entrando nella sua capitale, Napoleone si è fatto precedere dal “terribile” 29° bollettino della Grande Armata. I bollettini di guerra, dettati sempre da Napoleone, erano diventati noti, in Francia, per le esagerazioni e le iperboli, al punto da essere divenuti proverbiali: falso come un bollettino dell’armata, si diceva. Ma il 29° bollettino non nasconde la portata enorme del disastro in Russia. Il più grande esercito del mondo è stato annientato. In quel bollettino, che si chiude con parole che suonano come uno schiaffo ai tanti francesi che hanno perso i propri parenti nelle nevi russe – “la salute dell’Imperatore non è mai stata migliore” – tutte le colpe sono attribuite al freddo eccezionale, al terribile “generale Inverno”; che certamente ebbe un ruolo decisivo, ma almeno uguale alla disorganizzazione di quell’enorme armata dove, in pochi giorni, la disciplina viene completamente meno. La storica Anka Muhlstein ha evidenziato come questa leggenda abbia “messo radici nel corso dell’Ottocento”, ricordando “Victor Hugo – quando parla dei trombettieri, bianchi di brina, che «incollano la loro bocca pietrificata alle trombe di cuoio» - e Balzac, ossessionato dalla neve, quando descrive il dramma dei poveri soldati che attraversano «quegli immensi deserti innevati, senz’altra bevanda che la neve, senz’altro nutrimento che la neve o qualche barbabietola gelata»”. Soprattutto, nota Mulhstein, “la ritirata di Napoleone, da sordida, [è] diventata talmente grandiosa da entrare nella leggenda” (Mulhstein, 2008).
L’Impero si sfalda rapidamente. Gli alleati defezionano: prima la Prussia, poi l’Austria, a dispetto del matrimonio dinastico. Nel celebre e drammatico colloquio di Dresda con Metternich – siamo nell’agosto 1813 – durato quasi dieci ore, Napoleone getta a più riprese a terra il suo copricapo. Ma non basta: gli austriaci lo sconfiggono a Lipsia e lo costringono a una precipitosa ritirata in Francia. Nella primavera del 1814 si combatte la campagna di Francia: alla guida di poche decine di migliaia di soldati (niente in confronto ai numeri di un tempo), Napoleone riesce a tenere testa a forze enormemente superiori, costituite dalle truppe di Prussia, Russia e Austria. Gli storici militari la definiranno la sua più brillante campagna. Ignorando tuttavia una sua manovra disperata per tagliarne le linee di comunicazione, gli eserciti alleati decidono di marciare su Parigi, rimasta sguarnita. La capitolazione è immediata. Napoleone e le truppe ancora al suo comando riparano su Fontainebleau. È lì che, il 6 aprile 1814, firma l’abdicazione, sotto la pressione dei Marescialli, che rifiutano di continuare a combattere. Nasce qui un altro mito, quello del “tradimento”: Napoleone poteva ancora vincere, aveva ancora sufficienti truppe al suo comando per tentare una battaglia sotto le mura di Parigi, e furono i Marescialli, in particolare Marmont, che consegnò tutta la sua armata al nemico, a costringerlo alla resa. Mito, appunto, ma che contribuirà alla leggenda (tanto che si conierà un modo di dire, ragusata, sinonimo di tradimento, riferendosi a quello di Marmont, duca di Ragusa). Gli viene concessa in cambio la sovranità dell’isola d’Elba; la trasforma, nei dieci mesi di esilio, in un Impero in miniatura. Ma, per un uomo che fino a due anni prima sognava di diventare Imperatore d’Occidente, 223 chilometri quadrati di superficie sono davvero troppo pochi. Alla fine di febbraio 1815 parte con tre navi eludendo la sorveglianza inglese e il 1° marzo sbarca in Francia. Ha pensato a lungo alle parole da affidare al proclama all’esercito, effettivamente ben scelte: “L’aquila con i colori nazionali volerà di campanile in campanile fino a posarsi sulle torri di Nôtre-Dame”. L’impresa resterà nota come “il volo dell’aquila”, il tragitto compiuto fino a Parigi è oggi la Route Napoléon, RN 85, una delle strade nazionali francesi, istituita formalmente con questo nome nel 1935.
Iniziano i Cento Giorni. Napoleone riconquista il suo trono senza sparare un solo colpo: i soldati e i generali che Luigi XVIII gli manda incontro per fermarlo si arrendono nelle sue braccia. Tutto qui è Storia che diventa mito: l’incontro decisivo a Laffrey con il primo reggimento che gli sbarra la strada, a cui Napoleone va incontro a braccia aperte (“se c’è qualcuno che vuole sparare al suo Imperatore, me voilà” [cit. in Dumas, 2003]); il Maresciallo Ney, da Napoleone definito “il più prode dei prodi”, che prima promette a Luigi XVIII di riportare l’ex Imperatore a Parigi “in una gabbia di ferro” e poi gli si arrende in lacrime (cfr. Ludwig, 1999); l’ingresso alle Tuileries, da dove il vecchio Borbone è fuggito la sera prima, e dove i vecchi domestici hanno rapidamente srotolato i tappeti e le tende con il simbolo dell’ape al posto di quelli con il giglio borbonico. E tuttavia, come sottolineerà Edgar Quinet, “Napoleone e la Francia si guardarono in faccia e si trovarono cambiati, come se fossero stati separati da molte generazioni. Fecero fatica a riconoscersi l’un l’altro” (cit. in Mascilli Migliorini, 2016). In pochi credono alle promesse di Napoleone di sostituire al precedente regime autoritario un governo costituzionale. E ancor meno alla possibilità di riuscire a battere gli eserciti di Inghilterra, Prussia, Austria e Russia che vanno mobilitandosi. Non ci credono forse nemmeno i due Marescialli che lo accompagnano nella campagna del Belgio, Ney e Grouchy, che sommano errori a errori. D’altro canto, Napoleone appare imbolsito, lento ed esitante, come lo descriverà il suo segretario personale, il barone Méneval: “Non lo trovai più penetrato dalla certezza della vittoria; pareva che la fede nella sua fortuna, da cui era stato sorretto durante la marcia su Parigi, lo avesse ora abbandonato” (cit. in Paura, 2014). È così che la battaglia di Waterloo, ritenuta da Napoleone all’alba “facile come fare colazione” (cit. in Barbero, 2003), si trasforma nella sua più grande disfatta. Gli inglesi di Wellington si rivelano un osso duro e, peggio ancora, al calar della sera arrivano anche i Prussiani di Blücher, che il Maresciallo Grouchy non è stato in grado di tenere lontani. Si formano i quadrati per coprire la ritirata. Napoleone, al centro di uno di essi, vede tutto intorno l’esercito sbandarsi, il sogno finire in una nuvola di polvere, fumo, sangue e grida confuse. Il generale Cambronne pronuncia la sua famosa risposta all’offerta di consegnare le armi (Merde!), che Hugo e Proust per perifrasi chiameranno le mot e Cambronne, e che secondo altri invece fu più lirica: “La Guardia muore ma non si arrende” (cit. in Barbero, 2003).
A Parigi bisogna firmare una nuova abdicazione. Questa volta andrà a Sant’Elena, isola sperduta nell’Atlantico, lontana giorni e giorni di navigazione dalla terraferma più vicina. Ma non tutto è finito. Dalla fine del 1815 al 5 maggio 1821 Napoleone combatte l’ultima battaglia, quella con la Storia: “Ho portato in capo la corona imperiale di Francia e la corona di ferro d’Italia; ora l’Inghilterra mi ha conferito una corona ancora più grande e gloriosa, perché è quella portata dal Salvatore del mondo: una corona di spine” (cit. in Andrews, 2015). Avviene la trasfigurazione. Napoleone-Cristo detta agli Evangelisti – Las Cases, il generale Bertrand, il generale Gourgaud, il generale Montholon, il domestico Marchand – le sue memorie e le sue osservazioni. L’immagine che costruisce di sé è quella dell’Imperatore illuminato, erede della Rivoluzione, modernizzatore dell’Europa. È un’immagine veritiera? La Storia l’ha in parte smontata, ma sotto la patina resta comunque qualcosa che luccica. Morto per un cancro allo stomaco o, come vorranno alcuni, per un avvelenamento (e giù migliaia di pagine di indagini e supposizioni), Napoleone resta sepolto a Sant’Elena fino al 1840. Poi Filippo d’Orléans, durante la Monarchia di Luglio, negozia con gli Inglesi il suo ritorno. La grandiosa spedizione per il “ritorno delle ceneri” e il secondo funerale a Parigi, alla presenza di un milione di spettatori, testimoniano la dimensione del mito. Ad alimentarlo è stato, più di tutti, il Memoriale di Las Cases, rappresentazione più o meno fedele del penoso esilio: “Questa fine miseranda e solitaria su una roccia battuta dai flutti colpì l’immaginazione dei romantici. Tutta una generazione, quella degli enfants du siècle, che si era nutrita dei bollettini della Grande Armata, ritrovava nel Mémorial il fragore d’armi di cui la monarchia restaurata la privava” (Tulard, 2000). Quella generazione romantica, che si rifugerà nell’arte per sfuggire alla mediocrità del secolo, non dimenticherà mai quel “potente sonnambulo di un sogno che si è dileguato” (Hugo, 2014), e crederà, leggendone le gesta, di vivere ancora l’epoca perduta degli eroi che dal nulla possono trasformarsi in re e imperatori.
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