Zolo sembra
in sintonia con l’ultimo Umberto Eco (A passo di gambero).
Gli atlanti politici di oggi si confondono con quelli dell’inizio
del secolo scorso, nota Eco e Zolo guarda alla globalizzazione
come causa, qualsiasi cosa il termine significhi. Tenta di
individuarne tratti e confini il meno possibile indeterminati.
Tra le
letture del termine, Zolo propende per quella, a suo avviso più
equilibrata, fornita da Anthony Giddens, meno schierata sul fronte
degli apologeti o, al contrario, degli irriducibili oppositori.
Globalizzazione per Giddens designa “l’intensificazione di
relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località molto
lontane, facendo sì che gli eventi locali vengano modellati da
eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e
viceversa”.
Non è molto,
ma la definizione convince Zolo che la apprezza proprio in virtù
“della sobrietà semantica, della prudenza esplicativa e
dell’apertura pluridimensionale”. Impostazione che egli mantiene
nell’analizzare con realismo il disfarsi del vecchio mondo
moderno in tutti i suoi aspetti principali, da quello economico
alle comunicazioni di massa, dell’equilibrio ecologico a quello
che fu imposto dalla guerra fredda. La difficoltà di districarsi
tra le varie letture disponibili del concetto di globalizzazione
non deve meravigliare. Al pari di postmodernità da cui forse
discende, di cui forse è il motore, la globalizzazione si intona a
qualsiasi definizione salvo poi mostrarne le insufficienze.
Vale per la
modernità liquida di Zygmunt Baumann come per quella in polvere di
Arjun Appadurai, per il concetto (altro restauro?) di impero
proposto da Antonio Negri e per la macdonaldizzazione di Gorge
Ritzer. Forse il difetto è nel manico. Come possono funzionare le
analisi dei sociologi e dei politici se gli manca la materia
prima, ovvero la società? Le classi sociali sono evaporate, i
cluster di consumatori durano il tempo di una promozione, i
ceti produttivi sono stritolati da una tenaglia fatta di alta
tecnologia e nuovi schiavi. Forse bisognerebbe partire dalla
relazione pericolosa instaurata tra la sfera del consumo e quella
del militare.
Tra le righe
qualcosa in questa direzione emerge anche da quanto scrive Zolo:
“La nuova guerra può essere considerata globale in un senso
ideologico. Lo è innanzitutto per il costante richiamo a valori
universali che lo promuovono: esse giustificano la guerra in nome
non di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma da un
punto di vista superiore e imparziale che si ritengono condivisi o
condivisibili dall’umanità intera”. Ora, se da un lato abbiamo i
monoteismi che dichiarano guerra alla complessità del mondo,
abbiamo noi in Occidente un valore più universale della democrazia
del consumo?
Quanto
all’analisi condotta riguardo al progressivo smantellamento del
diritto internazionale e della mutazione della guerra, questa ha
trovato un’altra tragica conferma in Libano. Tornando a Zolo, non
solo è apprezzabile la misura dell’analisi, tesa a stendere “una
mappa dei problemi” come recita il sottotitolo, ma vale ancora di
più con queste premesse la chiusa del libro, quando l’autore
sottolinea la necessità di liberare il pianeta dal Washington
consensus, “il sigillo imperiale della negazione della
bellezza e della complessità del mondo”.
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