Basterebbe scorrere in sequenza la bizzarra compagnia di personaggi e casi presi in esame dalla studiosa Kim Toffoletti nel suo saggio Cyborgs and Barbie Dolls. Feminism, Popular Culture and the Posthuman Body (I.B.Tauris, 2007), per esserne catturati e leggerlo da capo a fondo. L’assortimento che il lettore si trova di fronte è a dir poco seducente e spiazzante, in primo luogo perché sono assenti i classici esempi che infarciscono gli scritti sulla materia, ovvero Terminator e le altre creature della narrativa e del cinema di fantascienza, comunemente evocate negli studi sul postumano e il cyborg. Diversamente, nel saggio di Toffoletti ci imbattiamo nelle foto di Marilyn Manson tratte dall’album Mechanical Animals (nel capitolo Posthuman Monsters: The Erasure of Marilyn Manson), nella bambola Barbie (Barbie: A Posthuman Prototype), nelle creature dell’artista Patrica Piccinini (Origins and Identity in a Biotech World) e in diverse pubblicità della TDK (Communicating the Posthuman Way with TDK). Sono questi i soggetti che Toffoletti ha selezionato per esplorare i temi connessi al concetto del postumano, entrando con un approccio originale nel cuore del dibattito interdisciplinare in corso da anni, che l’avvento del digitale e l’imporsi delle scienze morbide, la genetica e di conseguenza le biotecnologie in primis, hanno al tempo stesso stimolato e reso necessario. Il testo di Toffoletti si inserisce a pieno titolo in una eccellente genealogia critica: quella del pensiero femminista sulla tecnologia, di cui l’autrice propone un’utile mappatura e che ella stessa aspira ad implementare, proponendo un’analisi densa e audace, che guarda al potenziale, pur ambiguo e contradditorio, sprigionato da nuove figurazioni della contemporaneità hi-tech. Quelle che il testo affronta sono questioni fondamentali sulla natura stessa della soggettività, del corpo, della realtà e della percezione che ne abbiamo; si dibatte intorno alla transitorietà, allo sbriciolamento dei dualismi, all’egemonia del codice liberato, e oltre. Tutte voci di un essenziale dizionario della postmodernità che trova il suo fondamento, per sua natura instabile, nelle analisi di Jean Baudrillard, nei concetti di simulazione (e simulacro) che questi forgia e adopera, e cui Toffoletti rimanda a più riprese. Anche nel capitolo dedicato a Barbie, di cui presentiamo di seguito un cospicuo estratto, il ricorso a Baudrillard è inevitabile. Discostandosi da analisi più classiche che dibattono degli effetti positivi o negativi di Barbie in quanto portatrice di diversi e spesso conflittuali significati culturali, il capitolo presenta una Barbie-transformer, versatile abitante dell’iperrealtà. Singolare parabola di una bambolina per bambine evolutasi in artefatto culturale approdato al centro di una fine analisi su questioni chiave della contemporaneità. È “lo scaltro genio dell’oggetto”, per dirla proprio con Baudrillard.
Barbie:
un prototipo del postumano
(dalle pag. 57 – 79;
traduzione di Beatrice Ferrara)
(…) Barbie è così
onnipresente nella cultura pop che quasi non occorrono presentazioni. A
un primo sguardo, le caratteristiche che più saltano
all’occhio sono che è bionda e ha un seno procace.
(…) Lanciata sul mercato dalla Mattel nel 1959, Barbie era
stata originariamente concepita come una fashion doll
(una bambola da vestire in base alle tendenze della moda, ndr)
– destinata agli adulti. Soltanto più tardi
sarebbe diventata una bambola di successo amatissima dalle ragazzine
(cfr. Peers, 2004). È insomma fin dal suo esordio come
figurino di moda che Barbie è sinonimo di glamour, bellezza
e stile (cfr. BillyBoy, 1987; Lord, 1994).
Ma sotto il vestito – cosa? In effetti, priva degli abiti
glamour, Barbie ha un aspetto alquanto sinistro. Le sue tornite gambe
di gomma partono da un busto piuttosto corto. Il suo involucro di
plastica è durissimo e conferisce al corpo la sua
inconfondibile conformazione contenuta e controllata, quasi come se
fosse avvolta in una sorta di armatura atta a scongiurare ogni
possibile rottura. Un riflesso sintetico emana dalla superficie del
corpo, a suggerire un senso di soave levigatezza e fluidità,
nonostante le sgraziate, evidentissime giunture che legano il tronco di
plastica alla vita, alla testa, al collo, agli arti.
C’è qualcos’altro in Barbie oltre la
rigidità dello stampo: la sua è una forma che non
è né totalmente inflessibile, né
incline alla dissoluzione. Anzi, da quel corpo tornito effonde una
tensione, quasi una carica di energia – pronta a mutare, a
metamorfizzarsi, aperta a una riformulazione. Al contempo, la
possibilità di una rottura è scongiurata dalle
proprietà elastiche e malleabili del suo involucro di
plastica. Barbie non è né unitaria, né
frammentata: è una transformer.
Per chi è cresciuto negli anni Ottanta, il termine
“transformer” sicuramente
richiama alla mente gli omonimi “robots in disguise”
(“robot sotto mentite spoglie”
– ndr) prodotti dall’azienda di
giocattoli Hasbro: action figures che da veicoli
si trasformavano in robot. Su questi Transformers tornerò a
breve. Ad altri, invece, il termine potrà suggerire altre
associazioni mentali, collegate a persone o oggetti dotati della
capacità di trasformarsi. Le prime possibili associazioni
mentali che mi sovvengono sono quelle legate a programmi televisivi
come The Swan (in Italia Il brutto
anatroccolo – ndr) o Extreme
Makeover (in Italia Extreme Makeover –
Belli per sempre), in cui la persona protagonista della
puntata viene completamente trasformata dal punto di vista fisico.
Sebbene anche in questi casi si tratti, appunto, di atti di
trasformazione, non è a questo che mi riferisco quando uso
il termine “transformer”. Forse ciò che
più si avvicina all’idea di
“transformer” cui mi riferisco io è il
trasformatore elettrico: quella macchina statica impiegata per
controllare un flusso di corrente alternata aumentando o diminuendo il
voltaggio. Come questo tipo di trasformatore, anche Barbie funziona
come una macchina a switch: una macchina capace di variare i parametri
operando in un flusso costante, un convertitore che gira
all’infinito.
In quanto “transformer” – un fenomeno del
“tra”, costantemente in circolo nello spazio
ambivalente tra l’immagine e il suo referente, tra
l’illusione e il reale – Barbie mette in questione
le categorie vigenti. Ripensare Barbie nei termini di una figurazione
plastica e capace di trasformazione permette di evidenziare alcune
importanti criticità insiste in una politica della
soggettività basata sull’identità. Al
posto dell’identità, in questo saggio si propone
una differente modalità della soggettività, cui
non corrispondono processi di identificazione né pratiche di
resistenza. Percepire il soggetto come un’entità
capace di trasformazione permette di prendere in considerazione
figurazioni che siano più in linea con
l’immaginario sociale attuale, in cui le idee di
sé, verità e realtà sono rese
più complicate dal nostro essere immersi nella tecnologia.
(…) In base alla mia analisi, Barbie
funziona come figurazione che fa da ponte fra le varie istanze che
animano i dibattiti relativi al genere e alla rappresentazione e quelli
relativi al postumano e al post-gender, dal momento
che mostra aspetti tanto della condizione culturale moderna, che di
quella postmoderna. Al pari del manichino in vetrina che caratterizzava
la modernità, Barbie è il simbolo di una
“tipologia” femminile di consumatore e al contempo
un oggetto di consumo. Ma l’ambivalenza del suo corpo
plastico anticipa anche una forma postumana, che spiazza i segni del
corpo e li spinge in uno spazio al di là delle pratiche di
significazione già note, lasciandoli circolare come piaceri,
possibilità e potenzialità.
(…) Centrale nella mia teoria di Barbie
come figurazione capace di trasformazione è la nozione di
“plasticità”, poiché Barbie
è un prodotto “la cui sostanza è
tutt’uno con la sua essenza” (cfr. Lord, 1994).
È la plasticità stessa di Barbie che permette la
sparizione del corpo e ci consente di ripensare quel paradigma che
vorrebbe mettere sullo stesso piano Barbie e la donna in carne e ossa.
La storia e la teoria della plastica rivelano una ambivalenza che
è al cuore della plastica stessa, della sua formulazione,
del suo uso e del suo significato. In questo contesto, la forma
plastica di Barbie può essere vista come un referente
instabile, che funziona in quanto disabilita il significato, piuttosto
che determinarlo.
Lo spazio culturale che la plastica occupa è uno spazio
confuso, come suggeriscono le numerose definizioni che l’Oxford
Concise Dictionary (1995) dà del termine stesso
– tra cui figurano tanto “artificiale” e
“falso”, quanto “costruttivo” e
“creativo”. E se la definizione primaria della
plastica è “qualunque polimero sintetico che
può essere lavorato e modellato in varie forme”,
il termine derivato “plasticità” si
riferisce a un modo d’essere in cui è forte una
propensione alla variazione pari a quella mostrata dalla plastica. La
plastica è il simbolo per eccellenza della seconda
metà del XX secolo, un periodo caratterizzato da
“artificialità, eliminabilità e
sintesi” (cfr. Fenichell, 1996). La sua indeterminatezza la
fa anche entrare a pieno titolo nel territorio del postmoderno,
caratterizzato dalla destabilizzazione delle gerarchie – come
ad esempio quelle tra autenticità e riproduzione, e cultura
alta e cultura bassa (cfr. Jameson, 1988). Laddove i confini della
materialità della plastica si allargano sempre
più verso il virtuale grazie ai microchip,
l’importanza della plastica nell’età
dell’informazione è centrale – come
afferma anche Stephen Fenichell, sostenendo che la società
post-industriale e postmoderna, oltre che “società
dell’informazione”, potrebbe ben chiamarsi
“età plastica”:
“La plastica ci fornisce il prerequisito materiale per la conservazione e il recupero dell’informazione, sia analogica che digitale. Dal film fotografico al nastro magnetico, dal floppy disc ai CD-ROM e ai CD, la plastica non solo imita i materiali naturali, ma ci permette anche di creare un mondo tutto nuovo per l’immaginazione audio-visiva e di registrarlo per poterlo rivedere o riascoltare all’istante o per lasciarlo alla posterità” (ibidem).
La plastica è anche entrata nel corpo umano sotto
forma di protesi, giunture artificiali e valvole, sollevando una serie
di preoccupazioni e dubbi relativi alla naturalità o
innaturalità di cyborg e corpi postumani (ibidem).
La facilità con cui essa ha rimpiazzato le parti organiche,
sia dentro che fuori i confini anatomici del corpo, ci porta ad
interrogarci sul senso che hanno per noi concetti come
“reale” e “umano”. Questo nuovo
mondo di fenomeni simulati, di cui la plastica è parte e che
essa contribuisce a creare, mette in questione la nozione di
autenticità, destabilizzando il paradigma modernista e
minando gli ideali di autonomia e di origine che strutturano le
politiche dell’identità.
Data la massiccia presenza della plastica nella società dei
consumi contemporanea, è importante riflettere per un attimo
su come essa fosse considerata nell’età della
modernità industriale. Inizialmente, nel XIX secolo, la
plastica era concepita come una sostanza miracolosa dalle
potenzialità illimitate, il cui più grande punto
di forza era ritenuto quello di poter imitare in tutto e per tutto il
mondo materiale (cfr. Meikle, 1995). Nel dopoguerra, la plastica
conobbe un vero boom (…) e iniziò ad entrare
massicciamente nelle case e dunque nella vita quotidiana di tutti
– sotto forma di sedie, tazze, vestiti (…).
Secondo Jeffrey Meikle, proprio perché così
comune e facile da reperire, la plastica ha da allora iniziato a
rappresentare gli ideali di uguaglianza, democrazia e
accessibilità (ibidem).
Così, dunque, se da un lato la plastica è stata
molto osannata per il suo potenziale pressoché infinito,
dall’altro lato essa è stata spesso stigmatizzata
per il fatto di essere irreale. Veniva infatti
anche derisa poiché ritenuta volgare e inautentica, in
quanto molto facilmente reperibile e transitoria, in una cultura
all’insegna dell’“usa-e-getta”.
Per queste ragioni, la plastica finì per essere associata
con tutto quanto era falso, disumano, inautentico e privo di valore
(cfr. Hebdige, 1988; Meikle, 1995). Anche oggi, dire di qualcuno che
“è di plastica” equivale a volerlo
svalutare, insinuando che il qualcuno in questione non sia
“vero”. Illuminanti, il tal senso, sono le pagine
ostili dedicate alla plastica da Roland Barthes (cfr. Barthes, 2005).
(…) È però proprio
l’ambiguità materiale e simbolica della plastica
che ci consente di formulare una lettura alternativa della relazione
fra corpo, tecnologie e rappresentazione in senso trasformativo.
Piuttosto che riproporre teorie già formulate e marcate dal
punto di vista di genere per analizzare Barbie, che legano la cultura
di massa e la produzione al femminile e all’inautentico,
vorrei suggerire di prendere in considerazione un altro aspetto: quello
che la plasticità di Barbie possa dar luogo ad una tensione
generativa. Barbie è portatrice di una promessa; e quella
promessa sta nella sua plasticità. La plastica
dell’involucro di Barbie è dura in alcuni punti e
gommosa in altri. Un bagliore sintetico effonde dalla superficie
liscia, a evocare un senso di mutevolezza e fluidità. Come
l’elastico di gomma ben teso di una catapulta, i suoi arti
slanciati sono tesi e carichi di energia potenziale. Barbie
è pronta per la metamorfosi. Eppure, la tensione
è uno stato volatile. Il rischio di uno scatto improvviso si
combina a quello di essere scagliata lontano in un altro spazio o
assumere un’altra forma: una plasticità sempre sul
punto di trasformarsi in qualcos’altro, che genera
incertezza.
È l’instabilità del sistema di valori
che permette questo gioco delle forme. Barbie, come il suo corpo di
plastica, è un referente mutevole. “Opposto al
gioco differenziale del valore”, osserva Baudrillard,
“c’è il gioco duale della forma:
reversibilità e metamorfosi” (cfr. Baudrillard,
1998). L’autore spiega la metamorfosi come segue:
“[La metamorfosi] è una catastrofe felice: è il mutare senza sosta di un sesso nell’altro, delle idee l’una nell’altra, dei toni, delle parole e dei colori gli uni negli altri. È il trasformarsi dell’umano nell’inumano e in altro ancora, attraverso l’intero ciclo delle apparenze, delle forme e delle sostanze: vegetale, minerale, animale e umano. E, perché no, anche in una qualche forma super-umana, una volta che l’umano smette di essere il fulcro e l’inizio di tutte le cose” (ibidem).
Uno degli assunti chiave della critica di Baudrillard al
sistema di valori è la destabilizzazione del significato. Ma
la dissoluzione dei sistemi vigenti non implica necessariamente
l’abolizione totale del soggetto e del corpo. Come ci ricorda
Julia Kristeva nel suo Poteri dell’orrore
(1981), la tensione fra il sé multiplo e dinamico e il
sé coerente deve essere mantenuta per scongiurare la
dissoluzione del soggetto. Questo stato di tensione è quello
che caratterizza il “soggetto in processo” di
Kristeva, i cui stati indeterminati e discontinui interrompono il
funzionamento regolare dei sistemi di significazione, messa in ordine e
comprensione del mondo.
Lo stato indeterminato del soggetto può essere collegato
allo stato indeterminato del corpo plastico di Barbie: è in
quanto oggetto capace, potenzialmente, di infinite trasformazioni, e in
quanto oggetto che esiste nello spazio di mezzo tra rottura e
rigidità, che Barbie può sfidare i limiti tanto
dell’una quanto dell’altra. (…) Il
potenziale generativo della plastica sta nella capacità di
assumere qualunque forma. Ogni oggetto fatto di plastica differisce da
un altro oggetto di plastica soltanto per il grado di
malleabilità e per lo stampo usato per dare a esso forma. La
predominanza di un oggetto sull’altro diventa ridondante,
laddove pensiamo all’oggetto plastico in termini di processo.
La plasticità, come afferma anche Barthes, cancella la
differenza di valore fra le cose. L’attribuzione di valore
diventa impossibile. Il significato sparisce, lasciando il posto alla
circolazione incessante dei segni: “la gerarchia delle
sostanze è abolita, una sola le sostituisce tutte: il mondo
intero può essere plastificato e perfino
la vita, poiché, sembra, si cominciano a fabbricare aorte di
plastica” (Barthes, 2005).
Né si può dire che gli oggetti fatti di
sostanze “naturali” (…) abbiano
più valore della Barbie di plastica solo in virtù
del fatto che la loro composizione è di origine organica.
Essi non sono né più, né meno reali
del giocattolo di plastica. (…) La plastica non funziona
imitando la natura, come sostiene Barthes. Essa non ambisce a essere un
equivalente del reale – piuttosto, il simulacro è
reale. In quanto sostanza della simulazione, la plastica dissolve
l’opposizione fra il reale e ciò che esso
rappresenta. Similmente, non c’è
“verità” nel significato di Barbie.
(…) Barbie non è né una
rappresentazione reale, né una rappresentazione irreale del
corpo femminile: è invece un’apparenza che sfida
il principio di realtà.
Affermando che “un tempo analizzavo le cose in termini
critici, in termini di rivoluzione; ora lo faccio in termini di
mutazione” (cfr. Gane, 1993), Baudrillard propone una
strategia alternativa di cui il soggetto può avvalersi
nell’età delle reti mediali e della comunicazione.
Allo stesso modo, presentando Barbie come un esempio di figurazione
della soggettività dotato di potenziale di trasformazione,
io non voglio attribuirle il ruolo di incarnazione letterale del
soggetto plastico, né però voglio negarne le
condizioni materiali di esistenza. Piuttosto vorrei suggerire che, man
mano che la distanza fra noi e i nostri oggetti culturali viene meno,
il fatto che il soggetto sia al centro del mondo non è
più un fatto così certo; e questo apre la strada
a un ripensamento della soggettività come
soggettività costantemente in processo. Riconfigurare il
modo in cui si pensa alla plastica nella psiche culturale vuole essere
un tentativo di disturbare l’unità del soggetto, a
favore di una concezione del sé più fluida. Come
scrive Fenichell, “Noi diamo forma alla plastica; e la
plastica dà forma a noi” (Fenichell, 1996).
Interpretare il postumano come plastico, come
un’entità dotata di potenziale di trasformazione,
vuol dire riconoscere la necessità di un confronto
più deciso con le nuove condizioni culturali attuali, che
confondono le demarcazioni gerarchiche che separano il sé
dall’Altro da sé, il mainstream dal marginale e il
reale dal virtuale.
Sicuramente Barbie non è
l’unico giocattolo a esser stato messo sotto processo per il
ruolo che gioca nel costruire e riflettere i ruoli di genere nel mondo
“reale”. Prendendo in considerazione il modo in cui
l’idea di trasformazione – e in particolare di
trasformazione di genere – è stata esaminata nella
letteratura dedicata ai giocattoli e al gioco infantile, è
possibile esplorare e complicare ulteriormente l’assunto
secondo cui le immagini e gli oggetti “fissano” il
significato. Avendo in apertura introdotto l’immagine di
Barbie come transformer, vorrei ritornare
brevemente a quei famosi giocattoli che portano ufficialmente questo
nome. Nel gergo della pop culture, il nome
commerciale “Transformers” fa riferimento ad un
cartone animato e ad una serie di giocattoli che si
“trasformano” da automobili/camion/navi in
svettanti robot metà uomo e metà macchina o in
cyborg; sia il cartone animato che i giocattoli risalgono agli anni
Ottanta.
I Transformers non sono giocattoli esclusivamente per ragazzi, sebbene
il marketing ufficiale li commercializzi come tali, facendo leva sulle
consuete associazioni tra mascolinità e tecnologie di
guerra, industria e automobili (cfr. Wajcman, 1991). Giocare con i
Transformers rende lecita, all’interno della cultura
maschile, la possibilità di trasformazione, ed anzi la
incoraggia. La studiosa culturalista Marsha Kindler si è
occupata proprio del legame fra trasformazione e mascolinità
nel suo saggio From Mutation to Morphing: Cultural
Transformations in Greek Myth to Children’s Media Culture
(2000), mettendo in luce l’importanza della
mascolinità nei miti classici greci incentrati sulla
trasformazione, nonché la costante associazione fra uomini e
capacità di trasformazione nella cultura pop, ad esempio in
prodotti come Teenage Mutant Ninja Turtles (in
Italia Tartarughe Ninja – ndr) e Mighty
Morphin’ Power Rangers (in Italia Power
Rangers – ndr).
L’atto di coinvolgimento attivo necessario per
“trasformare” il giocattolo dal suo stato di
veicolo in un uomo-macchina e viceversa rinforza
quell’assunto che vorrebbe il maschile legato alla cultura e
all’attività, e il femminile legato alla natura e
alla passività. Se dovessimo attenerci a questa visione
dicotomica in cui la donna è legata alla natura e alla
passività, allora Barbie – il giocattolo per
ragazze per eccellenza – non potrebbe essere considerata
un’entità dotata di capacità di
trasformazione. Judy Attfield ha riscontrato la pervasività
di queste concezioni dicotomiche nel design dei giocattoli, analizzando
la differenza che intercorre fra le articolazioni della Barbie e quelle
di Action Man, giocattolo destinato invece ai ragazzi. Il suo studio
mette in luce come le articolazioni limitate e per nulla complesse di
Barbie la rendano più adatta a posare che a muoversi (cfr.
Attfield, 1996). Mettendo a confronto le giunture e articolazioni di
Barbie con le parti mobili di Action Man, basate su un sistema
più complesso di articolazioni a sfera, Attfield trae la
conclusione che il cliché che vorrebbe il
“femminile” come passivo e il
“maschile” come attivo è letteralmente
incarnata nel design dei giocattoli (ibidem).
Anche Susan Willis propone un argomento simile nel proprio studio sul
legame fra l’attività del gioco infantile e la
formazione dei ruoli di genere. Sostenendo che la costruzione del
genere è intimamente legata al consumo di merci, la teorica
afferma che Barbie, così come He-Man, “non offre
al bambino, maschio o femmina che sia, né la
possibilità di protrarre nel tempo una sessualità
polimorfa, né di sviluppare una nozione aperta delle
dinamiche legate al genere. Al contrario, tanto Barbie quanto He-Man
demarcano fortemente la linea di separazione fra i sessi e supportano
una concezione assai limitata e limitante del genere”
(Willis, 1991). Come già Attfield e Kindler, Willis conferma
che esiste in effetti una forte tendenza ad associare trasformazione e
mascolinità e ritiene che ciò ponga un grosso
limite alla nostra capacità di concettualizzare
l’identità, il cambiamento e le relazioni sociali.
Un altro approccio alle questioni del genere e della trasformazione
è offerto dalla Mattel stessa, che, nel lanciare sul mercato
la linea Barbie, ha puntato sì sulla trasformazione, ma con
specifico riferimento all’inesauribile repertorio di vestiti
e accessori disponibili, destinati tanto alla Barbie in sé,
quanto al consumatore. Secondo Kindler, la strategia pubblicitaria di
Mattel presenta Barbie come una sorta di “hardware”
fisso e immutabile, che è però implementato da
una gamma di accessori numerosissimi, sempre nuovi e sempre diversi,
che sarebbero quindi una specie di “software”.
Inoltre, ci sono svariate versioni di Barbie fra cui poter scegliere,
tanto che è possibile (e anzi probabile) che si posseggano
più Barbie, tutte diverse fra loro, ma tutte accomunate da
una identità comune, che è appunto quella di
essere una Barbie. Nell’analisi di Kindler, il ritratto di
Barbie come entità fissa offerto dalla Mattel serve a
limitarne le capacità “mutanti” (cfr.
Kindler, 2000).
Una recente visita a un negozio di giocattoli locale, per esempio, mi
ha messo di fronte alle più recenti incarnazioni di Barbie
(l’autrice si riferisce ovviamente al momento della scrittura
del saggio – ndr): Barbie modella per
fotografie, Barbie Biancaneve e Barbie Cenerentola. Nel passato, Barbie
ha fatto tanti altri lavori, tra cui l’astronauta e il
presidente donna. Da questo punto di vista, dimostra quindi una
malleabilità: nella capacità di impersonare
svariati personaggi e ruoli, pur mantenendo una certa coerenza
identitaria. Questa lettura di Barbie si sposa bene con la nozione di
performatività proposta da Judith Butler (1996). Per Butler,
i ruoli di genere sono delle performance, la cui messa in atto
garantisce la materializzazione del corpo femminile attraverso la
reiterazione e la citazione dei codici discorsivi che regolano
l’ideale femminile. Interpretare il genere come un qualcosa
che si “mette in atto” è una strategia
critica, il cui obiettivo è quello di contrastare la nozione
essenzialista di femminilità. Il fatto stesso che Barbie
abbia connotati iper-femminili segnala che il genere è una
simulazione: un artificio riproducibile, non una caratteristica
naturale. Le trasformazioni di Barbie però, secondo queste
letture, sarebbero limitate a un cambio di accessori, carriere e ruoli:
nonostante i numerosi, diversi ruoli che Barbie propone, in quanto
modello, alle ragazzine – spesso anche ruoli importanti, che
le rendono più forti – la sua identità
e i suoi confini corporei restano intatti.
Dalla lettura di tutti gli studi critici qui menzionati, si
può trarre la conclusione che questi testi, seppure da un
lato mettono in questione le tradizionali letture del modo in cui il
gioco infantile si lega alla formazione dei ruoli di genere,
dall’altro essi partono da un presupposto sulla cui
discutibilità non si interrogano: il presupposto che il
mondo immaginario del bambino serva al bambino stesso per dare forma
alla realtà adulta. In un certo senso, questo è
anche un assunto riscontrabile in Barthes, il quale ritiene che i
giocattoli occupino una posizione fissa all’interno di un
sistema universale di riferimento – cosa da cui deriva la
loro funzione, che è quella di rendere intellegibile il
mondo “reale”. Barthes lamenta infatti
l’incapacità dei giocattoli, e soprattutto di
quelli di plastica, di “offrire forme dinamiche”
attraverso cui il soggetto possa trasformare il proprio sé.
Per Barthes, la plasticità è
l’equivalente della staticità tipica della morte:
distrugge la natura, minaccia l’umanità e toglie
il piacere dal gioco infantile (cfr. Barthes, 2005). Queste
argomentazioni rendono difficile immaginare che Barbie possa essere un transformer.
Se letta dal punto di vista di questi studi (…) la
mobilità limitata degli arti di plastica di Barbie e il suo
sorriso stampato sembrano fissi tanto quanto il suo significato. Tanto
Attfield quanto Kindler, ad esempio, ritengono che i parametri
materiali del corpo di Barbie stabiliscano il limite oltre il quale non
è possibile procedere per formulare interpretazioni che
vadano al di là di quelle tradizionali. Nel guardare invece
a Barbie attraverso l’idea, proposta da Baudrillard, di un
trans-stato, io vorrei superare questo tipo di analisi e suggerire
invece che la plasticità della forma di Barbie mette in
questione la lettura classica che la vorrebbe
“passiva” e “statica”. Nel
farlo, metto in questione anche l’assunto che il corpo sia il
sito circoscritto e immutabile della soggettività.
Nel tentativo di andare oltre queste interpretazioni che vorrebbero
Barbie come “rappresentativa della
realtà” sono anche sostenuta dal lavoro di Carol
Ockman: l’autrice sembra infatti spingere in una simile
direzione, allorché suggerisce che Barbie funziona come
“corpo fantasmico”. Ockman complica lo status
tradizionale di Barbie come figura ideale di femminilità,
facendo ricorso alla definizione del “nudo” data da
Kenneth Clark. L’autrice sostiene quindi che
l’abilità di Barbie di rappresentare un ideale
senza rappresentare il nudo generi una tensione produttiva fra il reale
e l’ideale. Per Ockman, il corpo statico di Barbie
è senza tempo: Barbie esiste in “uno stato fisico
al di fuori del tempo” (Ockman, 1999). Allo stesso tempo,
“gli accessori di Barbie…producono una sorta di
«effetto di realtà» che ne naturalizza
il corpo, rendendolo paradossalmente sia autentico che senza
tempo” (ibidem). Ockman conclude
affermando che la tensione generata dallo stato
“fantasmico” di Barbie culmina in atti di
resistenza contro l’ideale stesso di femminilità
che si ritiene che Barbie rappresenti. Un esempio di questa strategia
oppositiva lo si ritrova nel lavoro di artisti che hanno usato Barbie
per contrastare gli stereotipi sul femminile. La tendenza di alcuni
artisti a mutilare la forma di Barbie è un modo di criticare
la violenza esperita dal corpo reale, in particolare quello femminile.
Secondo Ockman, quindi, cioè che c’è di
utile nella confusione fra l’ideale e il reale è
che questa confusione apre uno spiraglio per forgiare nuove strategie
di resistenza.
Sebbene questo studio sia assai utile proprio perché
individua fra l’ideale e il reale uno stato di tensione
produttiva, tuttavia Ockman rimane legata alle categorie di reale e
ideale senza criticarle; e sono ancora queste categorie quelle su cui
si regge l’interpretazione di Barbie all’interno
del discorso sulle pratiche di significazione. Ne consegue che la
tensione potenziale è nei fatti negata: è negata
la possibilità di una tensione che renda possibile
riconfigurare Barbie come
“qualcos’altro”. A mio avviso, una
tensione di questo tipo non si appoggia alle categorie dicotomiche di
reale e ideale, ma piuttosto apre il campo a infinite trasformazioni,
così da fare collassare per intero tanto la
realtà quanto la rappresentazione. Quando la dissoluzione
del reale e dell’ideale cancella la base stessa su cui si
regge il significato, allora diventa necessario trovare un nuovo,
diverso modo per interpretare Barbie.
(…) Nel mio studio, io voglio riferirmi
alla plasticità in maniera diversa rispetto a quanto
proposto dal paradigma liberale della autodeterminazione e della libera
scelta; preferisco suggerire che Barbie sia un’apparenza del
femminile che confonde “la verità” e
“il significato” della donna. La
plasticità non deve per forza riferirsi
all’identità – sia questo fissa e
rigida, o al contrario frammentata. Tutt’altro: la
plasticità potrebbe essere un modo per introdurre un nuovo
soggetto – il soggetto trasformativo.
(…) Io credo che le pratiche discorsive che emergono dalla concezione postmoderna del soggetto siano contestuali. Riconoscere la proliferazione delle esperienze che il soggetto può esperire in un contesto specifico e in un tempo specifico – qualunque essi siano – può aiutare nella formulazione di nuovi approcci alla soggettività che non sono basati sulla “verità” del sé, ma piuttosto pongono l’enfasi su come le rappresentazioni – e Barbie fra queste – agiscono su di noi e sugli effetti che questo ha sulla nostra percezione del sé e della realtà.
Così come era per il soggetto decentrato e plurale
del discorso postmoderno, il soggetto trasformativo o plastico ci
permette di esplorare i contesti sociali e culturali in cui emergono
nuove figurazioni della soggettività. Strettamente legata
alla confusione dei confini fra il marginale e il mainstream nel
paesaggio del millennio è anche la rottura delle distinzioni
fra il sé e l’Altro, l’organico e il
macchinico, la natura e l’artificio; una rottura provocata
dalla crescente proliferazione di tecnologie e tecniche digitali.
Tiziana Terranova (1996) pone l’accento sul fatto che questa
è, a tutti gli effetti, una trasformazione ontologica tanto
della società umana tout court, quanto
della percezione e dell’esperienza che si ha del corpo in un
mondo hi-tech. Alla base di questa trasformazione, sostiene
l’autrice, ci sono un’esposizione sempre
più intensa all’immagine simulata che circola nei
media che usiamo nella vita di tutti i giorni e un uso sempre
più massiccio delle tecnologie nelle nostre
attività quotidiane (ibidem).
Baudrillard riconosce che “tutte queste formule sono
riduttive, poiché girano sempre intorno al reale –
essendo il problema quello di esorcizzarlo o appropriarsene”
(Baudrillard, 1998). Ripensare Barbie in quanto plastica costituisce un
tentativo di evitare le interpretazioni riduttive, fornendo invece
l’esempio di un oggetto trasformativo che sfida il principio
di realtà. La plastica, l’artificio e la
malleabilità della forma di Barbie contestano la
significazione ed eludono ogni interpretazione fissa. In questo stato
di trasformazione, ciò che conta è il grado di
oscillazione del soggetto fra e all’interno di indicatori
instabili quali il sesso, la razza e il genere. In questo senso, Barbie
serve da strumento per ripensare a fondo la questione della
trasformazione dei corpi e delle identità nel
“trans”-stato che segue il furore orgiastico della
liberazione. Le tecnologie del corpo e mediali influenzano il corpo in
modi tali da aprire un ventaglio di nuove possibilità per
creare figurazioni della soggettività che vadano ben oltre
una nozione unificata dell’identità. In questo
senso sono d’accordo con Erica Rand (1995), laddove lei
suggerisce che Barbie non esiste meramente in quanto ideale di
femminilità con cui la donna può identificarsi o
che può rifiutare. Il soggetto trasformativo, infatti, non
esiste in quanto polo di identificazione. Nell’età
tecnologica dei corpi plastici, Barbie rende nulla la nozione del corpo
materiale come limite della soggettività. Ripensare il
soggetto in termini di trasformazione può aiutarci a
decodificare la mentalità che inscrive il corpo plastico fra
le tecnologie del controllo e del contenimento o che lo fissa nel
reale. Può aiutarci, ancora, come strategia per hackerare i
codici fallogocentrici che strutturano l’ideale della
femminilità e scompaginare le interpretazioni tradizionali
del corpo basate su quel mito essenzialista e immutabile che lega la
donna alla natura.
LETTURE