Il dolore – nelle sue declinazioni – gioca col mondo attuale sottraendosi al senso e nello stesso tempo costringendoci/invitandoci a cercargliene uno. Declinazioni nate in tempi lontani, o create, nel tempo presente, oppure rivisitate, tutte riassunte nell’esemplare lavoro di analisi svolto da David Le Breton. Dolore che così facendo, erode senso al mondo stesso, obbligandoci a cercare, a ritentare di riassegnarglielo.
Il nostro, in fondo, è un tempo che vive dei e sui fantasmi del passato recente. Andato oltre la Modernità, non riesce a lasciarsela indietro, a liberarsene per affidarsi al mondo nuovo in cui siamo immersi, e adopera ancora, per orientarsi nel mutamento, brandelli dei vocabolari e delle enciclopedie dell’ordine del moderno – quelli che ormai sono solo fantasmi.
A caccia di segnali e tracce che ci orientino nel territorio della vita quotidiana – affettiva, politica, sociale – ci muoviamo alla cieca, spesso, affidandoci a bussole e mappe contingenti, effimere, improbabili, cercando di sfuggire alla sofferenza e al dolore che si ri-affermano ormai come cifra costitutiva della condizione umana. È in questa direzione che si orienta la più recente riflessione di Alberto Abruzzese.
Il dolore fisico, dovuto alle malattie o a un incidente, la sofferenza continua degli oppressi, certo, ma anche quella sofferenza profonda, infinita, ottusa, irrisolvibile, che si potrebbe ridurre a una apocalisse, una rivelazione, un’epifania, quasi: “l’uomo è superfluo”, ancor più che antiquato, come sosteneva Günther Anders.
Qui certo non pensiamo alle più estreme propaggini di quelle filosofie ambientaliste o naturaliste che ci vogliono come i peggiori parassiti del pianeta su cui viviamo, virus da distruggere per salvare Gaia dalla distruzione. Pensiamo piuttosto all’approdo logico, definitivo dell’Umanesimo che, liberandosi di dio, ci lascia soli e costretti a cercare un motivo laico, attuale, per giustificare l’esistenza di ciascuno di noi, e al successivo fallimento delle utopie moderniste del progresso e del futuro, quindi all’accettazione del declino e della fine dell’idea di primato dell’uomo sulla realtà.
Perché se non c’è un dio a giustificare la nostra esistenza – qualsiasi siano i progetti che potrebbe avere per noi, anche solo quello di divertirsi a scrutare il nostro agitarci – allora dov’è il suo significato? La sua ragione? A voler essere conseguenti, abbiamo prodotto solo disastri. Sociali, naturali, esistenziali. Non solo non c’è senso nel mondo umano, ma abbiamo smarrito il “senso del senso”. Le soggettività che si sono sviluppate nel corso dell’ultimo secolo e mezzo si sono frantumate e diffratte, perdendo un qualsiasi centro di gravità, interno o esterno che fosse.
Siamo alla fine delle narrazioni finalistiche, ottimistiche, della modernità, e assistiamo alla esplosione di narrazioni sincretiche, che si costruiscono mettendo insieme scampoli di controcultura, psicologismi da manuale di autoaiuto, brandelli di gusto “etnico”, pizzichi di ingenuità, il tutto mescolato nel gran calderone del consumo, e – quando capita e serve – proclami sulla rivoluzione partecipativa prodotta dalla Rete, e che pendolano continuamente fra i due poli dell’ambiente globale – naturale, sociale, relazionale – e individuale – interiore, affettivo, emotivo, alla ricerca di una armonia ipostatizzata, metafisica, fantasmatica. Spettrale?
Volti del neoterico, la fase suprema del postmodernismo – la fase iniziale del postumanesimo. Forgiata nel disorientamento e nel dolore – del vuoto dell’esistenza, della mancanza di scopo.
La letteratura, ancor più e spesso con maggiore lucidità delle scienze umane e sociali, ha accompagnato e descritto il dipanarsi di questa condizione. Per gradi, magari, attraverso slittamenti progressivi, singole mosse del cavallo e attacchi frontali, esplorando e colonizzando progressivamente le lande dello sconforto e della sofferenza interiore. I territori del nulla verso cui siamo sempre più certi di essere proiettati.
“Siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni. E la nostra piccola vita è circondata da un sonno” (Shakespeare, 2015). Questa metafora creata all’alba dell’era moderna da uno dei suoi cantori più lucidi rivela da subito la scoperta dell’insensatezza dell’esistenza, della fallacia delle nostre percezioni e sensazioni – e quindi dell’idea che abbiamo di realtà. Affermazione ribadita, più o meno negli stessi anni, dal narratore delle gesta di un “ingenioso hidalgo” che si crea una realtà tutta sua e finisce per combattere contro i mulini a vento, gentiluomo inesausto nel difendere cause perse in partenza…
A pensarci bene l’intera storia dell’Occidente moderno, a partire dagli anni a cavallo fra il 1400 e il 1500 è la storia del naufragio della cultura occidentale a partire dalla sua stessa nascita, per non essere stata in grado di offrire nessuna soluzione (stabile? trascendente?) alla rinuncia alla fede e alla emancipazione dal dominio del sacro.
Ora, il primato della ragione conduce alla rivendicazione del libero arbitrio, e quindi alla convinzione che l’uomo sia completamente responsabile delle sue azioni, della sua condotta di vita, del suo destino. Destino che a questo punto, spogliato della sua dimensione metafisica, fatale, diventa semplicemente il futuro che ognuno di noi si costruisce.
Ma questa stessa capacità è da tempo in discussione. Esauritisi gli entusiasmi e la spinta progressista del modernismo, la certezza che il mondo grazie all’opera dell’uomo sarebbe migliorato indefinitamente, ci siamo ritrovati allo sbando in un immenso spazio vuoto, un abisso senza orizzonti, da cui da un lato si è allontanata l’idea di un dio che dominava il cosmo e i destini umani, dall’altro la convizione che l’umano potesse governare pacificamente l’universo che gli sta intorno.
È il declino definitivo dell’uomo nato con l’Umanesimo, portatore di valori e di onore, responsabile per sé e per coloro che gli stanno intorno. Non perché si sia tirato indietro dalla sua missione, ma perché scopertosi consapevole dell’inutilità e della insufficienza dei suoi sforzi.
Il suo contraltare, l’uomo della Riforma, ha visto svanire da tempo la sua centralità nel mondo rispetto al dovere di testimoniare con le opere la grandezza del suo dio, una divinità che appare sempre più improbabile, umbratile, capricciosa, un dio che non ha bisogno di pretesti, per tormentare le sue creature.
E così ci troviamo soli di fronte al Termine definitivo, la Morte, con la sua potenza ineffabile. Dopo non c’è niente, e il nostro operare nel mondo è inutile. Il termine “felicità” è un segno senza referente.
L’intera storia della letteratura occidentale, almeno a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo ci parla di questo.
La narrativa dapprima ci racconta di chi, improvvisamente, proprio quando pensa di aver raggiunto il suo traguardo, scopre di avere una malattia mortale, o di chi si ritrova a compiere un delitto, che non avrebbe mai immaginato di poter eseguire. In tutti e due casi, emerge la sensazione che vi siano forze immani, inconoscibili, che guidano i nostri atti. E siamo ancora nel tardo Ottocento. Pochi decenni ancora, e l’uomo occidentale si ritroverà a incarnare quello che l’Espressionismo denuncia come nudo, indifeso, esposto al dolore del mondo e al proprio, di fronte ad un caos che non può decifrare, inerme, scoperto. Un dolore senza nome che viene dall’interno, che non può essere compreso, e che si coniuga con le ferite che gli vengono inferte dall’esterno, da una realtà sociale malsana e in degrado.
Che ci costringe a riflettere sulla nostra identità, e su come abita il mondo. Il processo di individualizzazione accelera, e trova la sua espressione attraverso le forme del romanzo-saggio, che permettono di narrare i turbamenti del Sé, la sua solitudine, il suo disorientamento di fronte ad un mondo sempre più alieno, sempre più estraneo, in cui giriamo in tondo, senza meta, senza scopo.
Possiamo provare a sfuggire al disagio, convincendoci che la soluzione giusta è ritirarsi – magari con qualcuno che si ama – in un mondo separato, un “regno millennario” dove praticare il proprio tentativo di “salvataggio del sé”, destinato presumibilmente alla sconfitta. Un ritiro dal mondo che può essere praticato anche semplicemente abbandonandosi agli eventi, sparendo alla vista dei propri conoscenti, in attesa di una morte già presentita, di cui rimane ignota solo la data. Inutile ribellarsi: si può urlare e dibattersi, scagliare invettive e maledizioni, intraprendere viaggi in notti che non avranno termine. Il destino che ci attende è il Nulla. Meglio esserne consapevoli. E accettare la fatica di Sisifo che consiste nel vivere comunque. Senza scopi, senza speranze. Ad ospitare sempre la stessa sofferenza, mandando avanti le routines della vita quotidiana. Consapevoli che la realtà è il regno dell’assurdo, della tensione continua fra l’illusione del senso e la consapevolezza della sua mancanza. Dell’essere, noi, presenze superflue, fungibili, sul pianeta.
Combattuti fra le spinte del desiderio e la percezione dell’impossbilità di realizzarlo. Un desiderio che ha di fatto come obiettivo un oggetto metafisico, indefinito, spettrale. La porta d’ingresso alla depressione, il male dell’anima del secolo. Una “Cosa brutta” grigia, plumbea, ottusa, soffocante pur nel suo proiettarci in un immenso vuoto, per liberarci del quale ci rimane solo fissare noi e attuare il Termine ultimo della nostra consapevolezza – e con questa del nostro dolore, del nostro soffrire. Chiedendoci se riusciremo almeno ad “entrare nella morte ad occhi aperti”.
Lo stesso vuoto di cui è fatto il nostro Sé, che la Modernità ci permetteva di riempire narrandoci a noi stessi, sicuri della memoria del passato, proiettati verso il nostro progetto di futuro.
Quella Modernità che ha elaborato le ultime utopie, le uniche costruzioni sociali che aboliscono il dolore, lo cancellano dal loro statuto e lo fanno tutte, nessuna esclusa, trasversalmente alle epoche in cui sono sorte. Incluse le ultime utopie, o quasi ultime.
Un’utopia è tuttora in vita, la sola a essere anche incarnata in un sistema sociale, dispositivo narrativo e performante che tenta l’impossibile assalto al cielo: osare, fallire e di nuovo osare l’edificazione di un mondo senza dolore e sofferenza, edificando così un nuovo soggetto identitario alleggerito dal peso del mondo, dal suo dolore. Un azzardo senza precedenti.
L’unica utopia oggi vivente, sulla quale si investono molteplici energie, economiche, tecnologiche e comunicative: la società dei consumatori.
Qui il dolore è assente, evitato, tenuto alla larga. Tutti gli sforzi profusi mirano alla cancellazione del dolore anche quello dovuto alla naturale fatica dell’agire. Il mondo del consumo non conosce dolore, è privo di senso, è il trionfo del segno nomade, che vaga in pellegrinaggio continuo. La convenienza migra nella comodità, questa si camuffa da soddisfazione, che a sua volta rimbalza nel grande nulla della qualità, buco nero che risucchia qualsiasi concetto, transitando per tutte le stazioni del senso, dalla convenienza, alla soddisfazione, alla fiducia, al benessere, al servizio, alla crescita e alla moltiplicazione dei servizi che altro non sono che segni della qualità… una fantasmagoria non più della merce ma della sua circolazione, soltanto.
In questo mondo utopico nessuno soffre, oggi meno di ieri, grazie alle cure amorevoli, preventive, mirate al benessere del consumattore, il protagonista, il personaggio della scena di vendita progressivamente individualizzato, monitorato, seguito, studiato, analizzato, sezionato anatomicamente, laddove le aree del corpo umano sono i bisogni immateriali che assumono forma di target.
La medicina è il grande sapere in prima linea nell’eterna lotta contro il dolore e la sofferenza, la farmacologia è l’avamposto di questa lotta impari. Le tecnologie alimentari, chimiche, digitali, a loro volta costituiscono il grande sapere che scorre nel mondo utopico del consumo. Il corpo del consumatore è il luogo d’incontro di questi know-how diversi e complementari. Ogni utopia ha una scienza altra, perché il sistema sociale che l’ha concepita è fondato sull’essere altro, pena la sua inconcepibilità, così come la residenza di Utopia è in terre ignote, il tratto forte di questa differenza; quando non è una terra ignota sul nostro pianeta è altrove, sulla Luna, o collocata su altri corpi celesti, sempre a una netta distanza e così sarà anche per le utopie più ambigue della fiction novecentesca.
I saperi che si dedicano al corpo del cittadino di Utopia, mirano sempre a disincarnarlo oppure ad amplificarne i piaceri, o entrambe le cose, forse identiche se considerate come stato di assenza totale di dolore.
I saperi che si dedicano al corpo del cittadino/consumattore
assolvono alle stesso compito. Gli risparmiano inutili fatiche, attività superflue, sono attente alla salute, ottimizzano tempo e risorse, agevolano operazioni necessarie ma noiose, appena possono subentrano e liberano dall’obbligo di svolgere pratiche routinarie, stimolano hobby, passioni innocenti, appetiti culturali, necessità etiche, liberano dal tedio. Sono al servizio del consumattore, servi di un sovrano, di una comunità di regnanti, una vera utopia, che a questo fine cancella dolore e sofferenza.
L’utopia del consumo vive in un eterno presente, atemporalità condivisa con l’immortalità divina, l’unica condizione in grado di garantire l’assenza di dolore e sofferenza. Un’eternità lunga un giorno, una quotidianità costellata di sensori, in grado di registrare comportamenti, abitudini, attitudini e di tradurli in dati, in informazioni fruibili per sviluppare nuovi prodotti e nuovi servizi tendenzialmente in tempo reale. È il mondo dell’Internet delle Cose e dei Big Data. È il paradiso dell’oggetto che contempla il suo signore (e viceversa).
Nella dimora del monarca tutto tende a connettersi, a dialogare, a produrre storie affluenti che si riversano nel fiume del grande racconto che anima l’utopia del consumo. La casa diventa intelligente, i suoi muri portanti sono i dispositivi smart e dalle app che servono per comandare un po’ tutti i dispositivi in casa, dalle lampadine al riscaldamento, dalle tapparelle agli allarmi, dagli impianti audio agli elettrodomestici. L’utopia del consumo condivide con la fantascienza storica il piacere per la meraviglia che il gadget regala. Il Directoscopio gernsbackiano e le app che adattano i suggerimenti e le indicazioni nutrizionali in base ai valori glicemici o alle intolleranze alimentari hanno la medesima anima, perché il gadget nell’utopia del consumo è indifferente ai concetti di utile e inutile. Il suo codice gli impone di servire per liberarci da dolore e sofferenza, anzi per far sì che continuino a non avere cittadinanza in questa Utopia.
È il medesimo sapere che genera gioco, piacere, divertimento e informazione, tutto quanto serve alla felicità del consumattore. Videogame, musica trasmessa on-demand, etichette intelligenti sugli scaffali dei supermercati, domotica, realtà aumentata: gioco e consumo.
Gioco dunque consumo, consumo dunque gioco, un orizzonte libertario, ludico, utopico, che ogni giorno si fa pratica, non resta confinato tra le pagine di un testo, come molte utopie del passato, non scende a patti con la realtà macchiandosi di crimini e generando ulteriori dolori e sofferenze, come altre utopie più recenti. Non addomestica le masse con l’oppiaceo del benessere indistinto per tutti, a sua volta fonte di distopie del consumo all’alba del suo pieno sorgere a metà Novecento. Utopie negative necessarie, talaltro, paradossalmente, poiché fungono da garanzia, come se generando una distopia si comprovasse la genuinità della dottrina ortodossa. No, il consumo ogni giorno si risveglia con la medesima promessa di felicità dedicata e fabbricata su misura per ogni singolo consumattore, che una folla di dispositivi a presidio di ogni gesto e ora del giorno si premura di realizzare, che ogni giorno si ripromette – negando la promessa precedente – di migliorare e di replicare al tempo stesso, perché la contraddizione non è del regno di Utopia. In queste terre coincidono l’augurio di un giorno migliore e di un giorno sempre uguale (perché il migliore possibile).
La società dei consumattori è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti gli storici cartoon della Warner Bros., i Looney Tunes, ne condividono il dono dell’assenza di dolore e ne rispecchiamo la medesima coazione a ripetere per ottenere un’impossibile soddisfazione del desiderio. Willy il coyote che insegue Road Runner, cioè Beep-Beep, assorbe ogni colpo senza soffrire e ritenta l’impresa senza sosta. Altrettanto fa Sylvester The Cat, da noi Gatto Silvestro, nell’inutile caccia a Tweety (Titti) e così fanno gli abitanti del mondo dei consumi, altrettanto impermeabili al dolore. Il consumattore non può mai essere del tutto soddisfatto perché l’atto d’acquisto, come l’azione dei Looney Tunes, è per sua natura destinata a ripetersi, è fatta di approssimazioni immaginarie all’oggetto del desiderio.
Forse l’utopico mondo dei consumi è adiacente alla Cartoonia di Roger Rabbit.
Soggetto, signore, attore di questo mondo asettico, anestetizzato ma, in virtù della coabitazione degli opposti, ricco di sensazioni, di felicità, di piacere, il consumattore è l’uomo schizoide del ventunesimo secolo. Osservato all’interno del grande racconto dell’utopia consumista, è sì portatore di molteplici identità, ma non soffre neanche delle sue incongruenze. È un puzzle. I gusti, orientamenti, interessi, atteggiamenti, opinioni, preferenze, che ospita ne fanno il Sé più contradditorio mai concepito dall’immaginazione umana. Assente però è il conflitto, la condizione sottostante al dolore e alla sofferenza, che sempre sorgono su uno scontro, un dibattersi all’interno del corpo o dell’anima. Il dolore al massimo è consumato, una volta de/formato in spettacolo e veicolato in video. Il consumattore è anche il signore della visione, non più spettatore anonimo, audience opaca, massa ottusa e cieca di fronte allo schermo. Niente affatto, egli interagisce, sceglie e riceve offerte sempre più personalizzate. In parte avviene, in parte no, è immaginato, raccontato per sostanziare il reale che di queste narrazioni si nutre. Circolarità: produzione di racconti a mezzo di racconti.
Tutto ciò è Utopia, ma ai suoi margini il dolore e la sofferenza dilagano: la civiltà dei consumi si mantiene in vita sulle spalle del lavoro precario, neofeudale, finanche schiavistico imposto dall’Occidente ai quattro angoli del mondo. Troneggia, ad esempio, sui cadaveri dei circa duecentosettantamila contadini indiani suicidi negli ultimi dieci anni per debiti contratti con la multinazionale Monsanto. Sorge sulle esili spalle dei bambini che lavorano dodici ore al giorno per gli appalti orientali della Apple. Si sorregge, per restare in Europa, grazie ai circa trenta milioni di disoccupati obbligati ad accettare contratti miserabili. Quanto ai reali consumattori, questi sono in parte milioni di persone costrette a lavorare fino alle soglie dei settant’anni, in parte sono destinate a esserlo. In prospettiva sono in massima parte condannati alla vita flessibile in cambio di un reddito rigidamente modesto.
Il dolore del mondo però è insopprimibile, più lo si soffoca più riemerge, più ritorna. Ritornare, è quello che fanno gli zombi.
Nella società dei consumattori non esiste la sofferenza prodotta dal lavoro, il corpo del lavoro come quello immaginario degli zombi è morto solo in parte, condivide con i consumatori la capacità di non soffrire.
Il polo centrifugo del nostro desiderio, della nostra ricerca di senso rimane la Morte, che precipita nella sua rappresentazione più digustosa. Cambia forma, cambia figura, cambia involucro: a materializzare la dinamica della nostra coazione a riempire uno spazio interiore ormai perennemente vuoto, sempre insoddisfatto, sempre affamato di senso, compare lo zombie.
A essere rappresentata non è più la morte della modernità romantica evocata nel fantasma, ectoplasmica, immateriale, nobile, a suo modo, ma la sua incarnazione letterale nello zombie, figura estrema della morte dopo la morte, della morte che muore all’infinito, priva di volontà, di coscienza, di sentimenti e sensazioni. Priva della capacità di soffrire, di provare dolore, fisico o interiore. Lo zombie è puro corpo, pura materia, pura fame, cascame marcescente in perenne decomposizione. Carne morta che uccide la carne per consumarla, assimilandola a sé, in un ciclo idiota, senza fine e senza scopo, se non quello della riproduzione semplice. Lo zombie è il doppio del consumattore, è al polo opposto della medesima sfera esistenziale.
Una delle prospettive del postumano, forse, che si aggiunge alle altre; la sua forma più degradata, ripugnante, ormai solo carne marcia, materia purulenta in eterna decomposizione, che riproduce continuamente se stessa uccidendo la carne viva che ingurgita, ma senza crescita, senza cambiamento, in una frenetica stasi – uno dei segni dello zodiaco del nuovo millennio, senz’altro di natura opposta a quella di replicanti, cyborg, cloni, nonostante tutto ancora figure dell’ottimismo progressivo del moderno, spettri della nostalgia per un futuro mai stato.
Si faccia attenzione: lo zombie non appartiene alla tradizione occidentale, non è un luogo del gotico o del fantastico, come il fantasma, il vampiro, il licantropo. Muove i suoi primi passi ai margini dell’Occidente, dove in parallelo sorge l’Utopia del consumattore. Arriva dalle frontiere, dove ora è risiede il mondo del lavoro semifeudale e schiavistico.
Ad Haiti, nei culti sincretici spuntativi come in altre aree del Centro e Sud America, lo zombie in origine è un individuo indotto da uno stregone in uno stato di letargia che lo sottomette alla volontà del negromante stesso. Magia nera, se si vuole, ma niente di più. È una presenza recente, quindi, per l’immaginario collettivo, importata direttamente nel cinema dal folklore haitiano attorno ai primi decenni del XX secolo.
Il primo film in cui appaiono è del 1932, L’isola degli zombies, che vede Edward e Viktor Halperin dirigere Bela Lugosi che interpreta un negromante che sfrutta degli schiavi drogandoli, esseri a metà strada fra cadaveri riesumati e forniti di una parvenza di vita e uomini viventi privati della propria volontà. È l’anno di nascita del genere, che quell’anno conta solo altre due pellicole sui non morti.
Una massa formata da individui inerti, quindi, privi di volontà, schiavi destinati allo sfruttamento. Metafore del proletariato, insomma, in pieno fordismo. Alla lontana, imparentati con gli operai di Metropolis, o ancor di più con gli abbrutiti Morlocks di Herbert G. Wells, non ancora animati dalla perenne, insaziabile fame dei loro successori.
Bisognerà aspettare il 1968 e La notte dei morti viventi perché gli zombies acquistino (finalmente?) la loro identità – per così dire – definitiva: quella di ammassi di carne putrescente tenuta insieme alla bell’e meglio da tendini, nervi e ossa peda di una inconsulta e inestinguibile voracità. Gli zombie del secondo dopoguerra non sono più vittime del commercio con il soprannaturale, ma della scienza: gli zombie in questo film sono l’effetto di una fuga di radiazioni da una sonda sperimentale…
Esseri di confine, di passaggio, all’alba del tardo moderno, troveranno dieci anni dopo la loro identità definitiva – e esplicita – nel secondo film di Romero, Zombi, nell’assalto al simbolo delle nuove cattedrali del consumo, un centro commerciale, a incarnare l’ossessione e l’estasi del finish del consumattore.
“I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione”
(James G. Ballard, 2009; cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero7).
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