Parlerò del dolore ricorrendo a qualche angolazione
che non è usuale per chi ha avuto e continua ad avere buona
frequentazione dell’immaginario cinetelevisivo e dunque di
immagini che con il dolore dei sentimenti e della carne hanno avuto
sempre a che vedere. E sino ad oggi sono andate aumentando a dismisura
di intensità e frequenza, basti pensare alle ultime versioni
dell’umanissimo Batman (in particolare il Batman
Begins diretto da Christopher Nolan nel 2005, e il suo
rovescio psicologico del 2015, Birdman). Direi, per
inciso, che in ambito letterario e poi cinematografico – a
parte la tragicità di Frankenstein (macchina di carne e
carne della macchina), la sua sofferenza umana e insieme contro-natura,
artificiale – risulta potentemente fondativa
l’iterata sequenza in cui la modernità
progressista del dottor Jekyll si trasforma nella violenza animale,
originaria, di Mister Hyde proprio attraverso il più
lancinante dolore fisico della loro comune, in comune e banale,
identità umana. Il dolore come linea di confine tra
l’essere e l’esserci.
Ma qui, pur educato
dalle figure appena ricordate e rischiando di deludervi, dato
l’amore che ci lega ai miti del fantastico e
dell’horror, parlerò invece di un nesso, raramente
o troppo timidamente trattato, tra la volontà di sapere e la
rimozione del dolore. Da un lato i modi in cui l’umanesimo
continua a progredire all’interno dei propri valori storici e
sociali facendo ricorso alla tradizione di discipline come la filosofia
ma anche la sociologia, in cui il dolore viene ridotto al massimo
soltanto a uno dei loro possibili temi di studio. Dall’altro
lato, la presenza del dolore come rivelazione,
coscienza di sé proprio in quanto dolore che rende cosciente
ciò che più gli resiste e gli si oppone: la
volontà di potenza, il nostro desiderio di sopravvivenza e
la felicità che essa promette.
Penso che il dolore
– non quello confortato da un qualche umanitarismo che
intenda lenirlo – faccia presente, adotti, una esperienza
dell’umano e del mondo in grado di potere contravvenire al
contenuto e al metodo di tali discipline, alla loro
incapacità, rifiuto e non-volontà, di tornare
alla radice ormai lontanissima del proprio avanzare sempre di nuovo su
se stesse. Paradossale sopravvivenza del loro metodo invece che della
loro iniziale motivazione. Cecità sul passato che si
vorrebbe redimere. È questa che vi propongo una mossa
difficile, che ancora non riesco a scrivere come vorrei e che tuttavia
mi pare la cosa da fare. Forse non so ancora teorizzarla, magari
difetta di una rigorosa logica del discorso, ma mi pare urgente
esprimerla almeno come aspirazione. Entrare nella sua
necessità.
Lo so. Molto è stato detto
sul dolore dal pensiero negativo ottocentesco e novecentesco: un
pensiero antimoderno e spesso anti-umanista (forse per un eccesso di
volontà di potenza e di critica dell’umanesimo
che, persino ai suoi più alti e radicali livelli, nasceva da
una sorta di super-modernismo e di super-umanesimo, quindi
nell’attesa di un essere umano perfetto, di una sua perfetta
modernità, perfetto superamento di sé?) In ogni
caso, se mi riallacciassi direttamente a quella tradizione alta ma
“minore” verrei da subito meno al mio tentativo, al
tentativo che qui intendo esporvi. E forse l’angolatura in
cui mi colloco può spiegare perché quelle forme
di pensiero non sono entrate nelle strategie e pratiche del pensiero e
dell’agire politico. Ma prima di procedere, ci vuole una
breve premessa: così da spiegare perché la stessa
difficoltà che incontro nello scrivere quello che vorrei
esprimere non può che partire appunto dalla scrittura, dal
dispositivo che, incardinato nell’autorità del
libro, regge ogni storica esperienza religiosa e ogni disciplina del
sapere.
Il nodo da sciogliere sta nella differenza
tra percepire e riflettere. Riflettere costituisce una seconda mossa
del pensare e del sentire immediati. La lettura costituisce un pensiero
immediato e tanto più – per essere compresa,
abitata – impone il suo ripensamento. La funzione di questa
seconda mossa in cui consiste la riflessione – che, via via,
dopo essere iniziata, si fa terza e quarta e quinta
all’infinito e, snocciolandosi a catena, a piacimento
– è andata sempre più crescendo quanto
più vasti si facevano i repertori del sapere cui attingere.
Quanto più sono estese le letture da fare e, volendo far
sì che la riflessione conseguente resti davvero appesa al
proprio inizio – quanto più, dunque, tali letture
sono risolutive ma, appunto per potere fornire soluzioni condivise e
condivisibili, anche pronte ad aprirsi di nuovo al riflettere di altri
autori – tanto più questi repertori di pensiero si
sono accresciuti a tal punto da allontanarsi dalla percezione diretta
del sentire direttamente – senza mediazioni – il
mondo che ci ha fatto e ci fa da matrice: l’esperienza
mondana che si fonda sulla vita e la morte. Il dolore
è quanto di più prossimo – lo si
è visto con il dottor Jekyll e Mister Hyde – con
la vita e la morte.
Contrariamente al luogo comune sapienziale che imputa alle
tecnologie della comunicazione digitale il pericolo di un abbandono
progressivo della realtà tangibile dell’esperienza
(che si dice: tangibile), è proprio l’accumulo di
sapere che, mettendo a lavoro la macchina del pensiero, si allontana
dal suo soggetto, dalla sua proprietà primaria. E,
prendendone le distanze, si raffredda o si riscalda per qualcosa di
affatto diverso dal “proprio” della propria natura.
I passaggi del sapere diventano allora più rilevanti del
primo passo da cui e per cui sono nati e si sono moltiplicati,
dimenticando così le grandi domande sul mistero della vita e
della morte, del dolore e della felicità, che ne erano il
fondamento originario. I molti passi compiuti diventano tali da perdere
di vista la traccia iniziale. Si dice tradurre
“all’impronta” per dire orma e insieme
improvvisazione. La traccia è qui cancellata o tanto
abbandonata, derelitta, da essersi trasformata in un fossile. E a
riaccendersi di solito non è più il fossile ma
qualche polvere di durata assai minore.
Veniamo da tradizioni
che alla natura dello stile affidano i modi in cui il soggetto orna il
proprio discorso e, ornandolo, lo animano di sé, danno
calore emotivo alla propria disciplina. Come accennerò
più avanti – al momento più giusto
– proprio ora (il tempo di un progressivo crollo delle etiche
universali nel loro tutto e nelle loro parti) la disciplina, che
significa accettare un controllo imposto dall’esterno,
andrebbe scavalcata dalla interiorità dello stile. Oppure
– per dire lo stesso concetto – la disciplina delle
istituzioni dovrebbe fare luogo alla disciplina della persona, del
sé. Lo stile dell’azzardo, della partita
risolutiva, dell’unica cosa ultima e
dunque prima da fare: si tratta di mostrare
quanto, nel riflettere sul mondo, si è capaci di perseguire
questa linea di condotta personale risolutamente e senza
distrazioni?
Credo di sì, credo che si
debba riflettere sul mondo immediatamente, senza alcun filtro
alfabetico e deviazione autoriale, autoritativa; senza che altre
riflessioni vengano a frapporsi per contrastarci. Concepire dunque la
riflessione non come lo strumento necessario ad arrivare
all’oggetto ispiratore della propria riflessione ma semmai
come lo strumento più necessario ad arrivare –
tornare – all’oggetto da cui ripartire per potere
riflettere su nient’altro che l’oggetto stesso.
Sembra soltanto un gioco di parole, ma non è
così. La riflessione sull’oggetto – un
oggetto non letto ma vissuto, il dolore – non dovrebbe
spingersi oltre l’oggetto stesso. Dovrebbe trattenersi in
esso, non tentare vie di fuga.
Necessario come tutto
ciò che non muta è il dolore. Per questa
necessità, ormai da qualche tempo mi vedo spinto a enunciare
i motivi per cui scrivo. A cercarli prima che, divagando, si
impantanino nelle scritture di altri. Non perché non ritenga
di rilievo le altrui scritture (e non perché debba tradire
la tradizione per principio, perché nell’atto
stesso di dovere argomentare il loro tradimento, cadrei nel ben noto
tranello tradizione-tradimento e ne sarei quindi da subito sconfitto),
ma perché i motivi per i quali penso o quantomeno
desidererei pensare sono in tutto esclusivi (la necessità
dell’inclusione semmai ne discende ma non la genera): essi mi
nascono dall’idea che l’unico medium su cui basare
una visione del mondo, e della società che vi si
è generata, sia costituito dal dolore. Non possa che passare
attraverso il dolore. E non nel senso di infelicità, che
sarebbe cadere immediatamente in bocca alla principale o meglio sovrana
fascinazione del moderno, il quale nel “nuovo”
sempre si rinnova di se stesso, e in se stesso, come
speranza di liberazione dalla sofferenza generica dei regimi sociali e
dei conflitti di potere che ne sarebbero la causa. Ma nel senso del
dolore psicofisico della mia carne: quanto di meno
“politico” esista in virtù del fatto che
esso riguarda parimenti il mio “amico” e il mio
“nemico”. Quanto di meno sociale vi sia per il
fatto che esso riguarda la vittima e il carnefice, il giusto e
l’ingiusto. E abita nei conflitti di potere del vivente al di
là di ogni suo grado. È sensibile per ogni
organismo capace di sentirlo. Infine avere ragione o torto
sull’altro non salva dal dolore. La scelta di infliggerlo si
rispecchia nella condizione di subirlo.
Questa è la
mia prima nota, la mia prima approssimazione – di sicuro
rozza e inadeguata al problema – che, invecchiando di testa e
di memoria, ora più mi sta a cuore. E che per me –
in apparente contraddizione con quanto ho appena detto –
è il problema più politico che riesca a
immaginare adesso: politica ora e qui nel senso di arti
dell’abitare il mondo. Come potere riuscire – in
ognuna di queste arti, di pace o di guerra che siano, democratiche o
totalitarie – a tenere in conto il dolore della nostra carne
al fine di avere almeno un margine di controllo sul dolore che in
quanto soggetti sociali siamo obbligati a produrre sugli altri e su noi
stessi: morte (imperialismo e religioni), fame (globalizzazione e
disuguaglianza sociale), disastri (ambiente), malessere (malgoverno) e
via dicendo. È da qui che per me va discussa la
possibilità o meno di affrontare le cose del mondo
– farle essere mente e azione per me, farne da testimone
responsabile – senza sapere
ciò che di esse prima è stato detto nei diversi
campi disciplinari della cultura umana o in anche soltanto in uno di
essi. Non serve più ripetersi, è necessario
iniziare.
Si è spesso affermata ad esempio la distanza tra chi è filosofo e chi è storico della filosofia. Al primo viene rimarcata una originalità che mancherebbe al secondo. Al contempo si dà assai raramente il caso che qualcuno faccia il filosofo senza conoscere la storia della filosofia. A questa dimensione disciplinare come alle altre è dunque concesso ragionare solo aggiungendo un mattone o un ingranaggio alla barriera o alla macchina edificata e costruita da altri. E ci sono ragioni molto serie – proprietà di linguaggio e efficienza del discorso – per sostenere una simile posizione. Tuttavia, di questa stretta interdipendenza tra l’essere filosofo e l’essere storico della filosofia, si tratta solo quando ci si rivolge a casi di comprovata qualità professionale – una scienza, una specifica tecnica del pensare, ben definita come ben definite sono le tecniche usate anche dalle professioni scientifiche propriamente dette. Ma di un “semplice” o di una personalità culturalmente appena più complessa – ma non operante e misconosciuta in base ai canoni della filosofia e dei suoi ruoli istituzionali – si dice soltanto che “fa il filosofo”. Naturalmente sappiamo bene che qui, nel libero filosofeggiare, c’è una forma mentis di cui siamo debitori in virtù dello scorrere del tempo situato cui apparteniamo e del crescere della nostra personalità per mezzo di una serie di più o meno ordinate influenze esterne, e delle più o meno consapevoli rielaborazioni che ne facciamo. Tuttavia sappiamo che questa forma di pensiero esula dalla appartenenza al campo disciplinare della filosofia. È fuori della sua disciplina.
Il
nulla è assenza di esperienza e anche questa, quando sia
esperienza ricordata, sempre lo è in
sincronia con il momento stesso del pensare, con l’esserci
che pensa ripensando qui e ora. Per questo si è potuto dire
– e sempre più s’è detto
nella curvatura finale del tempo moderno – che il presente ci
stringe in un implacabile morsa tra futuro e passato e che dunque ci
getta in quel qualcosa che emerge tra due nulla. Un
nulla tuttavia gravido di ciò che esclude. E così
– su altro registro, quello teologico –
s’è azzardata e persino privilegiata una perfetta
coincidenza tra il dio e il niente. Non è un caso che la
teologia sia tornata esplicitamente nel pensiero politico. E questo in
quella.
Sguarniti di competenza – quella competenza
misurata su ciò che sappiamo restando ed anzi obbligandoci a
restare dentro l’apparato disciplinare in cui siamo inscritti
– ci troviamo sempre di nuovo per così dire
sospesi, consapevolmente o inconsapevolmente indecisi, tra il tutto e
il niente. Ma quando affrontiamo uno specifico tema nel
rispetto degli strumenti sapienziali della nostra disciplina, del
sapere di cui siamo e veniamo ritenuti esperti,
coniughiamo il niente attraverso il tutto o il tutto attraverso il
niente? Facciamo i filosofi senza pensiero filosofico oppure pensiamo
mancando l’oggetto del nostro pensiero?
Credo
comunque che ci voglia una bella fiducia nella storia e nella
continuità della tradizione – su questo si fonda
l’argomentazione disciplinare anche e forse soprattutto
quando vada contro l’una e l’altra, contro la
storia e le sue tradizioni – per riuscire ad affidarci ad
esse al fine di capire il mondo presente che abitiamo. Quella presenza
che ce lo fa intuire come unica possibile. Mi viene sempre
più il sospetto che affidarci ad argomentazioni legate alle
diverse credenze accumulate nel tempo disciplinare sia una forma di
distrazione, evasione, alienazione, da ciò che pretendiamo
scoprire in merito al presente. E mi pare che un presente
così complesso come quello attuale aggravi il rischio di
distrarsi da ciò che in realtà dovremmo cercare
(definire, arrivando cioè alla sua fine
– che è il luogo effettivo, non più
tempo ma spazio, in cui esistiamo). Citazioni e bibliografie sono il
dispositivo di tale distrazione dal necessario, se la
necessità è appunto cogliere la
qualità del presente. Il testo che ne risulta è
popolato delle voci dei morti per quanto evocate al
solo fine di fruttare qualcosa per i vivi e il vivente.
L’immaginario cinetelevisivo sembra decretare il trionfo del
cadavere sulla carne viva e la sconfitta di ogni iniziativa sociale e
persino guerra a fronte dell’orrore.
Agendo in questo modo – bibliografico –
finiamo per ammettere che l’osservazione della
realtà a noi circostante sia muta, silente, e che solo
percependola da altrove e da altri
possa avere un significato. Finiamo per dimostrare che non ci sono fatti
la cui evidenza vada prima – se non esclusivamente
– cercata nello sguardo che rivolgiamo loro direttamente.
Immediatamente. Non è, mi pare, il modo in cui si
è andato sviluppando il dibattito tra fatti e
interpretazione dei fatti. Dei fatti si è data una teoria
realista in grado di orientare socialmente e quindi con i vari mezzi
tradizionali del conflitto politico, mentre invece il dolore
è una realtà che non orienta la politica quanto
piuttosto cerca di suggerire una distanza da essa. Una sottrazione che,
praticata, toglierebbe una parte di sostanza alle pratiche cui la
nostra volontà di potenza ci costringe. La morale
è che essa non può cadere nel tranello delle
etiche e delle estetiche.
A questo punto e in conclusione
c’è da sgombrare il campo delle idee che sono
socialmente prevalse nel sapere istituzionale e
nell’interpretazione dei singoli individui a riguardo del
contrastato problema su come si debbano intendere i rapporti tra morale
e etica. Il problema è andato aggravandosi per effetto della
crescente complessità dei rapporti sociali e, al contempo,
per il loro corrompersi a causa della stanchezza o esasperazione dei
propri attori. Non a caso, dall’alto dei grandi ideali e
grandi obiettivi dell’etica, il dibattito politico
– nazional-popolare – è sempre
più precipitato verso il basso di temi di costume
individuale e pubblico, per denunciare la qualità morale di
chi – al contrario – avrebbe il dovere di
rappresentare la qualità etica degli apparati sottoposti al
suo comando. Ma al contempo, sempre non a caso, le reti digitali
sembrano annunciare non una nuova ricomposizione – saldatura
– delle attuali fratture sociali, ma una piattaforma
espressiva multitudinaria in cui si dà luogo
all’incrocio tra la comunicazione “uno a
molti” dei media frontali della tradizione industriale
(culture della produzione) e comunicazione – uno ad uno,
tanti a tanti, tanti a uno – del web (culture dei consumi).
Solitamente questo rapporto tra morale e etica viene inteso relegando
la morale nella sfera personale e affidando invece all’etica
il conseguimento di fini che siano “buoni” per la
collettività. Ciò che è
proprietà interiore del singolo entra così in
dialettica con il ruolo che svolge e gli viene fatto svolgere negli
apparati e nelle organizzazioni sociali.
Ma la morale distinta
e separata dall’etica è quello che in concreto
risulta essere la volontà personale di ciascuno,
volontà situata e operante, messa all’opera di se
stessa, messa al lavoro da se stessa: è il “buon
fine” che conta sul mezzo necessario a potersi realizzare,
sullo strumento più idoneo a soddisfare il proprio bisogno
di affermazione. E qui si misura tutta l’ambiguità
e ambivalenza tra bisogno e desiderio. Il grande tema che,
scenograficamente, fa stridere tra loro l’autentico e
l’inautentico, il dono e la merce, la disperazione della
necessità e la violenza della volontà di
potenza.
La morale si specchierebbe dunque
nell’etica e questa conterebbe sull’altra, appunto
la morale, se non fosse che la violenza del mondo vivente, e in esso
dei rapporti umani, comunque sempre basati su relazioni personali
dirette o collettivamente mediate, infrange lo specchio di questo
riflettersi reciproco, armonico o disarmonico che sia. Così,
alla caduta (corruzione, cattivo governo, cattivi fini e guerre) dei
vincoli etici necessari al funzionamento delle istituzioni che se ne
dovrebbero fare garanti (stato, governi, partiti, amministrazioni e
imprese, religioni, lavoro, famiglia e altre agenzie di
socializzazione), corrisponde il fatto che la
persona è afflitta dal desiderio di sopravvivenza in misura
almeno uguale se non superiore ai propri sistemi sociali di
appartenenza. Dunque anche scelte morali e etiche ritenute virtuose
dalla collettività non bastano assolutamente a impedire che
ogni tattica e strategia della vita quotidiana – con le sue
più emblematiche figure: il padre, il sacerdote, il sovrano,
la sovranità, lo stato, il capitalismo, il potere
finanziario – sia costruita per mezzo della produzione e
consumo del dolore vivo della carne. Ed è quindi in una
singola persona che il dolore può farsi coscienza del
sé e dell’altro. Solo questa singolare
coscienza è in grado di fornire un intervallo, una camera di
decompressione, tra la morale di un individuo è la violenza
del mondo.
Se in ultimo vi venisse il sospetto che sia andato
fuori tema rispetto a una rivista dedicata alle figure
dell’immaginario, è bene ricordare che esse si
collocano sulla linea liminale tra rito e società e che il
mio discorso sull’immediato, sul sempre dell’ora e
qui, potrebbe ricominciare a partire dalla natura rituale di tali
figure. Dal fatto di essere il medium che dà senso
– facendo da specchio, da rispecchiamento simbolico
– alla natura umana. Medium come contenuto di una infinita
dolorosa trasformazione. Di cui, prima di ogni eroe tardo-moderno e
post-moderno della nostra immaginazione, fa da annuncio quel Prometeo
al quale un’aquila o se volete un angelo sterminatore rode in
perpetuo il fegato. La sua inesauribile carne-mondo.