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di Alberto Abruzzese

 

Parlerò del dolore ricorrendo a qualche angolazione che non è usuale per chi ha avuto e continua ad avere buona frequentazione dell’immaginario cinetelevisivo e dunque di immagini che con il dolore dei sentimenti e della carne hanno avuto sempre a che vedere. E sino ad oggi sono andate aumentando a dismisura di intensità e frequenza, basti pensare alle ultime versioni dell’umanissimo Batman (in particolare il Batman Begins diretto da Christopher Nolan nel 2005, e il suo rovescio psicologico del 2015, Birdman). Direi, per inciso, che in ambito letterario e poi cinematografico – a parte la tragicità di Frankenstein (macchina di carne e carne della macchina), la sua sofferenza umana e insieme contro-natura, artificiale – risulta potentemente fondativa l’iterata sequenza in cui la modernità progressista del dottor Jekyll si trasforma nella violenza animale, originaria, di Mister Hyde proprio attraverso il più lancinante dolore fisico della loro comune, in comune e banale, identità umana. Il dolore come linea di confine tra l’essere e l’esserci.
Ma qui, pur educato dalle figure appena ricordate e rischiando di deludervi, dato l’amore che ci lega ai miti del fantastico e dell’horror, parlerò invece di un nesso, raramente o troppo timidamente trattato, tra la volontà di sapere e la rimozione del dolore. Da un lato i modi in cui l’umanesimo continua a progredire all’interno dei propri valori storici e sociali facendo ricorso alla tradizione di discipline come la filosofia ma anche la sociologia, in cui il dolore viene ridotto al massimo soltanto a uno dei loro possibili temi di studio. Dall’altro lato, la presenza del dolore come rivelazione, coscienza di sé proprio in quanto dolore che rende cosciente ciò che più gli resiste e gli si oppone: la volontà di potenza, il nostro desiderio di sopravvivenza e la felicità che essa promette.
Penso che il dolore – non quello confortato da un qualche umanitarismo che intenda lenirlo – faccia presente, adotti, una esperienza dell’umano e del mondo in grado di potere contravvenire al contenuto e al metodo di tali discipline, alla loro incapacità, rifiuto e non-volontà, di tornare alla radice ormai lontanissima del proprio avanzare sempre di nuovo su se stesse. Paradossale sopravvivenza del loro metodo invece che della loro iniziale motivazione. Cecità sul passato che si vorrebbe redimere. È questa che vi propongo una mossa difficile, che ancora non riesco a scrivere come vorrei e che tuttavia mi pare la cosa da fare. Forse non so ancora teorizzarla, magari difetta di una rigorosa logica del discorso, ma mi pare urgente esprimerla almeno come aspirazione. Entrare nella sua necessità.
Lo so. Molto è stato detto sul dolore dal pensiero negativo ottocentesco e novecentesco: un pensiero antimoderno e spesso anti-umanista (forse per un eccesso di volontà di potenza e di critica dell’umanesimo che, persino ai suoi più alti e radicali livelli, nasceva da una sorta di super-modernismo e di super-umanesimo, quindi nell’attesa di un essere umano perfetto, di una sua perfetta modernità, perfetto superamento di sé?) In ogni caso, se mi riallacciassi direttamente a quella tradizione alta ma “minore” verrei da subito meno al mio tentativo, al tentativo che qui intendo esporvi. E forse l’angolatura in cui mi colloco può spiegare perché quelle forme di pensiero non sono entrate nelle strategie e pratiche del pensiero e dell’agire politico. Ma prima di procedere, ci vuole una breve premessa: così da spiegare perché la stessa difficoltà che incontro nello scrivere quello che vorrei esprimere non può che partire appunto dalla scrittura, dal dispositivo che, incardinato nell’autorità del libro, regge ogni storica esperienza religiosa e ogni disciplina del sapere. 
Il nodo da sciogliere sta nella differenza tra percepire e riflettere. Riflettere costituisce una seconda mossa del pensare e del sentire immediati. La lettura costituisce un pensiero immediato e tanto più – per essere compresa, abitata – impone il suo ripensamento. La funzione di questa seconda mossa in cui consiste la riflessione – che, via via, dopo essere iniziata, si fa terza e quarta e quinta all’infinito e, snocciolandosi a catena, a piacimento – è andata sempre più crescendo quanto più vasti si facevano i repertori del sapere cui attingere. Quanto più sono estese le letture da fare e, volendo far sì che la riflessione conseguente resti davvero appesa al proprio inizio – quanto più, dunque, tali letture sono risolutive ma, appunto per potere fornire soluzioni condivise e condivisibili, anche pronte ad aprirsi di nuovo al riflettere di altri autori – tanto più questi repertori di pensiero si sono accresciuti a tal punto da allontanarsi dalla percezione diretta del sentire direttamente – senza mediazioni – il mondo che ci ha fatto e ci fa da matrice: l’esperienza mondana che si fonda sulla vita e la morte. Il dolore è quanto di più prossimo – lo si è visto con il dottor Jekyll e Mister Hyde – con la vita e la morte.

Contrariamente al luogo comune sapienziale che imputa alle tecnologie della comunicazione digitale il pericolo di un abbandono progressivo della realtà tangibile dell’esperienza (che si dice: tangibile), è proprio l’accumulo di sapere che, mettendo a lavoro la macchina del pensiero, si allontana dal suo soggetto, dalla sua proprietà primaria. E, prendendone le distanze, si raffredda o si riscalda per qualcosa di affatto diverso dal “proprio” della propria natura. I passaggi del sapere diventano allora più rilevanti del primo passo da cui e per cui sono nati e si sono moltiplicati, dimenticando così le grandi domande sul mistero della vita e della morte, del dolore e della felicità, che ne erano il fondamento originario. I molti passi compiuti diventano tali da perdere di vista la traccia iniziale. Si dice tradurre “all’impronta” per dire orma e insieme improvvisazione. La traccia è qui cancellata o tanto abbandonata, derelitta, da essersi trasformata in un fossile. E a riaccendersi di solito non è più il fossile ma qualche polvere di durata assai minore.
Veniamo da tradizioni che alla natura dello stile affidano i modi in cui il soggetto orna il proprio discorso e, ornandolo, lo animano di sé, danno calore emotivo alla propria disciplina. Come accennerò più avanti – al momento più giusto – proprio ora (il tempo di un progressivo crollo delle etiche universali nel loro tutto e nelle loro parti) la disciplina, che significa accettare un controllo imposto dall’esterno, andrebbe scavalcata dalla interiorità dello stile. Oppure – per dire lo stesso concetto – la disciplina delle istituzioni dovrebbe fare luogo alla disciplina della persona, del sé. Lo stile dell’azzardo, della partita risolutiva, dell’unica cosa ultima e dunque prima da fare: si tratta di mostrare quanto, nel riflettere sul mondo, si è capaci di perseguire questa linea di condotta personale risolutamente e senza distrazioni? 
Credo di sì, credo che si debba riflettere sul mondo immediatamente, senza alcun filtro alfabetico e deviazione autoriale, autoritativa; senza che altre riflessioni vengano a frapporsi per contrastarci. Concepire dunque la riflessione non come lo strumento necessario ad arrivare all’oggetto ispiratore della propria riflessione ma semmai come lo strumento più necessario ad arrivare – tornare – all’oggetto da cui ripartire per potere riflettere su nient’altro che l’oggetto stesso. Sembra soltanto un gioco di parole, ma non è così. La riflessione sull’oggetto – un oggetto non letto ma vissuto, il dolore – non dovrebbe spingersi oltre l’oggetto stesso. Dovrebbe trattenersi in esso, non tentare vie di fuga.
Necessario come tutto ciò che non muta è il dolore. Per questa necessità, ormai da qualche tempo mi vedo spinto a enunciare i motivi per cui scrivo. A cercarli prima che, divagando, si impantanino nelle scritture di altri. Non perché non ritenga di rilievo le altrui scritture (e non perché debba tradire la tradizione per principio, perché nell’atto stesso di dovere argomentare il loro tradimento, cadrei nel ben noto tranello tradizione-tradimento e ne sarei quindi da subito sconfitto), ma perché i motivi per i quali penso o quantomeno desidererei pensare sono in tutto esclusivi (la necessità dell’inclusione semmai ne discende ma non la genera): essi mi nascono dall’idea che l’unico medium su cui basare una visione del mondo, e della società che vi si è generata, sia costituito dal dolore. Non possa che passare attraverso il dolore. E non nel senso di infelicità, che sarebbe cadere immediatamente in bocca alla principale o meglio sovrana fascinazione del moderno, il quale nel “nuovo” sempre si rinnova di se stesso, e in se stesso, come   speranza di liberazione dalla sofferenza generica dei regimi sociali e dei conflitti di potere che ne sarebbero la causa. Ma nel senso del dolore psicofisico della mia carne: quanto di meno “politico” esista in virtù del fatto che esso riguarda parimenti il mio “amico” e il mio “nemico”. Quanto di meno sociale vi sia per il fatto che esso riguarda la vittima e il carnefice, il giusto e l’ingiusto. E abita nei conflitti di potere del vivente al di là di ogni suo grado. È sensibile per ogni organismo capace di sentirlo. Infine avere ragione o torto sull’altro non salva dal dolore. La scelta di infliggerlo si rispecchia nella condizione di subirlo.
Questa è la mia prima nota, la mia prima approssimazione – di sicuro rozza e inadeguata al problema – che, invecchiando di testa e di memoria, ora più mi sta a cuore. E che per me – in apparente contraddizione con quanto ho appena detto – è il problema più politico che riesca a immaginare adesso: politica ora e qui nel senso di arti dell’abitare il mondo. Come potere riuscire – in ognuna di queste arti, di pace o di guerra che siano, democratiche o totalitarie – a tenere in conto il dolore della nostra carne al fine di avere almeno un margine di controllo sul dolore che in quanto soggetti sociali siamo obbligati a produrre sugli altri e su noi stessi: morte (imperialismo e religioni), fame (globalizzazione e disuguaglianza sociale), disastri (ambiente), malessere (malgoverno) e via dicendo. È da qui che per me va discussa la possibilità o meno di affrontare le cose del mondo – farle essere mente e azione per me, farne da testimone responsabile – senza sapere ciò che di esse prima è stato detto nei diversi campi disciplinari della cultura umana o in anche soltanto in uno di essi. Non serve più ripetersi, è necessario iniziare.

Si è spesso affermata ad esempio la distanza tra chi è filosofo e chi è storico della filosofia. Al primo viene rimarcata una originalità che mancherebbe al secondo. Al contempo si dà assai raramente il caso che qualcuno faccia il filosofo senza conoscere la storia della filosofia. A questa dimensione disciplinare come alle altre è dunque concesso ragionare solo aggiungendo un mattone o un ingranaggio alla barriera o alla macchina edificata e costruita da altri. E ci sono ragioni molto serie – proprietà di linguaggio e efficienza del discorso – per sostenere una simile posizione.  Tuttavia, di questa stretta interdipendenza tra l’essere filosofo e l’essere storico della filosofia, si tratta solo quando ci si rivolge a casi di comprovata qualità professionale – una scienza, una specifica tecnica del pensare, ben definita come ben definite sono le tecniche usate anche dalle professioni scientifiche propriamente dette. Ma di un “semplice” o di una personalità culturalmente appena più complessa – ma non operante e misconosciuta in base ai canoni della filosofia e dei suoi ruoli istituzionali – si dice soltanto che “fa il filosofo”.  Naturalmente sappiamo bene che qui, nel libero filosofeggiare, c’è una forma mentis di cui siamo debitori in virtù dello scorrere del tempo situato cui apparteniamo e del crescere della nostra personalità per mezzo di una serie di più o meno ordinate influenze esterne, e delle più o meno consapevoli rielaborazioni che ne facciamo. Tuttavia sappiamo che questa forma di pensiero esula dalla appartenenza al campo disciplinare della filosofia. È fuori della sua disciplina.

 

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Il nulla è assenza di esperienza e anche questa, quando sia esperienza ricordata, sempre lo è in sincronia con il momento stesso del pensare, con l’esserci che pensa ripensando qui e ora. Per questo si è potuto dire – e sempre più s’è detto nella curvatura finale del tempo moderno – che il presente ci stringe in un implacabile morsa tra futuro e passato e che dunque ci getta in quel qualcosa che emerge tra due nulla. Un nulla tuttavia gravido di ciò che esclude. E così – su altro registro, quello teologico – s’è azzardata e persino privilegiata una perfetta coincidenza tra il dio e il niente. Non è un caso che la teologia sia tornata esplicitamente nel pensiero politico. E questo in quella.
Sguarniti di competenza – quella competenza misurata su ciò che sappiamo restando ed anzi obbligandoci a restare dentro l’apparato disciplinare in cui siamo inscritti – ci troviamo sempre di nuovo per così dire sospesi, consapevolmente o inconsapevolmente indecisi, tra il tutto e il niente.  Ma quando affrontiamo uno specifico tema nel rispetto degli strumenti sapienziali della nostra disciplina, del sapere di cui siamo e veniamo ritenuti esperti, coniughiamo il niente attraverso il tutto o il tutto attraverso il niente? Facciamo i filosofi senza pensiero filosofico oppure pensiamo mancando l’oggetto del nostro pensiero? 
Credo comunque che ci voglia una bella fiducia nella storia e nella continuità della tradizione – su questo si fonda l’argomentazione disciplinare anche e forse soprattutto quando vada contro l’una e l’altra, contro la storia e le sue tradizioni – per riuscire ad affidarci ad esse al fine di capire il mondo presente che abitiamo. Quella presenza che ce lo fa intuire come unica possibile. Mi viene sempre più il sospetto che affidarci ad argomentazioni legate alle diverse credenze accumulate nel tempo disciplinare sia una forma di distrazione, evasione, alienazione, da ciò che pretendiamo scoprire in merito al presente. E mi pare che un presente così complesso come quello attuale aggravi il rischio di distrarsi da ciò che in realtà dovremmo cercare (definire, arrivando cioè alla sua fine – che è il luogo effettivo, non più tempo ma spazio, in cui esistiamo). Citazioni e bibliografie sono il dispositivo di tale distrazione dal necessario, se la necessità è appunto cogliere la qualità del presente. Il testo che ne risulta è popolato delle voci dei morti per quanto evocate al solo fine di fruttare qualcosa per i vivi e il vivente. L’immaginario cinetelevisivo sembra decretare il trionfo del cadavere sulla carne viva e la sconfitta di ogni iniziativa sociale e persino guerra a fronte dell’orrore.

Agendo in questo modo – bibliografico – finiamo per ammettere che l’osservazione della realtà a noi circostante sia muta, silente, e che solo percependola da altrove e da altri possa avere un significato. Finiamo per dimostrare che non ci sono fatti la cui evidenza vada prima – se non esclusivamente – cercata nello sguardo che rivolgiamo loro direttamente. Immediatamente. Non è, mi pare, il modo in cui si è andato sviluppando il dibattito tra fatti e interpretazione dei fatti. Dei fatti si è data una teoria realista in grado di orientare socialmente e quindi con i vari mezzi tradizionali del conflitto politico, mentre invece il dolore è una realtà che non orienta la politica quanto piuttosto cerca di suggerire una distanza da essa. Una sottrazione che, praticata, toglierebbe una parte di sostanza alle pratiche cui la nostra volontà di potenza ci costringe. La morale è che essa non può cadere nel tranello delle etiche e delle estetiche.
A questo punto e in conclusione c’è da sgombrare il campo delle idee che sono socialmente prevalse nel sapere istituzionale e nell’interpretazione dei singoli individui a riguardo del contrastato problema su come si debbano intendere i rapporti tra morale e etica. Il problema è andato aggravandosi per effetto della crescente complessità dei rapporti sociali e, al contempo, per il loro corrompersi a causa della stanchezza o esasperazione dei propri attori. Non a caso, dall’alto dei grandi ideali e grandi obiettivi dell’etica, il dibattito politico – nazional-popolare – è sempre più precipitato verso il basso di temi di costume individuale e pubblico, per denunciare la qualità morale di chi – al contrario – avrebbe il dovere di rappresentare la qualità etica degli apparati sottoposti al suo comando. Ma al contempo, sempre non a caso, le reti digitali sembrano annunciare non una nuova ricomposizione – saldatura – delle attuali fratture sociali, ma una piattaforma espressiva multitudinaria in cui si dà luogo all’incrocio tra la comunicazione “uno a molti” dei media frontali della tradizione industriale (culture della produzione) e comunicazione – uno ad uno, tanti a tanti, tanti a uno – del web (culture dei consumi). Solitamente questo rapporto tra morale e etica viene inteso relegando la morale nella sfera personale e affidando invece all’etica il conseguimento di fini che siano “buoni” per la collettività. Ciò che è proprietà interiore del singolo entra così in dialettica con il ruolo che svolge e gli viene fatto svolgere negli apparati e nelle organizzazioni sociali.
Ma la morale distinta e separata dall’etica è quello che in concreto risulta essere la volontà personale di ciascuno, volontà situata e operante, messa all’opera di se stessa, messa al lavoro da se stessa: è il “buon fine” che conta sul mezzo necessario a potersi realizzare, sullo strumento più idoneo a soddisfare il proprio bisogno di affermazione. E qui si misura tutta l’ambiguità e ambivalenza tra bisogno e desiderio. Il grande tema che, scenograficamente, fa stridere tra loro l’autentico e l’inautentico, il dono e la merce, la disperazione della necessità e la violenza della volontà di potenza. 
La morale si specchierebbe dunque nell’etica e questa conterebbe sull’altra, appunto la morale, se non fosse che la violenza del mondo vivente, e in esso dei rapporti umani, comunque sempre basati su relazioni personali dirette o collettivamente mediate, infrange lo specchio di questo riflettersi reciproco, armonico o disarmonico che sia. Così, alla caduta (corruzione, cattivo governo, cattivi fini e guerre) dei vincoli etici necessari al funzionamento delle istituzioni che se ne dovrebbero fare garanti (stato, governi, partiti, amministrazioni e imprese, religioni, lavoro, famiglia e altre agenzie di socializzazione), corrisponde il fatto che la persona è afflitta dal desiderio di sopravvivenza in misura almeno uguale se non superiore ai propri sistemi sociali di appartenenza. Dunque anche scelte morali e etiche ritenute virtuose dalla collettività non bastano assolutamente a impedire che ogni tattica e strategia della vita quotidiana – con le sue più emblematiche figure: il padre, il sacerdote, il sovrano, la sovranità, lo stato, il capitalismo, il potere finanziario – sia costruita per mezzo della produzione e consumo del dolore vivo della carne. Ed è quindi in una singola persona che il dolore può farsi coscienza del sé e dell’altro. Solo questa singolare coscienza è in grado di fornire un intervallo, una camera di decompressione, tra la morale di un individuo è la violenza del mondo.
Se in ultimo vi venisse il sospetto che sia andato fuori tema rispetto a una rivista dedicata alle figure dell’immaginario, è bene ricordare che esse si collocano sulla linea liminale tra rito e società e che il mio discorso sull’immediato, sul sempre dell’ora e qui, potrebbe ricominciare a partire dalla natura rituale di tali figure. Dal fatto di essere il medium che dà senso – facendo da specchio, da rispecchiamento simbolico – alla natura umana. Medium come contenuto di una infinita dolorosa trasformazione. Di cui, prima di ogni eroe tardo-moderno e post-moderno della nostra immaginazione, fa da annuncio quel Prometeo al quale un’aquila o se volete un angelo sterminatore rode in perpetuo il fegato. La sua inesauribile carne-mondo.

 

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