LETTURE / IL TEMPO SENZA ETÀ. LA VECCHIAIA NON ESISTE


di Marc Augé / Raffaello Cortina, Milano, 2014 / pp. 104 / € 11,00


 

Slittamenti inesorabili del


di Adolfo Fattori

 

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Improvvisamente, capita di ritrovarsi anziani. Non si tiene certo una contabilità consapevole dei giorni, delle settimane e dei mesi che passano. Giusto gli anni, perché si ha l’abitudine di ricordare i compleanni e gli altri anniversari (i matrimoni, le morti, le nascite degli altri, la scansione del passaggio fra vacanze e lavoro, a volte…), e periodicamente si è costretti a rinnovare – nelle società moderne – i propri documenti di identità, quelli che stabiliscono chi siamo, che in qualche misura ci fanno esistere. Ma per il resto, si attraversano i giorni senza pensarci, senza consapevolezza, senza esperienza del tempo che passa.

Fin quando, come è successo a Marc Augé – che così ha trovato l’occasione per focalizzare e mettere per iscritto le idee raccolte in Il tempo senza età – un giovanotto non si alza, in metropolitana o in autobus (sicuramente non in treno, diciamolo) per cederci il posto, sconcertandoci e magari irritandoci. Noi, che per educazione e abitudine siamo consueti a cederlo agli altri. E così la nostra età si manifesta come un fantasma, ci aggredisce, straniandoci e mettendo in scacco, fuor di sesto, il tempo. Magari precipitandoci di colpo in uno degli incubi spazio-temporali concepiti dalla science fiction.

Perché “tempo” ed “età” non sono la stessa cosa, non sono sovrapponibili, non scorrono in parallelo. Così, almeno, sostiene lo studioso francese, ricorrendo alla sua esperienza di etnologo – e di essere umano – per esplorare la differenza fra i due concetti e argomentare sulla difficoltà di percepire gli effetti del trascorrere del tempo su di noi.

Come succede ad Hector Bianciotti, che a circa sessant’anni, riesumando un vecchio passaporto di cui non ricordava più neanche l’esistenza, si ritrova davanti alla sua foto. O meglio, alla foto di un lui molto più giovane (magari di quando usò quel passaporto per emigrare in Francia, dove poi si sarebbe fermato per sempre…), in cui non si riconosce più. Uno specchio deformante in cui, osservandosi, nota che “… la mia foto mi colpisce, la contemplo incredulo, come la vittima di un incantesimo: come avrei amato essere questo sconosciuto che mi ignora, sicuro delle sue possibilità, isolato, misteriosamente compatto. Me ne invaghisco, e mi pervade la vergogna di non essere all’altezza del sogno che fece di me. Ha lo sguardo fiducioso delle statue, e nessun dialogo è possibile fra noi. Forse egli non conobbe il suo viso più di quanto io non mi ci riconosca. E più lo esamino, più si allontana, e più divento straniero per lui” (Bianciotti, 1993).

Come avrei voluto essere, riflette lo scrittore. Perché non è lui che si osserva dalla foto. O meglio, è il Bianciotti anziano a non essere il giovane che lo guarda: non è più il progetto di vita che è stato ai tempi di quella fototessera. È una identità alternativa, un’altra declinazione di colui che avrebbe voluto – o potuto – essere (ancora la science fiction…), e che, evidentemente, non è riuscito a diventare: la vita lo ha condotto altrove.

Ma nonostante questo, avrebbe potuto riconoscersi in lui, se il nostro tempo, quello che trascorriamo man mano che avanza l’età, fosse rimasto interamente scandito e conservato nella nostra memoria, senza salti, senza vuoti, senza soluzioni di continuità. Cosa che non avviene, che è naturale che non avvenga: identità e memoria sono, è vero, le due facce della stessa medaglia, ma la memoria è fatta di ricordi e oblio, e tutti e due sono necessari.

Scegliamo inconsapevolmente cosa ritenere – e cosa rimuovere, a differenza del “mnemonista” di cui scriveva Aleksandr Lurija nel 1965 – o di Carrie Wells (Poppy Montgomery), la protagonista della serie tv Unforgettable (2014) – tutti e due condannati a ricordare ogni singolo momento della propria vita, senza discernere, senza ordinare, senza poter regalare all’oscurità dell’oblio gli eventi negativi, sgradevoli, inaccettabili. Sentendo il peso del tempo trascorso gravare sempre più sulle proprie spalle, schiacciandoli contro il futuro che li aspetta, in una visione rovesciata, rivolta al passato, non prospettica, come è stato per gli umani della modernità, ma in cui, necessariamente, tutti gli eventi del passato galleggiano sullo stesso piano, privi di prospettiva – e quindi di peso specifico.

L’utilità della memoria, nel suo modo “normale” di funzionare, come combinazione di ricordo e oblio, sta proprio nel permetterci di costruirci un “racconto del Sé” con una sua altimetria specifica, fatta di crinali, di vallate, di picchi, di pianure, di depressioni e alture, che danno il senso del movimento delle cose e degli avvenimenti – e quindi della costruzione della nostra vita.

D’altra parte, questo stesso meccanismo – come sottolinea Marc Augé – è quello che ci mette di fronte, periodicamente, alla distanza che ci separa dal nostro passato, dalle nostre età precedenti; ed è qui che si misura la differenza fra tempo ed età, secondo l’etnologo: il tempo scorre, l’età si fa (il termine che in francese è al posto dell’italiano “raggiungere”: noi raggiungiamo una certa età, i francesi la fanno). Di fronte ad un qualsiasi avvenimento (una foto ritrovata, una persona che ci cede il posto, l’incontro con un vecchio amico che non vediamo da anni) rischiamo di affacciarci ad un abisso: il baratro che separa l’età attuale da una precedente, da un tempo passato: l’«oscuro abisso del tempo» di cui parlava il naturalista Georges-Louis Buffon – lui riferendosi alle ere della Terra, noi più banalmente alle nostre vite. Al nostro . Come d’altra parte recita il titolo originale del saggio di Augé: Une ethnologie du soi.

Al centro del discorso degli studiosi moderni c’è dunque sempre il Sé, l’identità, le riflessioni sul suo farsi e trasformarsi, e le dinamiche della memoria, della narrazione di se stessi. Così anche il francese, come altri prima di lui, riflette su uno degli strumenti di coltivazione della memoria: l’autobiografia, quella forma di scrittura che ci permette di conservarci, di raccontarci a noi stessi e agli altri. Difficilmente per vanità o narcisismo, sostiene Augé, quanto per “… una volontà di «incastonarsi nel tempo» grazie a qualche testimonianza incontrovertibile”. Tagliando e aggiungendo, come pare sia involontariamente necessario, quando si esercita la memoria per ricostruire la propria vita passata. Mentendo, insomma, prima di tutto a se stessi (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 32). Qualsiasi autobiografia ha questa cifra. In realtà, scrive l’intellettuale messicano Federico Campbell di cui scrive Gianfranco Pecchinenda, non esisteremmo senza memoria, e poiché non ricorderemmo senza falsificare – sottrarre, aggiungere, rielaborare – i nostri ricordi, allora rischieremmo di sparire anche noi. Ma abbiamo bisogno di ricordare, per dare senso e significato alla nostra esistenza (cfr. anche Fattori, 2011).

Le autobiografie, come tutte le narrazioni, si scrivono, come i romanzi, certo, ma come anche i saggi. E, inversamente, tutto ciò che scriviamo ha qualcosa di autobiografico (cfr. Pecchinenda, 2014), riflette i nostri desideri, i nostri incubi, la nostra storia – la nostra identità – riflette Augé, in linea con tutti coloro che hanno ragionato sul tema, e così facendo ci consegniamo al lettore, che a sua volta leggerà un suo libro, interpretando, distorcendo, aggiungendo e sottraendo, tradendo e reinterpretando la nostra scrittura.

“Si può arrivare a dire che l’autore stesso non si apparterrà più”, scrive Augé, nell’illusione di “ignorare l’età e lasciar fare al tempo. Scrivere è un po’ morire, ma un po’ meno soli” (corsivo nostro), ribadendo quello che faceva dire qualche anno fa il romanziere spagnolo Enrique Vila-Matas al suo Dottor Pasavento, uno scrittore il cui imperativo è diventato, seguendo l’esempio dello svizzero Robert Walser, sparire: “… scrivere è uno spossessarsi senza fine, un morire inesorabile” (Vila-Matas, 2008).

Il punto è lì, in quel “morire”. Perché, a differenza degli umani delle società arcaiche – di cui sempre Marc Augé fa qualche esempio, lungo il suo libro – che non percepivano una reale distinzione fra i vari membri della propria comunità, e fra la vita e morte, per noi umani moderni quest’ultima è sempre da qualche parte nei nostri pensieri, magari sopita, trascurata, elusa, ma c’è. E l’avanzare nell’età ci porta inevitabilmente verso questo traguardo, da cui noi abitanti degli ultimi secoli sentiamo di non essere protetti da nessuna rete, da nessuno schermo.

Con buona pace di coloro, argomenta Augé, che – specie in anni come questi, in cui lo statuto di “giovane” pare essere un valore assoluto – cercano di mantenersi “in forma” con diete, esercizi, creme, alla ricerca di riconoscimenti di uno status di salute e prestanza che nasconda l’età che abbiamo: gli anni anagrafici rimangono, irriducibili e inoppugnabili. “Il tempo accelera con l’età”, scrive sempre Campbell (cit.), mentre abbiamo la sensazione che intorno a noi le cose cambino, magari troppo in fretta. Mentre, scrive Augé, probabilmente è perché siamo cambiati noi, ed è cambiata la nostra percezione delle cose. Come quando ci capita di tornare in un luogo da cui manchiamo da quando eravamo bambini, e tutto ci sembra rimpicciolito dal tempo (mentre siamo noi ad essere cresciuti, ad essere avanzati con l’età; cfr. Halbwachs, 1997).

Comunque sia, “A volte abbiamo la sensazione che l’età venga da un altro luogo, che ci sia estranea, che le cose siano cambiate senza domandare la nostra opinione e che ciò sia la ragione per cui non le riconosciamo” (corsivo nostro), scrive sempre l’etnologo. E forse involontariamente cita Robert Musil, che, descrivendo le sensazioni del protagonista del suo capolavoro, L’uomo senza qualità, scrive che “Così i tempi erano cambiati […] e non avevano avuto la cortesia di aspettare Ulrich” (Musil, 1962).

Il romanzo di Musil è una delle opere fondamentali prodotte nel Novecento a proposito del rapporto fra individuo e società e della definizione dell’identità contemporanea, che, anche se non mette esplicitamente in primo piano il tema della morte, comunque lo presuppone, lo ha sullo sfondo, nel suo far vagheggiare ai protagonisti la possibilità di ritirarsi fuori del mondo, in un luogo ideale, esclusivo, un metaforico “regno millenario”. E ci riconduce a chiederci come procederanno i nostri anni, le nostre azioni, i nostri pensieri, sentimenti, emozioni.

Viviamo uno scarto, quello fra l’età che sentiamo e il tempo che sappiamo avere alle spalle, e di ambedue le cose non abbiamo veramente esperienza, ma solo una conoscenza che viene dai dati oggettivi, ma che di fatto sembra esserci trasmessa da qualcun altro, un “Io” contabile, un cancelliere del tempo che tiene il computo dei nostri giorni. È per questo che rimaniamo straniati quando veniamo messi di fronte alla nostra età, da chi ci cede il posto a sedere, o da chi, pur con tutte le buone intenzioni, venendo a conoscenza di questa, ci dice che non la dimostriamo, sottolineando semplicemente uno scarto, un’anomalia, alla fin fine, una discrepanza nel tessuto delle cose, della Storia, della realtà.

È in questo, forse, che “la vecchiaia non esiste”, come recita il sottotitolo aggiunto nell’edizione italiana del libro: nel non farci accorgere che arriva, ci avvolge, ci cattura, ci costringe ad accettarne la presenza.

Sono i momenti in cui diamo il via a una partita interiore fra memoria, identità, biografia, storia: età individuale e tempo sociale. E – soprattutto – fra età percepita e anagrafica. E rivediamo come in un film, alternativo rispetto a quello della nostra vicenda realmente vissuta, fatto di scene e sequenze scartate, tutto ciò che avremmo voluto o potuto fare, ma che è rimasto solo allo stato di possibilità inesaudita.

 


 

LETTURE

  Hector Bianciotti, Ciò che la notte racconta al giorno, Feltrinelli, Milano, 1993.
Federico Campbell, Padre e memoria, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2011.
Adolfo Fattori, La realtà è letteraria. Di cose che si trovano nei sogni, nei ricordi, nei romanzi, in Belphégor, agosto 2011, http://dalspace.library.dal.ca.
Maurice Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli, 1997.
Aleksandr Lurija, Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Armando, Roma, 2004.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1962.
Gianfranco Pecchinenda, Il sistema mimetico, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
Enrique Vila-Matas, Dottor Pasavento, Feltrinelli, Milano, 2008.

 


 

VISIONI

  Ed Redlich, John Bellucci, Unforgettable, Universal Pictures, 2014 (home video).