VISIONI / HOLLYWOOD PARTY
di Blake Edwards / 20th Century Fox Home Entertainment, 2014
Dall'India con umore
di Andrea Sanseverino
L’idea di un film che inizia con il sabotaggio involontario di una costosa pellicola in costume ad opera della più maldestra delle comparse l’avevamo già gustata con Totò in Siamo uomini o caporali?, ma se il dimesso omino del film di Camillo Mastrocinque passa dai set di Cinecittà alle attenzioni di un comprensivo medico di una clinica psichiatrica, decisamente miglior sorte tocca a Hrundi V. Bakshi, protagonista di Hollywood Party: sebbene il produttore abbia perduto la scena più spettacolare per colpa del generico indiano e per tale motivo sia stato sollecitato a cacciarlo per sempre dagli studios, finisce, per errore s’intende, per invitarlo a un suo esclusivo party.
E che la festa cominci! Una vera e propria festa del cinema dato che Hollywood Party ripropone il brillante binomio Peter Sellers-Blake Edwards, già collaudato ai tempi delle avventure dell'ispettore Jacques Clouseau, in La pantera rosa e Uno sparo nel buio, anche se in realtà si dovrebbe parlare di un trinomio dal momento che nelle tre opere ritroviamo l’accompagnamento delle musiche di Henry Mancini.
Il punto di forza del film è comunque Sellers, uomo dall’animo inquieto (anche Totò e molti altri geni della comicità lo furono), ma attore dalle straordinarie doti camaleontiche. Esse furono l’essenza della sua recitazione, consacrate sotto la direzione di Stanley Kubrick, per il quale diede vita a ben tre memorabili personaggi ne Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba vale a dire il colonnello Lionel Mandrake, il presidente Merkin Muffley e il dottor Stranamore, sebbene a lui doveva esserne affidato un altro, quello del pilota texano maggiore T. J. "King" Kong, assegnato in extremis a un vero cowboy, Slim Pickens. Non che il regista statunitense non abbia provato, anche se con scarso esito, a insistere affinché l’attore inglese facesse un ulteriore sforzo per il quarto ruolo, tirando in ballo un paragone assai lusinghiero per lo stesso Sellers, ovvero quello con Alec Guinness, capace di calarsi nei panni di ben otto personaggi in Sangue blu (cfr. Baxter, 1999), pellicola che, tra l’altro, gli addetti ai lavori asseriscono che fu d’ispirazione per la realizzazione di Totò diabolicus, in cui Totò si destreggia nella parte dei cinque fratelli di Torrealta, ossia il nobile debosciato, l’eccentrica baronessa, il chirurgo geloso, il pio monsignore, l’ex generale fascista, oltre al fratellastro irrequieto galeotto.
Quanto a Hollywood Party, un critico non troppo tenero nel suo giudizio complessivo sul film, lodò comunque l’attore inglese cogliendo nel segno affermando che “Peter Sellers dona a questo personaggio tutta la sua inesauribile verve mimica e costruisce una vera e propria antologia dell’imbarazzo, della timidezza e della goffaggine” (Garbarino, 1969).
Per quel che riguarda le origini indiane del protagonista, esse non fanno che testimoniare ulteriormente l’interesse dei connazionali di Sellers negli anni Sessanta per un subcontinente che l’Impero britannico aveva già iniziato a sfruttare attraverso la Compagnia delle Indie dagli inizi dei Seicento. Il dominio diretto da parte della Corona avvenne più tardi, nel 1858, quando la Compagnia perse le sue funzioni amministrative a seguito dei moti indiani del 1857, e durò fino alla proclamazione dell’indipendenza, il 15 agosto del 1947 (cfr. Torri, 2000), al cui scoccare della mezzanotte sarebbero nati, secondo la fantasia di Salman Rushdie, quel migliaio di bambini delle sovraumane capacità e con essi Salem Sinai, il personaggio narratore del suo romanzo I figli della mezzanotte. Da quella notte seguirono vent’anni non proprio sereni per l’India, caratterizzati dall’eterno conflitto con il Pakistan sulla questione mai risolta del Kashmir, l’assassinio di Gandhi, la guerra con la Cina e la presa del potere da parte di Indira Gandhi, della quale lo stesso Rushdie non compone un benevolo ritratto nel suo capolavoro del realismo magico. Si giunge così alla seconda metà degli anni Sessanta, quando l’India è di nuovo oggetto d’attenzione, ma con occhi diversi, da parte degli inglesi, a partire da coloro che, a quel tempo, potevano ritenersi i più popolari sudditi di sua maestà, ovvero i Beatles. Proprio nell’anno in cui Hollywood Party usciva nelle sale, ossia il 1968, il quartetto di Liverpool (e un’altra star dell’epoca, Donovan) compì un viaggio in India, raggiungendo l’Ashram di uno fra i più noti guru del tempo, Maharishi Mahesh Yogi, il quale “da alcuni anni […] girava il mondo con quello che lui stesso aveva definito «il messaggio dei fiori», diffondendo fra gli insoddisfatti figli del capitalismo borghese la dolce scienza della meditazione trascendentale” (Lapham, 2007).
Attraverso la crescente popolarità della tecnica da lui elaborata al fine di ottenere, attraverso la ripetizione di un mantra, un rilassamento capace di aumentare le potenzialità dell’individuo, il guru ebbe tanti estimatori in Occidente tra le persone famose, da Mick Jagger a Mia Farrow, ma furono comunque i Beatles le personalità più influenti. Il più coinvolto nel viaggio su George Harrison, che in realtà aveva già visitato il paese qualche anno prima, nel settembre del 1966 e, del resto, l’immagine di Hrundi V. Bakshi che imbraccia un sitar mentre scorrono i titoli di testa non può che rimandare all’interesse di Harrison per uno strumento che entra a far pare delle sonorità dei Fab Four già nel 1965, nell’album Rubber Soul, con Norwegian Wood (This Bird Has Flown) e riproposto, in maniera più incisiva, in Within You Without You contenuto nel Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. D’altra parte la pellicola compromessa all’inizio di Hollywood Party dal protagonista è ispirata alle vicende belliche coloniali, in cui il personaggio di Sellers è una sorta di Gunga Din kiplingiano, reso celebre dall’omonimo film di George Stevens.
Tornando al film, ritroviamo nella pellicola di Edwards molti elementi della slapstick comedy statunitense e non pochi sono gli omaggi, più o meno espliciti, ai capolavori di quel genere cinematografico. Basti pensare alla scena in cui Hrundi V. Bakshi maneggia con esiti catastrofici il quadro dei comandi che governano elettronicamente la meravigliosa villa che ospita il party, compromettendo l’incolumità degli invitati: la sequenza rimanda a La casa elettrica, il cortometraggio che Buster Keaton co-dirige con Cline Eddie, nel quale l’uomo che non ride mai, nelle vesti di un botanico fresco di titolo accademico, è, anche lui per errore, confuso per un ingegnere esperto di cose elettriche e in quanto tale ingaggiato da un ricco signore per la ristrutturazione della propria abitazione al fine di modernizzarla attraverso innovazioni legate a un uso smodato dell’elettricità e che si rivolteranno contro i protagonisti. Le origini della stessa slapstick comedy, tra l’altro, vanno rintracciate nel cinema muto francese, che annovera fra le realizzazioni più comiche L’innaffiatore innaffiato dei fratelli Auguste e Louis Lumière, la prima opera del proficuo rapporto fra gag e acqua: la bella residenza del produttore, con tanto di piscina, fontane, giochi d’acqua, aggeggi vari per la manutenzione dei giardini fino a raffinate toilette, è un fin troppo allettante invito per l’impacciato Hrundi V. Bakshi per alimentare tale fervido rapporto.
Al di là della situazione comica, un’altra lettura della vicenda stessa tende, tuttavia, a sottolineare la carica distruttiva del mite indostano, comune, in verità, a molti personaggi di Edwards, Clouseau in primis, ma qui finalizzata alla rivincita da parte dell’ultimo degli ultimi, per giunta straniero, in un sistema quasi castuale come quello delle majors hollywoodiane, emblemi a loro modo di una forma di potere assoluto (cfr. Tagliabue, 1997) al cui vertice c’è il produttore, che nella versione italiana ha la voce di Luigi Pavese, una delle abituali vittime di Totò e per questo, nell’immaginario collettivo cinefilo di casa nostra, già destinato al martirio. Sotto questo punto di vista Hrundi V. Bakshi assurge a involontario paladino con cui il sistema deve fare i conti come più tardi toccherà, in maniera più precisa e tagliente, a un’altra trasformazione di Sellers, ossia quel Chance Giardiniere che giungerà a confrontarsi con il Presidente degli Stati Uniti in Oltre il giardino. Con le sue semplici parole riferite alla cura delle piante, confuse con metafore di grande spessore, Chance è, a sua volta, una pietra miliare di un percorso che giunge alla storia raccontata in Forrest Gump, quella dell’individuo il cui “fascino […] è proprio [l’] apparente ma diretta partecipazione «da protagonista» a tutti i fatti più importanti della vita contemporanea, che vengono però spogliati di significato collettivamente attribuito loro [,] quando addirittura non vengono totalmente ignorati” (Cavicchia Scalamonti, 1997), nonostante a lui s’aggrappino persone più dotate di tutto fuorché di serenità, e di una corsa eccezionale.
La pellicola di Edwards s’inserisce, a suo modo, nel fortunato filone, che annovera registi del calibro di Billy Wilder e Robert Altman, di opere di Hollywood che parla di Hollywood, colta nell’aspetto mondano, lontano dai set. Il pubblico statunitense inizia ad apprezzarlo in un anno particolare della propria storia, ricordando che sempre nel 1968 (il 6 giugno), sempre a Los Angeles (all’Ambassador Hotel) e sempre a un party (per festeggiare la vittoria per le primarie in California) è assassinato Robert Kennedy: un omicidio che segue di circa due mesi quello avvenuto dall’altra parte del paese, a Memphis, cioè quello di Martin Luther King. L’assassinio di queste personalità, scomode per gli interessi dei reazionari, consegnerà l’America nelle mani di Richard Nixon, che Hrundi V. Bakshi, nella versione italiana di Hollywood Party, distribuita dopo le elezioni presidenziali del 1969, punisce con un seppur timido sberleffo.
ASCOLTI
— The Beatles, Rubber Soul, Emi, 2009.
— The Beatles, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, Emi, 2009.
— Henry Mancini, The Party, Reel Time, 2012.
— Henry Mancini, Greatest Hits, Rca, 2000.
LETTURE
— John Baxter, Stanley Kubrick. La biografia, Lindau, Torino, 1999.
— Antonio Cavicchia Scalamonti, Il trionfo della lotofagia. Il mito della memoria da Ulisse a Forrest Gump, in Antonio Cavicchia Scalamonti, Gianfranco Pecchinenda, La memoria consumata, Ipermedium, Napoli, 1997.
— Alessandro Garbarino, La Rivista del cinematografo, n. 2, febbraio, 1969.
— Lewis Lapham, I Beatles in India. Altri dieci giorni che cambiarono il mondo, Assolo, Roma, 2007.
— Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, Mondadori, Milano, 2003.
— Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Laterza, Bari, 2000.
— Carlo Tagliabue, Hollywood Party, in Marco Massara, Giancarlo Zappoli (a cura di), Una pantera da Tiffany. Il cinema di Blake Edwards, Il Castoro, Milano, 1997.
VISIONI
— Hal Ashby, Oltre il giardino, Warner Home Video, 2009.
— Blake Edwards, La pantera rosa, 20th Century Fox Home Entertainment, 2011.
— Blake Edwards, Uno sparo nel buio, 20th Century Fox Home Entertainment, 2011.
— Robert Hamer, Sangue blu, DNA, 2010.
— Buster Keaton, Eddie Cline, La casa elettrica, in Buster Keaton, Faccia di pietra. Le grandi comiche di Buster Keaton, Cecchi Gori Home Video, 2014.
— Stanley Kubrick, Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Universal Pictures, 2013.
— Auguste Lumière, Louis Lumière, L’innaffiatore innaffiato, in Auguste Lumière, Louis Lumière, The Lumière Brothers’ First Films, Kino on Video, 1999.
— Camillo Mastrocinque, Siamo uomini o caporali?, Cecchi Gori Home Video, 2007.
— Steno (Stefano Vanzina), Totò diabolicus, Medusa Video, 2007.
— George Stevens, Gunga Din, Terminal Video, 2011.
— Robert Zemeckis, Forrest Gump, Universal Pictures, 2011.