Ogni volta che si cerca di dare una definizione di improvvisazione in musica ci si avventura in un terreno scivoloso. Ogni definizione rischia di essere banale, o di tracciare confini angusti ad un'espressione artistica che, nelle premesse, dovrebbe essere il più libera possibile. Abbiamo provato ad affrontare il tema con Massimo Falascone, sassofonista, compositore di musica elettroacustica, sperimentatore in vari ambiti e improvvisatore di lungo corso particolarmente a suo agio in un'area a distanza di sicurezza dal mainstream (www.massimofalascone.com). E lo abbiamo fatto in concomitanza con l'uscita del suo ultimo disco, Variazioni Mumacs, un collage di improvvisazioni ispirate dalle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach e dalla visione di Trentadue Piccoli Film Su Glenn Gould, il lungometraggio di François Girard.
Qual è il tuo concetto di improvvisazione
e come hai iniziato ad improvvisare musica?
Dovremmo
spendere molte parole sull'improvvisazione. L'idea che io ne ho nasce
dall'esperienza di ascolto, pratica, passioni ed interessi che mi hanno
portato in varie direzioni. Tra le prime è stata il jazz.
Premetto che per me il modo interessante che mi coinvolge nella musica
di improvvisazione è qualcosa di più rispetto a
quello che normalmente si intende oggi con l'improvvisare in un ambito
mainstream jazzistico tradizionale.
Nella tua biografia però ho letto che ti
sei innamorato del jazz leggendone la storia scritta da Arrigo Polillo,
quindi hai attraversato anche tu l'area mainstream...
Mi
sono innamorato del jazz come accade a tutti i ragazzi, passando prima
dalla musica leggera, dal pop meglio. In quegli anni il pop comprendeva
nomi come gli ultimi Beatles, i musicisti di Woodstock, Jimi Hendrix,
il country blues, in queste musiche c'è improvvisazione.
Quando ho cominciato a conoscere il jazz poi le cose sono andate
avanti, un po' per la mia attitudine ad approfondire al massimo le cose
di cui mi appassiono. Ho scoperto il jazz non prestissimo, avevo
diciotto anni compiuti, e la sua scoperta mi ha portato all'approccio
con gli strumenti che ora suono, i sassofoni. Come tutti i ragazzi
avevo iniziato con la chitarra, che ogni tanto suono ancora per
diletto. Quando i miei interessi sono andati nella direzione di suonare
veramente mi sono accorto che l'idea della chitarra non era la
migliore. Non approfondivo solo il jazz, ma anche altre musiche, come
la contemporanea colta, e tutto ciò che aveva un legame
stretto con il cinema, molte scoperte musicali che ho fatto sono
avvenute attraverso il cinema.
Quali sono stati i film che ti hanno cambiato la
vita?
In quegli anni sicuramente Stanley
Kubrick, da 2001 Odissea nello Spazio, a Arancia
Meccanica e Shining. Da 2001
Odissea nello Spazio ho scoperto György Ligeti, e da
lì si sono aperti nuovi scenari. Quando mi sono appassionato
al jazz ho deciso che avrei dovuto suonare veramente, ho comprato il
mio primo sassofono, un sax contralto e da lì le cose sono
andate avanti. Nasco e resto fondamentalmente autodidatta, non ho mai
fatto nulla di accademico o istituzionale. Sono arrivato sempre un po'
borderline. Da direzioni strane.
Sulla base della tua esperienza è
possibile conciliare gli studi istituzionali proposti dai conservatori
o dalle scuole di musica con la ricerca di nuove vie attraverso
l'improvvisazione?
È un po' difficile
rispondere, se fossi una delle persone che giudicano la propria
esperienza come l'unica possibile direi di no, che all'accademia
bisogna arrivare da altre parti. Però secondo me non
è vero neanche questo. Forse, chi può dire se il
destino mi avesse portato a fare degli studi regolari, magari sarei
arrivato al punto di adesso con meno difficoltà o forse
sarei andato verso altre direzioni. Le situazioni sono determinate da
varie circostanze, dal caso... il caso è un altro elemento
fondamentale in tutto questo. So di musicisti che hanno fatto studi
classici regolari che dopo aver preso il diploma hanno smesso di
suonare per un po', perché trovavano un forte contrasto tra
la loro testa e quello cui l'accademia li costringeva per poi
riprendere in altro modo. Dal punto di vista della tecnica strumentale
sicuramente l'accademia aiuta ma per il concetto che ho io di
improvvisazione non è detto che questo sia un vantaggio. La
tecnica non deve essere mai al primo posto, è un valore
aggiunto, però spesso compiacersi della propria tecnica
strumentale può comportare dei rischi, può
confondere un po' la strada.
Sin dalla prima volta che ti ho sentito suonare mi
hai colpito moltissimo, quando inizi un assolo non so mai dove andrai a
finire, hai un suono molto personale e non individuo, nelle tue
improvvisazioni, pattern riconoscibili. Come sei arrivato ad affinare
questo stile?
Prima ho detto che ho cominciato un
po' tardi a suonare rispetto alla media degli altri musicisti, forse
questo non è stato uno svantaggio. Quando ho cominciato il
mio lavoro di scavo nell'ascolto del jazz non ci ho messo molto ad
arrivare dove desideravo. Alla fine degli anni Settanta primi anni
Ottanta anche a Milano, dove tuttora vivo, c'era la
possibilità di ascoltare molta musica, dall'Art Ensemble of
Chicago ad Anthony Braxton, Sun Ra, Ornette Coleman: c'era molta musica
improvvisata. Ricordo nel ‘77 di aver ascoltato il mio primo
concerto di musica improvvisata radicale, era il quartetto di Alexander
Von Schlippenbach, con Evan Parker, Peter Kovald, Paul Lovens. Oggi
ascoltare dal vivo quel tipo di musica per un ragazzo sui vent'anni
è quasi impossibile.
C'era un clima diverso quindi in quegli anni a
Milano, anche politico, che ti ha portato a intraprendere questo
percorso?
Sicuramente si, erano anni in cui questo
tipo di musica aveva a torto o a ragione un connotato sociale e
politico piuttosto definito quindi rientrava spesso nella
programmazione di festival rassegne. Gli organizzatori non sempre erano
attenti a partecipazioni esclusivamente musicali, ma non ha importanza,
è stata un'opportunità per chi ha vissuto quegli
anni di poter incontrare tanta musica che già nella seconda
metà degli anni Ottanta si era persa. Ho iniziato a studiare
sui dischi, a ripetere le cose, cercando di imitare i miei idoli del
periodo, non ricordo chi lo dicesse ma sono convinto che la cosa
importante sia rubare, non copiare. Anch'io ho
rubato la mia dose di tecnica strumentale e di idee da questi
musicisti. Ci sono tante cose che poi si sono mescolate assieme, se
rimanevo folgorato da un gruppo come potrebbero essere gli Art Ensemble
of Chicago, allo stesso tempo a casa divoravo i dischi di Charles
Mingus con Eric Dolphy, non sono cose incompatibili tra loro.
Hai parlato del caso poco fa, elemento importante non
solo nella tua musica ma nella tua vita, puoi dirci qualcosa di
più a riguardo?
Per tornare ai
riferimenti cinematografici pensiamo alla filmografia di Luis
Buñuel, alla sua idea del caso, di come le circostanze
casuali apparentemente prive di significato in realtà ti
possono portare, senza che tu abbia previsto nulla, in una direzione
piuttosto che in un'altra, e da lì scatenare una serie di
eventi, connessioni e collegamenti che non avresti mai previsto.
Programmando le cose non si arriva mai o quasi mai di fronte a
sorprese. Quando parlo del caso non lo intendo in senso cageano,
musicale, a John Cage l'improvvisazione non interessava più
di tanto. Sono convinto che uno come Cage sapesse certe cose. Se posso
dire una cosa ho sempre cercato di evitare di chiudermi musicalmente
nel mio recinto. Il jazzista che ascolta solo jazz, il classico che
ascolta solo classica, ecc., e non hanno curiosità verso
altri tipi di musica, ecco, ho sempre cercato di evitare di sentirmi
così. Nella mia discoteca c'è tutto, non ascolto
sempre tutto ma mi interessa tutto, anche se è impossibile
ascoltare tutta la musica del mondo cerco spunti e idee che possono
venire da qualunque luogo.
Veniamo al tuo ultimo disco, le Variazioni
Mumacs, un insieme di suggestioni che arrivano da varie
direzioni, come nasce questo lavoro? Lo ritieni un consolidato della
tua estetica?
In parte si, è un disco che
è costruito quasi totalmente da delle improvvisazioni ma
penso si possa intendere come una composizione. È un
approccio compositivo e improvvisativo in cui le cose vanno assieme e
si collegano, a me questo aspetto interessa molto. Con questo non
voglio tralasciare e dimenticare il gusto che provo
nell'improvvisazione totale, libera, anche radicale. Oppure, come
spesso faccio nei miei concerti in solo, scegliere dei temi o dei
frammenti di musiche di vario tipo e pensarle dal punto di vista
improvvisativo. Negli ultimi tempi preferisco suonare il sassofono in
acustico, senza elettronica, che invece utilizzo a parte, e mi sono
preparato un quaderno di appunti con dei temi, mie composizioni
innanzitutto e poi musiche tratte da un repertorio non solo jazzistico:
da Thelonious Monk, che a mio avviso è uno dei
più grandi in assoluto, a Steve Lacy, molto vicino a questo
spirito, poi l’Art Ensemble of Chicago, Duke Ellington,
Morton Feldman, Erik Satie, pezzi di colonne sonore di film come We'll
meet again, usato da Stanley Kubrick per chiudere Dottor
Stranamore, o il Piero Umiliani de I soliti ignoti,
fino ad arrivare a frammenti di musiche etniche, vietnamita e
giapponese in particolare. Insomma, cerco idee un po’
dappertutto, quello che conta è che mi diano degli spunti
interessanti dal punto di vista improvvisativo. Senza offesa per
nessuno non è mai la struttura armonica fine a sé
stessa, è qualcos'altro, magari un andamento armonico
particolare o un centro tonale o il ritmo o una melodia interessante
con i suoi intervalli, i suoi spazi. Un tema deve contenere degli
elementi che stimolino la mia immaginazione e che mi inducano ad
approfondire, a scavare. Oppure quel tema può essere
talmente bello che lo suono così com'è senza
farci altro, cercando di mettere l'improvvisazione solo nell'approccio
interpretativo. In casi come questo l’improvvisazione per me
consiste nel condurre il tema senza aggiungere troppe cose ma
affrontandolo dal punto di vista del "suono", giocando con le note,
dilatandone il tempo, soffermandosi su dettagli, anche fermandosi.
Il
che ci porta a considerare un elemento importante dell'improvvisazione
di cui non abbiamo ancora parlato: il silenzio, che comporta per
esempio l'attitudine a suonare (anche) per sottrazione, imparare a non
suonarsi addosso, prendersi i giusti spazi, lasciare aperture,
respirare.
Mi interessa molto l’aspetto meditativo
della musica e che sviluppo principalmente nei miei concerti in solo:
il silenzio appunto, la cura del suono… ecco, abbiamo
parlato del caso ma non abbastanza di suono, che per me è la
cosa più importante, perché significa
concentrarsi sull’essenziale e coglierne il significato aiuta
a tralasciare il superfluo.
Il mio sguardo anche nello studio
dello strumento è sempre stato rivolto alla cura e
all’approfondimento del suono, la ricerca delle
potenzialità espressive, acquisire il controllo dello
strumento per provare anche ad andare oltre. E poi la pronuncia,
aspetto importantissimo, e anche, perché no, il
fraseggio… rubando qua e là da Eric Dolphy ad
Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, Lacy, Jimmy Lyons…
In
un gruppo di improvvisazione invece quello che cerco è di
costruire una costellazione sonora ricca di strumenti, colori e
invenzioni. Mi piace per esempio quando si affrontano lunghe e distese
esplorazioni timbriche, e poi il contrasto fra silenzi e repentine
fiammate, improvvisazioni collettive e d’improvviso un assolo
o un duo, mi piace differenziare le combinazioni strumentali e inserire
nelle improvvisazioni spunti tematici come quelli elencati sopra,
citazioni di musiche da tutto il mondo, rilassanti camminate sul tempo,
esplosioni di free jazz.
Improvvisazione è anche
salire su un palco senza avere la più pallida idea di quello
che stai per fare, che è poi quello che mi succede spesso,
soprattutto in formazioni minimali come trii, duetti. Siamo nella
posizione che Lacy definiva come il limite, il confine tra
ciò che è noto e ciò che è
ignoto ed essere sempre pronti a buttarsi dall'altra parte e non a
rifugiarsi in ciò che si conosce. È ovvio,
è normale che chi inizia a suonare senza aver previsto nulla
si concentri per prima cosa in modo più o meno cosciente
sulla memoria e si butti su un proprio vocabolario acquisito nel tempo
con anni di studio e di esperienze. Ma bisogna andare subito oltre,
perché in ogni caso la cosa fondamentale è
scavalcare quella barriera e prendere dei rischi, può
succedere anche che le cose non funzionino, però e qui il
caso ritorna, può essere che una cosa non prevista a cui
qualcuno si aggancia in un certo modo faccia nascere una situazione
magica che rende l’improvvisazione riuscita. Ci sono tanti
aspetti importanti quando si suona in gruppo improvvisando: il gioco,
la capacità di assumersi un ruolo, l'invenzione, lo scambio
reciproco di stimoli e di provocazioni. E poi la curiosità,
mantenere sempre una certa apertura mentale, saper prendere delle
decisioni al volo, disponibilità a conoscere musicalmente le
persone con cui suoni e che magari non avevi mai incontrato prima,
essere sempre pronti ad affrontare contesti che non sono quelli
abituali.
Tu come ti comporti a riguardo? Organizzi anche
appuntamenti musicali al buio?
Peter Kowald era
incredibile in questo, un girovago dell'improvvisazione. È
stato una specie di ambasciatore, il primo tedesco che è
andato a conoscere gli improvvisatori inglesi, poi girava il mondo con
questo sistema. Negli ultimi anni si era un po' stancato e decise di
andare solo fin dove riusciva ad arrivare con il contrabbasso montato
sulla bicicletta... quanto a me, le cose capitano, a Milano nella
quotidianità si tende a frequentare le persone con cui si ha
più affinità musicale.
Ci hai raccontato di un clima particolarmente felice
per l'improvvisazione nella Milano della fine degli anni Settanta, oggi
cosa succede? Mi sembra tu abbia in progetto la fondazione di
un'orchestra milanese di improvvisatori totali...
A
Milano mi sembra, non solo nell'ambiente dell'improvvisazione radicale,
che c'è un desiderio di consolidare certi rapporti musicali
che nel corso degli anni sono un po' andati disperdendosi,
frammentandosi, ed è un po' un vecchio vizio italiano, con
il difetto di diventare poi competitivi, cosa che ho sempre rifiutato.
C'è nell'aria l'idea di un'orchestra di improvvisazione, ha
già un nome, si chiama Terra Australis Incognita, TAI. Tutti
i musicisti coinvolti hanno conosciuto gli improvvisatori tedeschi
della Globe Unity o gli inglesi della Company, piuttosto che la London
Composers Orchestra. In Italia abbiamo una situazione oggettiva
piuttosto complessa che rende difficile gestire un'orchestra numerosa,
potrebbe essere che quest'idea si sviluppi in una direzione dadaista
della non orchestra, che tuttavia casualmente, o
non troppo, assomiglia all'idea della Company. Quello che cercheremo di
fare è di riuscire ad organizzare in piccoli spazi degli
incontri scontri tra piccoli gruppi di musicisti coinvolti in questa
cosa.
Ci sarà un direttore?
Non lo so ancora, l'idea è partita da me assieme a Roberto Del Piano e a Roberto Masotti. Aggiungo che avrà anche una componente visiva, ci sarà un interesse a connettere immagine e improvvisazione, non nel senso che chi suona commenta le immagini ma piuttosto nel pensare a quello che tu vedi come un elemento dell'improvvisazione.
Fai spesso uso dell'elettronica sia nelle tue
composizioni che nei tuoi concerti dal vivo, che rapporto hai con le
tecnologie e che uso ne fai?
Ci possiamo ricollegare
al mio ultimo disco. Nelle Variazioni Mumacs
l'elettronica ha un peso notevole. Il disco nasce come un'unione di
suggestioni cinematografiche e musicali insieme, parte dall'idea del
film su Glenn Gould, le Variazioni Goldberg. Uno
degli aspetti che mi hanno sempre incuriosito è l'aspetto
del collage, del contrappunto, di frammenti sonori, field
recordings, canzoni pop inglesi piuttosto che il flauto della
musica tradizionale giapponese o rumori d'acqua. Questi elementi ora
con la tecnologia risultano molto facilmente realizzabili. Con il mio
quartetto vent'anni fa facevamo le stesse cose dal vivo con
registratori a cassette e televisori, i montaggi venivano fatti
tagliando fisicamente il nastro ed incollandolo. Oggi è
tutto molto più semplice, ma non sempre è un
vantaggio, è più difficile mantenere una propria
integrità. La divido in due, quella che uso a casa dal punto
di vista compositivo e quella che uso dal vivo; per il momento live non
uso il computer, ma utilizzo dei devices elettronici che mi permettono
di “smanettare” in tempo reale, ho ancora bisogno
del tocco fisico. Nel disco ci sono due pezzi che ho registrato usando
il live electronics, senza postproduzione. In merito al nuovo disco
sono partito un po' da tutto ciò che ci siamo detti adesso,
ho tracciato un percorso di 32 piccoli pezzi e ho chiesto ad alcuni
musicisti scelti tra quelli con cui ho collaborato di più e
che stimo particolarmente, di inviarmi le loro improvvisazioni o di
registrare insieme a partire da dei frammenti e suggestioni che avevo
ricavato dalle Variazioni Goldberg, dalla visione
del film.
Hai sottoposto ai musicisti con cui hai collaborato
il tuo sistema compositivo/improvvisativo quindi?
Si,
in un certo senso sì... tutti mi hanno risposto con grande
disponibilità ed una creatività su cui non avevo
alcun dubbio. Sui pezzi inviati io ho talvolta improvvisato con i miei
sassofoni, non c'è quasi nulla di sintetico, è
quasi tutto audio, non c'è nulla di midi. Ho poi montato i
frammenti in un collage/percorso musicale. Immagino che alcuni
improvvisatori ideologicamente puri potrebbero non apprezzare questo
procedimento compositivo, io ho l'orecchio piuttosto dissoluto e non ho
alcuna remora, e trovo sia una via interessante, alternativa
all'improvvisatore che si butta sul palco e fa improvvisazione totale.
È un modo di connettere l'improvvisazione su piattaforme
diverse.
Ti cito Monk. Alla fine di un suo
concerto disse “Stasera ho fatto gli errori
sbagliati”... tu che rapporto hai con l'errore?
Essere
troppo bravi non è mai troppo interessante, il caso che ti
porta a commettere un errore può portare a scoprire delle
cose nuove, rendono l'improvvisazione qualcosa di imprevisto e a mio
parere funziona meglio, con i suoi errori, all'interno di certi canoni
prestabiliti.