“Per me il mare è un passaggio obbligato, una visione antica, una dimensione profondamente radicata. Infatti torna spesso in quasi tutti i miei film, ma non soltanto come luogo deputato della memoria, come una scenografia o un fondale: piuttosto come una forza generatrice di fantasmi, di invasori, di allucinazioni, di magia immobile” (Tornabuoni, 1982). Nella filmografia di Federico Fellini, infatti, ricorrono di frequente immagini legate al mare: basti pensare alla fuga in barca della star dei fotoromanzi con la sua timida ammiratrice ne Lo sceicco bianco (1952); alle spiagge di Rimini frequentate dai giovani de I vitelloni (1953) e dai ragazzi di Amarcord (1973); alla battigia di Fregene sulla quale approda la manta morente che pare scrutare le persone che si accalcano intorno ad essa nel finale de La dolce vita (1960); alla prigionia sulla nave del pirata Lica nel quale incappano i protagonisti del Fellini Satyricon (1969); alle piccole imbarcazioni che si spingono a largo per ammirare la maestosità del Rex di Amarcord; alla laguna veneziana de Il Casanova di Federico Fellini (1976). Non si sottrae al fascino esercitato dal mare neppure E la nave va, che esce nelle sale nel 1983, dieci anni prima della scomparsa del regista, qui al suo ventesimo film e mezzo, parafrasando uno dei suoi capolavori più noti a pubblico e critica.
Come per l’Adriatico solcato dal Rex e i canali della Serenissima, anche il mare di E la nave va è artefatto, fatto ad arte, potremmo scrivere senza esagerazione per elogiare la scenografia di Danilo Donati e dello scultore Valeriano Trubbiani. Il film è un capolavoro costruito dalle maestranze di Cinecittà, al cui mito Fellini contribuì non poco lavorando nel leggendario Studio 5, dove venne realizzata una scenografia che definiremmo lirica, in cui i protagonisti, per lo più appartenenti al mondo dell’opera, si muovono in perfetto agio, così come efficace collocazione sembrano trovare i capolavori della musica classica, nel pieno rispetto dei libretti originali o rettificati all’uso dai testi del poeta Andrea Zanzotto. Prodotto da Franco Cristaldi, E la nave va è un pastiche che coniuga il viaggio in mare con il canto lirico dal momento che i protagonisti si riuniscono su un lussuoso transatlantico, da loro preso in affitto, per un’occasione davvero particolare, ossia accompagnare le ceneri di una grande diva della lirica.
Nell’affascinante racconto felliniano l’incipit è caratterizzato da un taglio squisitamente documentaristico, che pare ricalcare il pionieristico lavoro dei Lumière, per l’arrivo al molo dei cantanti e dell’urna funeraria, sottolineato da una fotografia virata leggermente in seppia e da un sonoro che riproduce l’antico rumore degli strumenti di proiezione di un tempo. Si passa poi al colore, che invita lo spettatore a cedere al potere della fantasia attraverso l’avvicendarsi di immagini da musical lirico, passaggio promosso da un cenno del maestro Albertini, come se Paolo Paoloni, l’attore che lo interpreta, avesse realmente quei poteri da megadirettore galattico – come in Fantozzi (1975) – al quale lo spettatore di casa nostra solitamente associa il suo volto. Salpa così la Gloria N., dal molo numero 10 di Napoli, città riconoscibile da un fondale su cui spicca la fontana di Santa Lucia, oggi collocata nella Villa Comunale, e, più distante, la sagoma del Castel dell’Ovo. La meta da raggiungere sono le acque al largo dell’isola di Erimo, mentre le ceneri da disperdere in esse sono quelle di Edmèa Tetua, nativa dell’isola e, soprattutto, a detta dei colleghi, la cantante più celebre del suo tempo (giudizio espresso con convinzione o celando ipocritamente note d’invidia, immancabile condimento degli ambienti dello spettacolo e non solo).
Il passaggio al colore, del resto, permette di inquadrare meglio i personaggi che, con le loro caratteristiche accentuate, i loro evidenti difetti e le loro manie, in Fellini, più che in qualunque altro cineasta, fanno la storia. Incarnati da attori che solitamente sono meno noti presso il pubblico italiano dei doppiatori che prestano loro la voce, i passeggeri possono essere suddivisi in due distinti nuclei. Il primo è da circoscrivere agli addetti ai lavori del mondo lirico, alcuni dei quali tratteggiati soltanto da poche inquadrature. C’è l’illuminato sovrintendente del teatro La Scala di Milano e quello dell’Opera di Roma (quest’ultimo accompagnato da un segretario dagli strabilianti poteri medianici), i loro illustri colleghi di Vienna e Sir Reginald Dongwy, la massima autorità della Royal Opera House, un notabile inglese, irreprensibile nella vita pubblica, ma intimamente vizioso, al pari della propria consorte, non priva, tuttavia, di filantropici gesti nei confronti dei bisognosi. Ci sono il già citato Albertini, i due vetusti maestri di canto, il celebre direttore d’orchestra che siede al tavolo con la ballerina che tutto il mondo conosce. Ci sono soprattutto loro, i colleghi della Tetua: il basso russo Ziloev, i due tenori eternamente rivali Aureliano Fuciletto e Sebastiano Lepori, la soprano Ildebranda Cuffari, ossia l’erede designata della diva scomparsa di cui vuol carpire il segreto delle sue acclamate doti. Un mondo, come si accennava, non privo di gelosie e screzi tra illustri artisti, tema già noto scorrendo la filmografia del regista perché affrontato in passato con Prova d’orchestra (1979), nel quale, da un’iniziale simpatia-antipatia fra suoni, la trama sfocia in vere e proprie scene di guerriglia urbana in cui i musicisti se le suonano senza pietà. Al folto gruppo dei lirici si aggiungono, oltre al capitano e all’equipaggio, altri suggestivi personaggi: Ricotin, un comico del “muto”, sbiadita imitazione di Stan Laurel e salpato per mere questioni pubblicitarie legate al suo ultimo film; un facoltoso egiziano, padrone delle ferrovie del suo paese e un tempo amante della soprano scomparsa, accompagnato da immancabili donne velate come nei fiabeschi racconti d’oriente; il conte di Bassano, pallido dandy alla Dorian Gray dall’accento del sud, eternamente innamorato della Tetua; il granduca di Harzock, anche lui ammiratore della cantante, con il suo notabile seguito, in cui spiccano la sorella, ossia una principessa cieca che ha la facoltà, dicono, della visione cromatica della voce, sempre vicina al primo ministro cospiratore, e il capo della polizia, personaggio a metà strada tra Rasputin e Peter Sellers nella parodia di Charlie Chan in Invito a cena con delitto (1976). A questo caleidoscopio umano si uniscono altre due figure fondamentali: un rinoceronte, una sorta di ospite che pare dimenticato nell’Arca di Noè dopo la fine del biblico diluvio, un immalinconito King Kong che langue nella stiva insieme ad un turco che lo accudisce; il narratore Orlando (Freddie Jones), un giornalista che alterna la cronaca mondana a commenti sulla politica internazionale, che si trasforma in una sorta di giornalista televisivo ante litteram non appena si piazza davanti a una macchina da presa, ed in maniera del tutto anacronistica se si considera che il suo è un commento alle immagini a esclusivo beneficio dello spettatore contemporaneo, dato che le sue riprese, all’epoca, non avrebbero consentito l’agevolazione del sonoro.
Non mancano momenti d’incontro tra quelli che, a detta di Orlando, incarnavano i più sublimi valori del seducente mondo dell’arte e dello spettacolo e le persone più alla mano: i due anziani maestri di canto deliziano con un concerto di calici variamente riempiti d’acqua gli addetti alle cucine; gli stessi sono spettatori delle incredibili doti del basso russo, capace di emettere una nota così profonda da indurre in catalessi una gallina, e con essa il povero Orlando; i lirici concedono una performance del proprio talento agli addetti alla sala macchine lanciando dall’alto, nell’assordante rumoreggiare delle caldaie, versi tratti, tra gli altri, da Una voce poco fa, Il fiore che avevi a me tu dato, La donna è mobile, Amami Alfredo; sul ponte della nave, al ritmo frenetico di un’antica danza, cade infine ogni distanza tra i protagonisti e un gruppo diseredati, profughi serbi fuggiti dalla loro patria a seguito dell’attentato di Sarajevo e raccolti dal capitano, in osservanza del dovere di soccorso sancito dal codice navale. Già, Sarajevo… Benché tutti i protagonisti si trovino in mare aperto e dunque lontani dalle sorti del mondo, è la storia a scovarli, con un dei suoi capitoli più dolorosi, la Grande Guerra. Fellini colloca la narrazione nei primi giorni dell’inizio di quell’immane sciagura, a cui dedicarono la propria sensibilità molti cineasti, da Georg Wilhelm Pabst e Jean Renoir, a Jean-Pierre Jeunet e Steven Spielberg, passando per Stanley Kubrick e Charles Vidor e per i nostri Mario Monicelli e Francesco Rosi. Consumato il rito della festa ecco comparire, come accade in un brusco risveglio dopo un incantevole sogno, una nave da guerra austroungarica che minaccia il transatlantico al fine di prelevare i serbi lì presenti. La popolarità di Edmèa, tuttavia, è nota anche presso gli ufficiali asburgici che consentono alla Gloria N. di avvicinarsi all’isola di Erimo, segno dei limitati benefici a breve termine dell’arte diplomatica. A largo dell’isola si celebra il rito della dispersione delle ceneri, mentre il grammofono spande nell’aria il canto della diva che si cimenta in O patria mia, romanza dell’Aida che sembra assumere qui un significato duplice: sia quello di un addio della celebrità alla sua casa natale e al mondo, sia uno tristemente profetico, in relazione alle sorti del mondo per l’orribile macello che si andava preparando.
Al di là dei personaggi, delle loro vicende che s’intrecciano tra sale, ponti e cabine, la pellicola concede allo spettatore più di una riflessione sulla tecnologia agli albori del secolo breve. È il personaggio del granduca a introdurre, da questo punto di vista, un paio di considerazioni circa la fotografia e la telegrafia. In una scena, infatti, l’autorevole personaggio è davanti a un fotografo e ricorda che suo nonno trascorse più tempo a posare per i pittori che a governare, fatica che il notabile asburgico ora risolve in tempi celeri attraverso un click, moltiplicando allo stesso tempo notevolmente, rispetto al suo avo, la propria visibilità, sebbene, come sosteneva Walter Benjamin, limitandosi al ritratto, la fotografia non aveva ancora sancito il sorpasso del valore espositivo su quello culturale da parte dell’opera d’arte, il che avvenne con la scomparsa dell’uomo in quanto soggetto (Benjamin, 1966). Sempre il granduca è al centro della seconda riflessione, dal momento che la comparsa della nave da guerra austroungarica, che reclama il prelevamento forzato dei serbi, vuol sottrarlo al pericolo, determinando un immediato scambio di comunicazioni tra le due navi, compreso il ricorso all’uso del telegrafo da parte del capitano della Gloria N. per informare Roma dell’accaduto, ricevendo l’ordine di prendere tempo. Si delinea così un’inquieta situazione, emblematica di quel periodo, dato che “nell’estate del 1914, gli uomini al potere persero l’orientamento nel flusso febbrile, misurato da raffiche di telegrammi, conversazioni telefoniche, memorandum e comunicati stampa: politici incalliti crollarono, sotto la pressione di confronti carichi di tensione e di notti insonni, tormentandosi per le probabili conseguenze disastrose di loro giudizi improvvisati e di azioni frettolose” (Kern, 1995). Del resto, proprio nel 1914, durante la conferenza internazionale di Londra sulla sicurezza marittima, fu disciplinata l’adozione della radiotelegrafia in mare, resa necessaria dalla tragedia del Titanic.
Quanto al cinema, ai tempi dei fatti narrati era trascorso un ventennio dalla sera della prima dei Lumière, quel 28 dicembre 1895, data ritenuta ormai semplice convenzione nel computo degli anni della settima arte. Venti anni trascorsi nel segno del conflitto tra le nazioni all’epoca più all’avanguardia dal punto di vista tecnologico al fine di contendersi la legittima paternità del cinematografo: una sorta di guerra di brevetti, nella quale anche l’Italia avrebbe potuto accampare pretese con il Kinetografo Alberini, depositato l’11 novembre del 1895 da Filoteo Alberini – ma quest’ultimo, temendo ritorsioni legali da parte dei Lumière, dato che il suo apparecchio per la ripresa, lo sviluppo e la proiezione era un progetto molto simile a quello dei due fratelli francesi, finì per abbandonare ogni velleità nel campo della creazione, optando per una carriera da produttore (Viscardi, 2000; Tosi, 1984). Ed il cinema e il cinematografo non sfuggono all’attenzione del regista: se, da un lato, si è già accennato alla lettura anacronistica che Fellini dà della funzione narratrice di Orlando, va, inoltre, notato che il conte di Bassano, proiettando nell’intimità della propria cabina immagini private dell’amata Edmèa, attesta con le proprie abitudini la funzione di preservazione del ricordo attribuita al cinema, come all’arte nel suo complesso. D’altra parte, E la nave va è, soprattutto, un atto d’amore che Fellini rivolge al fare cinema, alla sua dimensione artigianale e, in particolare, al ruolo di Cinecittà, che il regista premia rompendo l’incanto creato dalla troupe inquadrandola con la macchina da presa, vero bisturi che traccia un solco indagatore nella magia delle immagini offerte allo spettatore. Una Cinecittà della quale Fellini ha ricordato le prime emozioni vissute raccontandole in Intervista (1987) – anche se, forse, ne aveva varcato l’ingresso per la prima volta con un intento meno nobile di quello solitamente narrato, ossia “vendere un brillante falso ad Assia Noris o a Osvaldo Valenti” (Kezich, 2002) – e che ospitò, proprio nello Studio 5, la sua camera ardente nei primi giorni di novembre di vent’anni fa.
Tornando a E la nave va, una didascalia all’inizio del film, riferita ad Orlando, recita: “Mi dicono: «Fa’ la cronaca, racconta quello che succede!» E chi lo sa quello che succede?”. Ci piace citare, per un’eventuale risposta, queste righe tratte da Il negro del “Narciso”: “La traversata aveva avuto inizio, e la nave, un frammento distaccato dalla terra, procedeva solitaria e veloce come un piccolo pianeta. Intorno ad essa, gli abissi del cielo e del mare si incontravano formando una frontiera irraggiungibile” (Conrad, 1998).
ASCOLTI
— Bizet Georges, Carmen, Sugar Music, 2008.
— Rossini Gioacchino, Il Barbiere di Siviglia, Deutsche Grammophon, 2005.
— Verdi Giuseppe, Aida, Naxos, 2007.
— Verdi Giuseppe, La traviata, Decca, 1999.
— Verdi Giuseppe, Rigoletto, Deutsche Grammophon, 2005.
LETTURE
— Benjamin Walter, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
— Conrad Joseph, Il negro del “Narciso”, Mondadori, Milano, 1998.
— Fellini Federico, E la nave va, Longanesi, Milano, 1983.
— Kern Stephen, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995.
— Kezich Tullio, Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2002.
— Tornabuoni Lietta, Nel mare turbinoso di Fellini, in “La Stampa”, 14/11/1982.
— Tosi Virgilio, Il cinema prima di Lumière, ERI, Torino, 1984.
— Viscardi Rosa, Il cinema, Ellissi, Napoli, 2000.
— Zanzotto Andrea, Cori per il film E la nave va, Libri Scheiwiller Milano, 1988.
VISIONI
— Fellini Federico, Amarcord, Warner Home Video, 2007.
— Fellini Federico, E la nave va, Elleu Multimedia, 2006.
— Fellini Federico, Fellini Satyricon, Sony Pictures Home Entertainment, 2011.
— Fellini Federico, Il Casanova di Federico Fellini, Sony Pictures Home Entertainment, 2011.
— Fellini Federico, Intervista, Rai Cinema - 01 Distribution, 2011.
— Fellini Federico, I vitelloni, Warner Home Video, 2012.
— Fellini Federico, La dolce vita, Warner Home Video, 2012.
— Fellini Federico, Lo sceicco bianco, Fepaleb, 2004.
— Fellini Federico, Prova d’orchestra, Elleu Multimedia, 2004.
— Moore Robert, Invito a cena con delitto, Sony Pictures Home Entertainment, 2003.
— Salce Luciano, Fantozzi, Warner Home Video, 2013.