Premiato agli Oscar come miglior film straniero, Amarcord
ha conosciuto un vastissimo successo e, indissolubilmente legato
all'accompagnamento musicale di Nino Rota, è penetrato
profondamente nell'immaginario collettivo. Tanto che, come è
avvenuto per i termini paparazzo e dolce
vita, lo stesso titolo – amarcord
– si è imposto come neologismo nella lingua
italiana.
A vent'anni di distanza da I Vitelloni
Fellini ha raccontato le bravate goliardiche di gioventù, ma
anche l'ottusa piccineria e la provincialità spaccona dello
strapaese. Nella Rimini provinciale e trionfalmente fascista degli anni
Trenta, Titta e i suoi amici, un gruppo di monelli non ancora vitelloni,
scoprono i primi pruriti sessuali e l'ossessione per le donne. Il
risultato è un film corale, visionario e magistralmente
orchestrato, che ha il fascino inconfondibilmente felliniano della
fantasmagoria onirica. Amarcord è
un'antologia di sequenze e personaggi memorabili: l'euforia collettiva
al passaggio delle Mille Miglia e del transatlantico Rex, le adunate
del sabato fascista, la seducente parrucchiera Gradisca, la scuola con
i suoi professoroni pedanti, l'incontro ravvicinato con una procace
tabaccaia, la vita in famiglia, i fascisti con l'olio di ricino, la
visita allo zio matto e le intense sedute di masturbazione collettiva.
Non a caso Goffredo Fofi ha definito Fellini “il nostro
migliore antropologo”(cfr. Fellini, 2009).
Il film
si apre con il falò della fugaraza che
segna l'addio all'inverno, per concludersi circolarmente la primavera
successiva, con un banchetto di nozze in campagna. Tra feste paesane e
parate fasciste, stagione dopo stagione, il tempo passa per tutti: la
madre di Titta muore e perfino la corteggiatissima Gradisca si sposa
con un carabiniere.
In questa carrellata carnevalesca non
mancano visioni dal sapore poetico che sospendono la
trivialità prosaica in momenti di sognante meraviglia:
l'apparizione del pavone durante una nevicata, l'incontro nella nebbia
con un misterioso mostro che si rivela essere un pacifico bue oppure la
sfarzosa danza delle concubine dell'emiro al Grand Hotel, luogo mitico
dove si proiettano le pulsioni fantastiche di avventura ed erotismo.
In Amarcord Fellini sintetizza
poeticamente il suo rapporto con Rimini, città natale amata
e odiata, provinciale e bigotta ma anche vitale e godereccia: un
“pastrocchio, confuso, pauroso, tenero” dove
“la nostalgia si fa più limpida”
(Fellini, 1974). Il film, più che un omaggio, vuole essere
“commiato definitivo” (ibidem)
dal “fatiscente e sempre contagioso teatrino
riminese” (ibidem) e dai personaggi che lo
popolano. Un'operazione che rimescola sentimenti contraddittori e che
dietro la rievocazione affettuosa di quegli anni nasconde una vena di
sprezzante ironia. Amarcord è inoltre
l'addio a una stagione della vita, “quell'inguaribile
adolescenza che rischia di possederci per sempre”, stagione
che a ben guardare rimanda ad una particolare fase della storia di un
popolo eternamente immaturo, facile preda di figure carismatiche e
autoritarie purché lo sollevino dalla
responsabilità di crescere.
Come ha
scritto Tullio Kezich, è interessante che una denuncia
così spietata nei confronti del fascismo, pur veicolata da
un umorismo leggero, provenga da un autore dichiaratamente
“impolitico” (Kezich, 2002). Fellini non era
certamente il prototipo del regista politicamente impegnato (almeno non
nel senso classico del termine) ed era restio a formulare giudizi
ideologici. Tuttavia fu lo stesso cineasta a suggerire una lettura di Amarcord
come rappresentazione del clima socio-culturale italiano osservando che
il fascismo e l'adolescenza erano (sono?) in un certo senso
“stagioni permanenti” del carattere italiano, e
ravvisando nel provincialismo congenito di un popolo scapestrato e
sempre bambino “l'eterna premessa” del regime.
Fellini
si accorse con disappunto che parte del pubblico non aveva colto il
tono derisorio del film, volendovi rintracciare invece uno struggimento
malinconico, un'affettuosa rievocazione di un certo clima sociale e
politico, in sostanza interpretando la critica dell'Italia fascista
come il suo elogio commosso.
D'altra parte al film
è stato anche rimproverato di annacquare la denuncia
antifascista in toni troppo morbidi (i fascisti nel film non sembrano
davvero pericolosi, limitandosi tutt'al più a somministrare
purghe a base di olio di ricino). Va tenuto presente che Fellini non
amava le analisi distaccate e asettiche e riteneva che un approccio
politico al cinema sarebbe stato una limitazione: la sua è
una critica mossa sul livello micro, quello dell'antropologia del
quotidiano, in una società vista dagli occhi di chi in
quella realtà è stato adolescente. In ogni caso
non aveva nessuna intenzione di edulcorare la visione di quel periodo,
era anzi convinto che dal ritratto di quel microcosmo trapelasse
“qualcosa di vagamente repellente (…) un'aria
lievemente fetida, un calore esilarante impercettibilmente
manicomiale” (Fellini, 1974).
L'immobilismo
granitico di personaggi macchietta e sempre uguali a se stessi, puntava
a scatenare una reazione di imbarazzato disagio, non di rimpianto e
nostalgia. Con un acume che oggi suona profetico, Fellini
notò come gli italiani si fossero disinvoltamente sbarazzati
della memoria ingombrante del fascismo: “forse siamo convinti
di essere diversi, o di esser cambiati, e che il fascismo è
stato solo un fenomeno storico, una stagione della nostra vita,
sonnolenta, sognata, dalla quale siamo miracolosamente
rinati” (ibidem).
Altro elemento
cardine del film è la scoperta dell'universo femminile. A
popolare le fantasie libidinose di Titta e compagni troviamo la
tabaccaia dai seni enormi, la ferina e sensuale Volpina e la
parrucchiera Ninola, soprannominata Gradisca perché
è con questo invito che aveva offerto le sue grazie ad un
principe, per sembrare beneducata. Perfino la severa professoressa di
matematica diventa oggetto di desiderio per la scolaresca. Le donne di Amarcord
sono espressioni di una femminilità ipertrofica e
debordante (fatta eccezione naturalmente per la madre, una Pupella
Maggio doppiata e superba malgrado lo slittamento regionale). Il mito
di una femminilità idealizzata ed estrema è una
costante di Fellini e ne troviamo un significativo compendio in una
famosa sequenza di 8½, quella in cui
Guido Anselmi / Marcello Mastroianni, chiaro alter ego del regista,
sogna di essere accudito come un bambino da un harem di donne,
amanti-madri che fanno a gara per soddisfare i suoi bisogni. Una nuance
di fantasticheria sfrenata che ritroviamo in Amarcord,
nella danza erotica allestita dalle odalische a beneficio del fortunato
Biscein.
In un primo momento Fellini
pensava di intitolare l'opera Viva l'Italia oppure Il
borgo, poi scartati perché rischiavano di essere
recepiti come una condanna severa e snobistica. Il titolo definitivo fu
poi concepito al ristorante, scarabocchiato su un tovagliolo come in un
casuale esperimento di scrittura automatica. Pur suonando come il
romagnolo a m'arcord (io mi ricordo), la parola fu
scelta per il suo suono bizzarro (“una capriola fonetica, un
carillon, un suono cabalistico”) più che per il
riferimento alla dimensione autobiografica, che Fellini ha sempre
tentato di mettere in secondo piano. Amarcord
rendeva bene l'idea di un groviglio di sentimenti duplici, dello stato
d'animo di chi è combattuto tra ironia e tenerezza, rifiuto
e complicità.
Un certo autobiografismo è
di certo innegabile. Nel personaggio di Titta è
identificabile Luigi Benzi, amico e compagno di banco di Fellini,
soprannominato Titta durante gli anni della scuola dallo stesso
regista. Tuttavia Fellini insisteva nel precisare che Amarcord
non è una rievocazione esclusivamente autobiografica
– – “Qualunque cosa, tranne l'irritante
associazione a je me souviens”
– (Fellini, 1974): i ricordi, quelli di Fellini
così come quelli dello sceneggiatore Tonino Guerra, sono
trasfigurati dalla lente deformante di uno stile illusionista,
amalgamati in una poetica immaginifica e barocca. Allo stesso modo
resterebbe deluso chi volesse leggere in Amarcord
una dettagliata cronistoria degli anni Trenta. Il trionfale passaggio
del Rex, una scena che è diventata una delle più
rappresentative del film, in realtà non è mai
avvenuto (più precisamente il transatlantico
costeggiò solo una volta la riviera romagnola, a lumi
spenti, durante la seconda guerra mondiale). Allo stesso modo la Rimini
di Amarcord fu ricostruita a Cinecittà
tra le scenografie fiabesche di Danilo Donati poiché il
regista preferiva lavorare indisturbato, al riparo dalla
curiosità indiscreta dei suoi conterranei. Fellini non era
un partigiano del cinema-verità e confidava nel potere della
finzione per scandagliare il reale ed emozionare lo spettatore.
Perché “la menzogna è sempre
più interessante della verità” (ibidem).
LETTURE
— Fellini Federico, Fare un film, Einaudi, Milano, 1974.
— Fellini Federico, L'arte della visione. Conversazione con Goffredo Fofi e Gianni Volpi, Donzelli, Roma, 2009.
— Kezich Tullio, Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2002.
— Verdone Mario, Federico Fellini, Il Castoro Cinema, Milano, 1994.
VISIONI
— Fellini Federico, Amarcord, Warner Home Video, 2003.