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Federico Fellini,
disegno per Amarcord:
il pavone e la fontana
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amarcord_locPremiato agli Oscar come miglior film straniero, Amarcord ha conosciuto un vastissimo successo e, indissolubilmente legato all'accompagnamento musicale di Nino Rota, è penetrato profondamente nell'immaginario collettivo. Tanto che, come è avvenuto per i termini paparazzo e dolce vita, lo stesso titolo – amarcord – si è imposto come neologismo nella lingua italiana.
A vent'anni di distanza da I Vitelloni Fellini ha raccontato le bravate goliardiche di gioventù, ma anche l'ottusa piccineria e la provincialità spaccona dello strapaese. Nella Rimini provinciale e trionfalmente fascista degli anni Trenta, Titta e i suoi amici, un gruppo di monelli non ancora vitelloni, scoprono i primi pruriti sessuali e l'ossessione per le donne. Il risultato è un film corale, visionario e magistralmente orchestrato, che ha il fascino inconfondibilmente felliniano della fantasmagoria onirica. Amarcord è un'antologia di sequenze e personaggi memorabili: l'euforia collettiva al passaggio delle Mille Miglia e del transatlantico Rex, le adunate del sabato fascista, la seducente parrucchiera Gradisca, la scuola con i suoi professoroni pedanti, l'incontro ravvicinato con una procace tabaccaia, la vita in famiglia, i fascisti con l'olio di ricino, la visita allo zio matto e le intense sedute di masturbazione collettiva. Non a caso Goffredo Fofi ha definito Fellini “il nostro migliore antropologo”(cfr. Fellini, 2009).
Il film si apre con il falò della fugaraza che segna l'addio all'inverno, per concludersi circolarmente la primavera successiva, con un banchetto di nozze in campagna. Tra feste paesane e parate fasciste, stagione dopo stagione, il tempo passa per tutti: la madre di Titta muore e perfino la corteggiatissima Gradisca si sposa con un carabiniere.
In questa carrellata carnevalesca non mancano visioni dal sapore poetico che sospendono la trivialità prosaica in momenti di sognante meraviglia: l'apparizione del pavone durante una nevicata, l'incontro nella nebbia con un misterioso mostro che si rivela essere un pacifico bue oppure la sfarzosa danza delle concubine dell'emiro al Grand Hotel, luogo mitico dove si proiettano le pulsioni fantastiche di avventura ed erotismo.

 

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In Amarcord Fellini sintetizza poeticamente il suo rapporto con Rimini, città natale amata e odiata, provinciale e bigotta ma anche vitale e godereccia: un “pastrocchio, confuso, pauroso, tenero” dove “la nostalgia si fa più limpida” (Fellini, 1974). Il film, più che un omaggio, vuole essere “commiato definitivo” (ibidem) dal “fatiscente e sempre contagioso teatrino riminese” (ibidem) e dai personaggi che lo popolano. Un'operazione che rimescola sentimenti contraddittori e che dietro la rievocazione affettuosa di quegli anni nasconde una vena di sprezzante ironia. Amarcord è inoltre l'addio a una stagione della vita, “quell'inguaribile adolescenza che rischia di possederci per sempre”, stagione che a ben guardare rimanda ad una particolare fase della storia di un popolo eternamente immaturo, facile preda di figure carismatiche e autoritarie purché lo sollevino dalla responsabilità di crescere. 
Come ha scritto Tullio Kezich, è interessante che una denuncia così spietata nei confronti del fascismo, pur veicolata da un umorismo leggero, provenga da un autore dichiaratamente “impolitico” (Kezich, 2002). Fellini non era certamente il prototipo del regista politicamente impegnato (almeno non nel senso classico del termine) ed era restio a formulare giudizi ideologici. Tuttavia fu lo stesso cineasta a suggerire una lettura di Amarcord come rappresentazione del clima socio-culturale italiano osservando che il fascismo e l'adolescenza erano (sono?) in un certo senso “stagioni permanenti” del carattere italiano, e ravvisando nel provincialismo congenito di un popolo scapestrato e sempre bambino “l'eterna premessa” del regime.
Fellini si accorse con disappunto che parte del pubblico non aveva colto il tono derisorio del film, volendovi rintracciare invece uno struggimento malinconico, un'affettuosa rievocazione di un certo clima sociale e politico, in sostanza interpretando la critica dell'Italia fascista come il suo elogio commosso.
D'altra parte al film è stato anche rimproverato di annacquare la denuncia antifascista in toni troppo morbidi (i fascisti nel film non sembrano davvero pericolosi, limitandosi tutt'al più a somministrare purghe a base di olio di ricino). Va tenuto presente che Fellini non amava le analisi distaccate e asettiche e riteneva che un approccio politico al cinema sarebbe stato una limitazione: la sua è una critica mossa sul livello micro, quello dell'antropologia del quotidiano, in una società vista dagli occhi di chi in quella realtà è stato adolescente. In ogni caso non aveva nessuna intenzione di edulcorare la visione di quel periodo, era anzi convinto che dal ritratto di quel microcosmo trapelasse “qualcosa di vagamente repellente (…) un'aria lievemente fetida, un calore esilarante impercettibilmente manicomiale” (Fellini, 1974).

 

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L'immobilismo granitico di personaggi macchietta e sempre uguali a se stessi, puntava a scatenare una reazione di imbarazzato disagio, non di rimpianto e nostalgia. Con un acume che oggi suona profetico, Fellini notò come gli italiani si fossero disinvoltamente sbarazzati della memoria ingombrante del fascismo: “forse siamo convinti di essere diversi, o di esser cambiati, e che il fascismo è stato solo un fenomeno storico, una stagione della nostra vita, sonnolenta, sognata, dalla quale siamo miracolosamente rinati” (ibidem).
Altro elemento cardine del film è la scoperta dell'universo femminile. A popolare le fantasie libidinose di Titta e compagni troviamo la tabaccaia dai seni enormi, la ferina e sensuale Volpina e la parrucchiera Ninola, soprannominata Gradisca perché è con questo invito che aveva offerto le sue grazie ad un principe, per sembrare beneducata. Perfino la severa professoressa di matematica diventa oggetto di desiderio per la scolaresca. Le donne di Amarcord sono espressioni di una femminilità ipertrofica e debordante (fatta eccezione naturalmente per la madre, una Pupella Maggio doppiata e superba malgrado lo slittamento regionale). Il mito di una femminilità idealizzata ed estrema è una costante di Fellini e ne troviamo un significativo compendio in una famosa sequenza di , quella in cui Guido Anselmi / Marcello Mastroianni, chiaro alter ego del regista, sogna di essere accudito come un bambino da un harem di donne, amanti-madri che fanno a gara per soddisfare i suoi bisogni. Una nuance di fantasticheria sfrenata che ritroviamo in Amarcord, nella danza erotica allestita dalle odalische a beneficio del fortunato Biscein. 

In un primo momento Fellini pensava di intitolare l'opera Viva l'Italia oppure Il borgo, poi scartati perché rischiavano di essere recepiti come una condanna severa e snobistica. Il titolo definitivo fu poi concepito al ristorante, scarabocchiato su un tovagliolo come in un casuale esperimento di scrittura automatica. Pur suonando come il romagnolo a m'arcord (io mi ricordo), la parola fu scelta per il suo suono bizzarro (“una capriola fonetica, un carillon, un suono cabalistico”) più che per il riferimento alla dimensione autobiografica, che Fellini ha sempre tentato di mettere in secondo piano. Amarcord rendeva bene l'idea di un groviglio di sentimenti duplici, dello stato d'animo di chi è combattuto tra ironia e tenerezza, rifiuto e complicità.
Un certo autobiografismo è di certo innegabile. Nel personaggio di Titta è identificabile Luigi Benzi, amico e compagno di banco di Fellini, soprannominato Titta durante gli anni della scuola dallo stesso regista. Tuttavia Fellini insisteva nel precisare che Amarcord non è una rievocazione esclusivamente autobiografica – – “Qualunque cosa, tranne l'irritante associazione a je me souviens” – (Fellini, 1974): i ricordi, quelli di Fellini così come quelli dello sceneggiatore Tonino Guerra, sono trasfigurati dalla lente deformante di uno stile illusionista, amalgamati in una poetica immaginifica e barocca. Allo stesso modo resterebbe deluso chi volesse leggere in Amarcord una dettagliata cronistoria degli anni Trenta. Il trionfale passaggio del Rex, una scena che è diventata una delle più rappresentative del film, in realtà non è mai avvenuto (più precisamente il transatlantico costeggiò solo una volta la riviera romagnola, a lumi spenti, durante la seconda guerra mondiale). Allo stesso modo la Rimini di Amarcord fu ricostruita a Cinecittà tra le scenografie fiabesche di Danilo Donati poiché il regista preferiva lavorare indisturbato, al riparo dalla curiosità indiscreta dei suoi conterranei. Fellini non era un partigiano del cinema-verità e confidava nel potere della finzione per scandagliare il reale ed emozionare lo spettatore. Perché “la menzogna è sempre più interessante della verità” (ibidem).

 

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LETTURE

Fellini Federico, Fare un film, Einaudi, Milano, 1974.
Fellini Federico, L'arte della visione. Conversazione con Goffredo Fofi e Gianni Volpi, Donzelli, Roma, 2009.
Kezich Tullio, Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2002.
Verdone Mario, Federico Fellini, Il Castoro Cinema, Milano, 1994.

 


 

VISIONI

Fellini Federico, Amarcord, Warner Home Video, 2003.