A riflettere sui tempi attuali, sul disorientamento generale
che molti studiosi indicano come cifra dell’oggi viene in
mente Forrest Gump, uno dei capolavori di Robert
Zemeckis, e in particolare la parte in cui il
protagonista, preso in una corsa senza meta e senza sosta attraverso
gli States, vede raccogliersi dietro di sé una folla sempre
più numerosa di seguaci, ognuno impegnato nella ricerca di
un suo senso della vita, dopo aver eletto Forrest
al ruolo di guida della propria ricerca spirituale.
Forrest
Gump è molte cose. È prima di tutto un
sopravvissuto: ad un’infanzia infelice, ad una guerra
devastante e, nel momento in cui comincia a correre, ad un amore che
gli sembra senza speranza.
Ma è anche una idea tipo
dell’uomo della contemporaneità: inconsapevole,
infantile, vanamente svagato, perso in un suo mondo indipendente,
altro, parallelo a quello degli altri.
Privo di scopo nella
sua maratona personale, diventa un enzima per gli scopi degli altri, di
quelli che lo seguono: ognuno di loro vede in lui il portatore della propria
fiaccola, del proprio mito, del singolo “ho fatto
una scelta”. Diventa il minimo comun denominatore di tutti
coloro che sono a caccia del proprio “vero” Io,
una esortazione ad “essere se stessi” (che poi cosa
significa? Non si è, normalmente, se stessi?
Si è qualcun altro?), nella migliore tradizione delle derive
New Age della seconda modernità, di un “Peace Love
and Music” ormai svaporato, in via di trasformazione
nell’individualismo rivendicativo ed egoista degli anni
Ottanta (il film è del 1995, ma il romanzo da cui
è tratto è del 1986, piena era Reagan).
Quell’individualismo che i credenti non hanno esitato a
bollare negativamente come “relativismo”, in cui il
Sé “si blinda” e comincia a pensare solo
a se stesso, finendo in un doppio vicolo cieco: da una parte,
l’egocentrismo più chiuso, dall’altro la
solitudine più profonda. E va alla ricerca di
“nuovi” valori, “nuove”
bandiere da seguire, come i seguaci del corridore senza meta
– e senza che lui neanche se ne accorga.
In
realtà, nel caso di Forrest – “E allora
feci la cosa che sapevo fare meglio: cominciai a correre”,
racconta Forrest – la meta è evidente quanto
inconsapevole: il viaggio stesso, per – certo, oscuramente
– dimenticare la sua Jenny, che ancora una volta lo ha
rifiutato, e metabolizzare la delusione, neutralizzare il dolore.
Ma
per i suoi seguaci le cose non sono altrettanto chiare. Le loro istanze
sono molto più vaghe, tanto che quando il loro eroe si
ferma, perché è “… un
po’ stanchino”, loro non sanno più che
fare. I loro “sé blindati”, relativisti,
sono presi in contropiede, perdono la bussola con cui speravano di
“trovare se stessi”.
Perdendo la loro
involontaria guida, pagano la “fine delle grandi
narrazioni” di cui scrivono moralisti, filosofi, maitre
à penser di varia provenienza.
Eva Illouz,
sociologa di origine marocchina che lavora in Israele
(bell’esempio di interculturalità, alla faccia
degli steccati ideologici), riflettendo sullo stato
dell’interiorità e delle emozioni nella nostra
epoca, scrive che questa è l’era della
“narrazione psicologica”, una modalità
di percepire la propria identità, di narrarsela
utilizzando il paradigma delle discipline psicologiche (psicanalisi,
psicoterapie, e così via), in cui necessariamente ci si
centra su se stessi, abbandonando le dimensioni collettive della
ricerca del senso. Un po’ come in certi personaggi di David
Foster Wallace, nevrotici, depressi, disadattati. E profondamente
egoisti.
Fine delle narrazioni collettive, finalistiche,
ottimistiche, ed esplosione delle narrazioni individualizzate, che si
costruiscono mettendo insieme scampoli di cultura hippie, psicologismi
da manuale di autoaiuto, brandelli di gusto
“etnico”, pizzichi di ingenuità, e
– quando capita e serve – proclami sulla
democraticità della Rete.
Meglio se coagulati
attorno all’aspirante guru di turno, ciarlatanesco, effimero
e sincretico, che magari si mette a far politica.
Volti del
neoterico, la fase suprema del postmodernismo.